Evenepoel, Marchand, Duplantis: l'Olimpiade dei campioni infiniti

Succede ogni quattro anni: il mondo si raduna, gioioso e speranzoso, in una città del pianeta e convive, soffre e si esalta e si illude insieme. E se da fuori “premono” polemiche per rivendicare quote di potere, per marcare diversità, per rovinare quest’utopico tentativo, dentro si fa la fila in mensa, accanto, sorridendo, mescolando l’atleta milionario e il tiratore dilettante, il lottatore da 120 chili e la ginnasta da 40, il mito e quello che arriverà in fondo, staccato, testimone dello spirito originario. Quando finiscono le Olimpiadi tornano su le notizie che intossicano il mondo: è come quando si sbaglia il cambio nella staffetta, e il testimone si perde. Ma quando ci sono le Olimpiadi, e succede ogni quattro anno, tutto il mondo, tutti gli inquilini di questo girotondo possono conoscersi, in tutti i versi. E si aspettano i Giochi anche per misurare le frontiere, non quelle politiche ma quelle “antropiche” per capire quanto l’uomo si sia spinto oltre l’ultima misura di se stesso. Per questo abbiamo bisogno dei campioni, per questo abbiamo bisogno delle Olimpiadi come di una fiera dell’umanità nella sua potenzialità, come fosse uno stand per vedere le novità: dove possono arrivare queste gambe? Dove può osare questo cuore? Quanto sono forti queste braccia, questi muscoli? Lo sport è una misura continua: di sé stessi - rispetto al tempo, allo spazio, alle resistenze, agli attriti, al talento - e verso gli altri, avversari che nell’esercizio e nel duello cercheranno di misurarsi a loro volta. Questo criterio già offre uno scopo “etico” che è quello di migliorare. Abbassando tempi o spostando di pochi centimetri un vecchio limite. Però la presenza dell’avversario corrompe questa astrazione: lo sport elegge il migliore, allora lo scopo è vincere, dunque una misura relativa: fare meglio degli altri. Ci sono dibattiti che vogliono dividere e perfino opporre questi due concetti, e ci sembrano pigri, dunque deludenti, perché è comoda la necessità di cullarci nelle ideologie per navigare sereni in un laghetto artificiale sempre più in secca. L’insidia, o lo scopo, è la divisione fra romantici e trionfatori, nella riduzione all’efficienza di questa società. Ma appunto, ci sono le Olimpiadi. E ci sono i campioni, quelli infiniti. Che alzano le braccia, perché vincere è un segno nella storia, ma poi gettono gli occhi sul cronometro, perché vogliono capire dove sono arrivati - e noi con loro: cosa può fare l’uomo? Vogliono misurare i sacrifici, le rinunce, il dolore degli allenamenti: allora serve il tempo, lo spazio, il metro, il punteggio. In alcuni esercizi e in alcuni atleti è stata spudorata una visione spinta all’estremo di questa prova anzitutto rivolta a sé stessi. Le esibizioni di forza di Remco Evenepoel o di Léon Marchand o di Armand Duplantis avevano quasi un disinteresse dell’avversario: erano in gara per conoscere il loro perimetro massimo, certo rassicurati che la dote, una volta consumato tutto il serbatoio, sarebbe stata sufficiente alla vittoria. Ma era netto il messaggio: questa gara sono io. Duplantis è entrato in concorso a 5,95, superando la quota in scioltezza: su quel limite si è fermato il mondo dietro di lui. Tutti gli astisti del mondo sono arrivati con le loro capacità al punto in cui è cominciata l’esibizione del fenomeno, evidentemente disinteressato al loro sforzo. Niente racconta meglio una competizione solitaria - sublime, interiore - quanto il salto con l’asta di Parigi. Duplantis si è misurato con l’assoluto, non con il relativo intorno a lui. Aveva come obiettivo il record del mondo, cioè migliorare se stesso. L’esultanza sfrenata è arrivata dopo quel salto, non certo dopo la prima e già decisiva prova per la medaglia d’oro. Ecco, lo svedese ci ha informato che l’uomo - il migliore - può saltare 6,25. Per ora . Evenepoel ha vinto la cronometro e poi ha stravinto la prova in linea, come fa spesso lui, quando è il migliore di giornata. A un certo punto si mette davanti e pedala. E restano una decina. Pedala, e restano 5 o 6. Pedala, spingendo con stile rapporti per altri massacranti o impossibili, e restano in 3, pedala - e sono 2. Pedala ed è solo. Solo, ripetiamo, sta meglio, sta benissimo. Non succede in salita, dove la forza sulla pendenza seleziona naturalmente: succede in pianura, dove la scia impediva certa protervia. Con Remco bisogna riscrivere qualcosa della Fisica: la scia non serve più, non esiste più. La ruota posteriore di Evenepoel si allontana come la scialuppa per un naufrago sfortunato. E lui pedala, fino in fondo, non si volta, anche su questa strada non c’è una lotta con un avversario. C’è la misura dell’atleta contro l’attrito della delle ruote sull’asfalto, la velocità, il tempo, i watt, i battiti del cuore. Pogacar ha vinto così il Giro e il Tour: per togliere poesia potremmo dire: controllando i dati sul computer, a fine corsa. Per essere sinceri invece scriviamo: donando agli appassionati tutto quello che hanno dentro. I campioni olimpici di questo pezzo sono atleti nudi - e Marchand quasi lo è, coperto solo dei pantaloncini attillati. Nelle sue bracciate vergate in avanscoperta sul gruppo non c’è stata una vasca in cui è sembrato preoccupato delle corsie a fianco: nuotava e guardava le sue mani pescare l’acqua, spingerla indietro per spostare il copro in avanti. Chi nuota pensa all’acqua e al tempo per molte ore al giorno, per molti giorni della sua vita. In allenamento, sarà soddisfatto solo quando ogni passaggio sarà secondo tabella. In gara, anche l’ultimo arrivato dopo aver toccato la vasca si volta svelto verso il tabellone: controlla se è stato all’altezza di quella fatica, di se stesso. Spesso capita di vedere un vincitore che fa seguire all’esultanza una smorfia strana, appena si accorge che il tempo non è quello sperato. Il tumulto è un attimo sovrastato poi dalla felicità dell’oro. Forse questi sono anni così individualisti che anche una competizione - una sfida fra pari - fa perdere di vista il prossimo, l’avversario. Può essere una lettura sociologica, in fondo in molti sport il divismo ormai è costruito, ricercato, conservato. E l’immaginario è otturato da pochi eletti, presenti ovunque. Perfino negli sport di squadra l’ultimo ventennio ha prodotto atleti-azienda superiori al consorzio . E se anche fosse questa la tendenza che comprende le azioni dei nostri campioni Olimpici, nulla toglie al loro eterno pionierismo: un campione deve esserlo nei tempi e negli spazi e soprattutto nel mondo che frequenta. Solo che in quel mondo e di quel tempo e di quello spazio cerca di spostare la conoscenza più avanti. Di guadagnare quel centimetro o quel secondo per tutti, lasciando ai prossimi nuovi limiti da superare. Questo sono le Olimpiadi e questo è il campione, ed è un messaggio di speranza, dunque urgente e necessario in un mondo rancoroso e avvitato: l’uomo può.

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