La trappola col miele: venti anni dall'argento di Atene

"Sta’ attento alla trappola col miele", dice Eric Bana a Ciarán Hinds in Munich, il film di Steven Spielberg. Lo ammonisce, lo mette in guardia, perché è facile cadere in tentazione. Bana è riuscito a resistere; Hinds non ce la fa – anche perché la trappola possiede gli incantevoli lineamenti della suadente Marie-Josée Croze – e le conseguenze per lui saranno tragiche. Topos classico degli anni della Guerra fredda e della letteratura di spionaggio, la trappola col miele è quella cosa a cui non si riesce a resistere. Fatalmente. Piacere immediato, conseguenze imprevedibili. Spesso gli anniversari sono trappole col miele - e gli anniversari di un giorno felice a volte lo sono ancora di più, perché alla dolcezza del miele fa seguito un amaro struggimento. Non esiste diga foranea in grado di respingere quell’onda anomala fatta di sorridente malinconia, soprattutto se sei perfettamente consapevole del fatto che nei vent’anni seguenti di gioie così non ce ne sono più state. Il 28 agosto è una trappola col miele. Di quelle che commuovono. È il giorno del 2004 in cui la Nazionale maschile di pallacanestro scese in campo ad Atene per affrontare l’Argentina nella finale dei Giochi della XXVIII Olimpiade. Un traguardo mai raggiunto prima e mai più raggiunto dopo. È lo zenit del nostro basket. E a due decenni di distanza la forza per essere Eric Bana non ce l’abbiamo; siamo tutti Ciarán Hinds e tutto sommato non ci dispiace affatto. Quella squadra veniva da lontano, aveva fatto un lungo viaggio prima di approdare a O.A.K.A. Era stata d’oro a Parigi, d’argento a Barcellona e di bronzo a Stoccolma; si era presa una pausa in Turchia nel 2001 e aveva riempito il parquet di rimpianti a Sidney e al Mondiale ateniese del ‘98. Veniva da lontano e di strada nei sandali azzurri ce n’era tantissima. Era sopravvissuta all’emorragia di talento che l’aveva privata di Meneghin, Myers e Fucka, ma aveva mantenuto intatte anima e struttura. Perché coach Recalcati, Basile, Galanda, Soragna, Marconato, Pozzecco, Chiacig e Bulleri questo erano, anima e struttura. Una squadra solida, completata da Radulovic, Righetti, Rombaldoni, Mian, Garri. "Siamo stati gli ultimi a vincere una medaglia e sono sempre le ultime imprese quelle che restano in mente", dice Gianluca Basile. Troppo modesto, il Baso – come sempre. Sì, forse ha ragione, ma siamo convinti che sarebbe comunque impossibile dimenticarsi di quella squadra. Troppo forti, quei giocatori; troppo importanti i risultati raggiunti. In fondo, pensare ad Atene significa tornare ogni volta all’ultima storia d’amore felice – perché non farlo? Dopo di allora non è che poi di rimpianti veri e propri ce ne siano stati così tanti. Anzi, forse soltanto uno: Lille, Europei 2015 – ma è quasi un rimpianto fastidioso, perché il pensiero che una squadra con Bargnani, Belinelli, Gallinari, Datome, Hackett, Melli, Aradori e Gentile sia riuscita nell’impresa di non salire sul podio può lasciarti addosso solo quel tipo di sensazione. Dopo il 2004 le sale del museo azzurro sono rimaste desolatamente vuote – c’è solo la teca che contiene il preolimpico del 2021. "Grazie ai social – aggiunge Basile – il ricordo della squadra di Atene e di quelle partite è sempre vivo". Una funzione salvifica, quella dei social – per una volta. Perpetua il ricordo di quell’estate; ci riporta lì, ai suoi tiri ignoranti nella semifinale con la Lituania, all’inchino di Pozzecco nella storica vittoria di Colonia contro gli Stati Uniti, agli azzurri con la medaglia, i sorrisi e la corona di ulivo e a tutto ciò che altrimenti rischierebbe di sbiadire prima e scomparire poi, come accade a Marty McFly nelle foto di Ritorno al futuro. Quattro medaglie in sette anni – dopo il 28 agosto 2004 non ce ne sono più state; due partecipazioni consecutive ai Giochi olimpici – un evento che dopo il 28 agosto 2004 non si è più verificato. Che squadra, quella squadra. La sua parabola era quasi arrivata alla fine, ma è così difficile accorgersi delle cose nel momento in cui stanno avvenendo. Vent’anni dopo è del tutto irrilevante. Teniamoci stretta quell’estate e anche la foto di classe sul podio olimpico, culliamolo ancora quell’argento vinto ad Atene. Bisogna guardare al futuro - mantra contemporaneo, ma perché poi? Sarà anche giusto, ma che male c’è a tornare indietro ai giorni felici se il passato è sicuramente più bello e azzurro del presente? Non è questo il giorno giusto per pensare a tutto ciò che non è stato fatto negli ultimi vent’anni. Alla mancanza di lungimiranza, al fatto di aver dilapidato un patrimonio immenso, all’incapacità mostrata dalle generazioni successive di eguagliare ciò che era stato raggiunto a cavallo del millennio – nonostante il potenziale. In fondo, in questo Paese al futuro non ha mai pensato nessuno. Quindi, oggi, 28 agosto, quel passato lo pretendiamo. Non ci interessa ricordare con rabbia, vogliamo ricordare e basta, vogliamo rivedere gli abbracci e i sorrisi e i canestri di quella squadra che era luminosa anche quando era sporca di grasso e fuliggine. Lasciateci in pace, lasciateci nella fumeria d’oppio di C’era una volta in America, lasciateci guardare gli Azzurri di Atene con gli occhi sognanti e il sorriso incantato di Robert De Niro, lasciateci ripensare a quelle otto partite, perché sono passati vent’anni da quelle due settimane. Non vorremmo sparissero, un giorno o l’altro. A due decenni di distanza nel miele della trappola ci vogliamo annegare.

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