Tour estivo dell'Italrugby, parte 2: sull’Highveld. Con l’apartheid sullo sfondo

Sandton. Il miglio quadrato più ricco e sicuro di tutta l’Africa. L’Italia soggiorna in questo quartiere residenziale di Johannesburg nella prima parte della settimana che porta al primo test-match contro gli Springboks. L’hotel è qualcosa di sontuoso. 20 piani. Un lampadario, se si può definire così, di 20 metri costellato di pietre sbrilluccicanti che penzola in mezzo a stanze, balconi ed ascensori. Piscina. Centro benessere. Un piano intero, riservato, per sale riunioni. Ristoranti. E un collegamento diretto a un centro commerciale nel quale è più facile acquistare una borsa del valore di qualche migliaio di euro che non una maglietta da gioco degli Springboks. . Ma come siamo finiti lì? Gli hotel vengono suggeriti, proposti, consigliati dalla federazione della squadra di casa. Funziona ovunque così. Anche da noi. Si alloggia in strutture che fanno parte di una catena che è sponsor di quella nazionale. Anche gli Springboks sono in zona. 10 km più in là. Ad Hyde Park. Stesso confort, stessa sicurezza ma anche molto meno ambiente extra rugbistico e, di conseguenza, molta più privacy. Fa parte del gioco. E poi ci viene comodo. Lì abbiamo organizzato una serata all’insegna del Made in Italy. Presente Alberto Vecchi, ambasciatore d’Italia in Sudafrica, più altri dirigenti. Sosteniamo la candidatura al cibo italiano per diventare patrimonio dell’umanità da parte dell’UNESCO. Mettiamo in campo, insomma, le nostre eccellenze. Dall’enogastronomia all’abbigliamento. E la comunità italiana del Sudafrica, la più grande del continente con oltre 40.000 unità, si stringe attorno agli Azzurri. Più di 200 nostri connazionali emigrati vengono a salutare Fischetti e compagni. Autografi, selfie, una stretta di mano. Seb Negri e Ross Vintcent, nato in Sudafrica, sono i più richiesti. C’è Naas Botha. Uno dei giocatori più forti di sempre. A lungo recordman di punti segnati col Sudafrica. Apertura vista anche a Rovigo. Una fugace apparizione persino nei Dallas Cowboys in Nfl. C’è anche Lorenzo Mottalini, chef che da oltre 30 anni segue in Sudafrica tutte le varie squadre di rugby che arrivano nella Rainbow Nation e che, gira e rigira, sempre negli stessi hotel vanno a finire. E’ lui che, nel 1995, aveva cucinato per gli All Blacks prima della finale poi persa col Sudafrica. Una finale resa immortale dal film Invictus di Clint Eastwood. Obbligatoria la domanda. “Sei stato tu ad avvelenare i Tutti Neri?”. Ovvia, ma mica poi tanto, la risposta. “Stavano male. Fu un’intossicazione. Ma non sono stato io. Ti dirò la verità a telecamere spente”. E visto che le confidenze devono rimanere tali… Johannesburg dunque. Il luogo comune più utilizzato in Italia a riguardo di Jo’Burg è questo: cosa ci vai a fare? E’ pericolosa e non c’è niente da vedere. D’accordo al 100 % sul tema sicurezza. Ma se chi dice che non ci sia nulla da vedere fa anche il tour operator, beh, meglio cambiare mestiere. Johannesburg è l’essenza del Sudafrica di oggi. Città imprescindibile se si vuole capire il passato e provare a predire il futuro di questa nazione. Johannesburg è la città più ricca d’Africa. Il motore dell’economia di tutto il continente. Non è grande. E’ gigantesca. Impossibile quantificarne gli abitanti. Moltissimi dei quali sono immigrati. E di questi, la percentuale dei clandestini non è bassa. Attira gente da ogni dove. Dallo Zimbabwe, certo. Ma anche dalla Nigeria. Che, per capirci, si trova in un altro emisfero. E’ l’American Dream d’Africa. Non il Sudafrica. Proprio Johannesburg. E proprio come il sogno americano, spesso convive con gli incubi. Il Central Business District è caotico. Macchine ovunque. Gente ovunque. Qui si fanno soldi. La B del CBD di cui sopra è ben meritata. Ma con sé porta ancora tanti, troppi problemi. I quartieri di Braamfontein, Park Station, Hillbrow, Berea, Yeoville sono fra i più pericolosi al mondo. Lì, tuttavia, si trova il Nelson Mandela Bridge, un ponte che passa sopra non ad un fiume, bensì a migliaia di vagoni ferroviari vuoti che, invece di essere smaltiti in qualche modo, sono diventati monumento cittadino. Lì sorge Constitution Hill, la prigione che ha ospitato, tra gli altri, il Mahatma Gandhi, Oliver Tambo, Winnie e Nelson Mandela. Tutte le personalità più importanti nella lotta all’apartheid hanno ‘soggiornato’ lì. “Nessuno conosce veramente una Nazione fino a che non è stato nelle sue prigioni. Una Nazione non dovrebbe essere giudicata da come tratta i suoi cittadini migliori, ma da come tratta i suoi cittadini di più basso rango. E lì, i prigionieri sudafricani, erano trattati come animali”. Ancora Nelson Mandela. Che non è la figura pitturata in maniera parziale e addomesticata nell’Invictus di cui sopra. E se proprio si deve guardare un film al riguardo, date un’occhiata anche a 'Atto di difesa'. Fidatevi. Madiba non ha mai rinnegato il suo essere marxista. Ha apertamente fatto ricorso al terrorismo, ritenuto necessario nella lotta all’abominio della segregazione razziale. Verità da non modificare per capire, se possibile ancora di più, la grandezza del personaggio che la sua maturazione ha condotto in seguito al pacifismo, alla riconciliazione, al perdono. Una storia che ti avvolge all’Apartheid Museum che non sorge lontano da quei quartieri. Una tappa obbligata per capire il perché di quella vergogna. Affinché non si ripeta. Gli Springboks sono stati, fino al 1995, l’orgoglio e il simbolo più perfetto dell’essenza Afrikaans in Sudafrica. Dei boeri. Non dei bianchi. Dei boeri. Che se li paragoni agli inglesi ti guardano male ancora adesso. Perché li hanno combattuti. E, perdendo quelle guerre, si sono dovuto sobbarcare il Die Groot Trek per colonizzare una terra nuova. Trovata poi oltre il fiume Vaal. Da lì il termine Transvaal per indicare, più o meno, l’attuale regione del Gauteng dove sorge Johannesburg. Springboks, quindi, orgoglio dei boeri. Springboks, quindi, odiati dal resto della popolazione nera del paese. Vale a dire oltre l’80% della popolazione. Mandela era uno di quelli. Lo stesso Mandela che poi, in quello straordinario 1995 aveva intuito la potenza, non solo sportiva, di quella squadra. Una squadra capace di vincere mettendo così il Sudafrica sulla mappa dello sport mondiale. Una squadra che da allora è diventata l’orgoglio di una nazione intera. Di tutta una nazione. Che dagli Springboks si sente adesso rappresentata e unita. Un piccolo problema. Come andare a vedere quei posti? Spostarsi da solo? Nemmeno a parlarne. Però immagini di quei luoghi, da usare sempre nello speciale di fine tour, le devo fare. Il lavoro è sempre un’ottima scusa per fare il turista… La risposta arriva dalla reception dell’albergo. Prendere un autista, un driver di fiducia. Convenzionato. Detto. Fatto. Kasa, questo il suo nome, capisce al volo. Mi porta là. Ma la prende alla larga. Prima mi mostra i quartieri residenziali. Quelli dove vive il presidente della repubblica, Cyril Ramaphosa. Proprietà immensamente estesa la sua. Circondata da muri alti 3 metri e sovrastata da filo spinato elettrificato. Una fortezza. Una reggia. Un lusso. Mentre il CBD di Johannesburg non se la passa altrettanto bene. E’ domenica. Non c’è traffico. Altrimenti si andrebbe a passo d’uomo. Kasa mi porta in mezzo ai quartieri più difficili. Sempre con i finestrini alzati e le portiere ben chiuse. Mi ci fa immergere. Il paragone, non so quanto azzeccato ma quello mi è venuto, è con le immagini di Streets of Philadelphia, il videoclip di Bruce Springsteen colonna sonora del film omonimo. Palazzi alti. Imponenti. Senza più un vetro intatto. Occupati da squatters. La polizia non ci va volentieri. Le gang di strada sono ovunque. Più che povertà si dovrebbe parlare di degrado. Sporcizia. Strade piene di buche, a volte prive di asfalto. Manca solo il bidone con il fuoco dentro e bambini che saltano la corda. Ecco, c’è anche quello… Da lontano mi mostra anche l’FNB Stadium. Quello della finale mondiale, di calcio, del 2010. Che si dice essere a Soweto ma che dalla township più popolosa e popolare del mondo dista parecchio in linea d’aria. Ma siccome dire Soweto fa figo, e da queste parti non sono stupidi, è un attimo… Il giorno seguente allenamento degli Springboks. Si incastra perfettamente con gli impegni dell’Italia. Dove si svolge? All’Ellis Park. Fantastico. Lo stadio simbolo del Sudafrica ovale. Ci andiamo. Così lo vedo. Ops. Allenamento spostato. “Vaffanbagno”. L’espressione è più forte ma meglio non scriverla. Spostato dove? Al Johannesburg Stadium. Che si trova esattamente davanti. Nel quartiere di Doornfontein. Quando ci arrivi, e non è giorno di partita, capisci perché tutti, caldamente, ti dicono di starci lontano, di lasciar perdere. Anche solo circumnavigarlo in auto non è semplicissimo… Con l’auto arriviamo all’ingresso dello stadio. Chiedo se l’autista, e la macchina, possono entrare con me. Per ragioni di sicurezza. Gli steward non battono ciglio e acconsentono. L’autista è incredulo. Parcheggia sulla pista d’atletica mentre arrivano i due, sì due, pullman che trasportano i Boks. “Moreno, ma significa che posso restare qua e vedere gli Springboks? Non li ho mai visti dal vivo”. “Ma certo!” E la tentazione è quella di essere io a farmi pagare e non viceversa. “Moreno, un’ultima domanda. Dove è Coach Rassie?”. Glielo indico. Sorride. Sembra contemplare un semidio… E qua c’è da aprire una parentesi. Doverosa. Coach Rassie è Rassie Erasmus. L’Allenatore Capo/Director of Rugby/Tutto degli Springboks. Quando è stato chiamato, nel 2018, la nazionale di rugby sudafricana era reduce dall’umiliante 57-0 subito in Nuova Zelanda preceduto dall’ancor più devastante sconfitta in Italia. Oltre alle partite, gli Springboks stavano perdendo anche la propria identità, impegnati a inseguire e scimmiottare un gioco non loro che non stava, evidentemente, dando i frutti sperati. Non bastasse questo, aggiungiamo il diktat imposto dal governo sudafricano. Non quello sportivo. Quello politico. Il 50 % degli atleti a foglio gara deve essere nero. Le cosiddette quote razziali. Erasmus arriva. Cambia il modo di giocare della squadra. Riportandolo alle origini. Estrema fisicità. In attacco e in difesa. Calci alti e pressione. Fasi statiche solide. Immette quanti più giocatori di colore possibile sfruttandoli per le loro caratteristiche innate. Grossi in prima linea, veloci dietro. E se non arriviamo al 50 % faremo andare bene al governo anche il 40… Ma soprattutto fa capire ai giocatori la loro importanza agli occhi della nazione. Una nazione con infiniti problemi interni. Disoccupazione, criminalità, malattie, povertà. Dobbiamo diventare la speranza di questo paese. Il suo orgoglio. I suoi rappresentanti. Uno svago dai problemi di ogni giorno. Siamo dei privilegiati. Giocheremo per la nostra gente. Portandola in campo con noi. Il mantra di Erasmus è questo e riesce a far penetrare questi concetti nelle teste e nei cuori dei suoi ragazzi. Si dice che per far rendere al meglio un italiano serva inserirlo in un gruppo. A un argentino serve un clan. E non è la stessa cosa. Rimanendo al rugby, i polinesiani hanno bisogno di una famiglia. Con un padre che sappia alternare bastone e carota, propendendo preferibilmente per quest’ultima. Un neozelandese scende in campo come se stesse andando al lavoro. Pretende risposte precise a domande precise. A quel punto si siederà alla scrivania, aprirà la valigetta 24 ore e darà il suo massimo. Perché a rugby sa giocare. Un sudafricano no. Un sudafricano ha bisogno di una missione. Chiara. Condivisa e condivisibile. A quel punto diventerà una macchina. Erasmus ha saputo toccare i punti giusti. Ripagato da due titoli mondiali e una serie vinta sui British & Irish Lions in piena pandemia. Sarà che ho sempre avuto un debole per questa nazione e questa nazionale. Sarà che quando sei l’unico giornalista straniero in terra straniera vieni visto con affetto dai tuoi interlocutori. Sarà quel che volete, ma alla fine, dopo averlo intervistato ufficialmente, dopo averci parlato privatamente, sono riuscito a dirgli una cosa. “Coach, grazie per quanto sta facendo per la sua nazione. Potrebbe essere il Paradiso in terra senza tutti quei problemi. E lei sta facendo tanto per renderlo tale agli occhi della sua gente”. Il sorriso e l’abbraccio che ne sono seguiti sono come quelli della pubblicità di una nota carta di credito… Paradiso terrestre. Ho esagerato? Non direi. Una nazione grande. Tanto grande da avere ogni sorta di paesaggio naturale. Il turismo, in tal senso, è una risorsa da coltivare. Un po’ meglio di quanto finora fatto. Se è vero che diversità è ricchezza qua siamo all’opulenza. Il sottosuolo è ricco di giacimenti preziosi. . Hanno oro, diamanti, uranio. Hanno soldi. Più di tutti in Africa. Se solo riuscissero a convivere tutti quanti… Già. Gli ultimi passi sul cammino del perdono e della riconciliazione sono ancora lontani dall’essere compiuti. Questi Springboks, tuttavia, possono essere un bel mezzo, un veicolo, per compierne alcuni nella giusta direzione. Gli Azzurri, intanto, continuano ad allenarsi. In palestra. Che dista 70 metri dall’albergo. 70 metri da compiere in gruppo, con guardie armate in testa e in fondo al corteo. E telefonini bene in tasca. Siamo sì a Sandton, ma siamo pur sempre in una delle città più pericolose al mondo. E in campo. Quello del St. Peter’s College. Periferia nord di Johannesburg. All’interno di un campus per studenti che ha solo una pecca. Il colore del prato. Giallo. Arido. Secco. Ma siamo sull’altopiano, sull’highveld. Fa parte della natura e del paesaggio locale. Cambiamo 3 volte formazione base in 3 giorni. Seb Negri è stato colpito dal fuoco amico. Concussion. E speriamo di riaverlo per l’ultimo test. Riccardo Favretto, in rampa di lancio, si blocca per un problema muscolare. Anche lui rientra in Italia da dove viene fatto arrivare un altro deb: Leonard Krumov. Niente da fare nemmeno per il capitano. Giacomo Nicotera è out per un problema alle costole rimediato contro la Namibia e riacutizzatosi negli allenamenti. La sua esperienza da capitano è durata una partita. Viene sostituito come tallonatore da Giampietro Ribaldi . Come capitano viene sostistuito da Niccolò Cannone. Ecco. Niccolò Cannone. Anticipiamo i tempi. Le due partite, e le due settimane, vissute da capitano della squadra lo hanno fatto maturare. Cercavamo di allargare rosa e leader. Siamo arrivati allo stressare la nostra profondità. Scovando pepite rare e promesse da mantenere. Da Johannesburg andiamo a Pretoria. Su internet si legge: “Da evitare le zone come Arcadia”. Ecco. L’albergo, come al solito, lo ha scelto il Sudafrica che si è ben guardato dal lasciare Johannesburg. Guardo su Google Maps e scopro che il nostro hotel cade esattamente nella A di Arcadia. Non la prima, non l’ultima. In mezzo. All’arrivo del pullman, Marco Zanon incrocia lo sguardo di un locale. Che gli mima il taglio della gola. “Non usciamo dall’albergo. D’accordo?”. “D’accordo”. Ma come si fa a non andare ai meravigliosi Union Buildings? Stanno a 7 minuti a piedi dall’albergo. La sicurezza là è totale. E’ la residenza del governo. Sì, ma il problema sono quei 7 minuti. Vai di driver privato allora. Devo o non devo raccontare quanto sto vivendo come un vero giornalista? Union Buildings e Voortrekker Monument. Il monumento alla cultura Afrikaans. Un unicum. Che ricorda, esalta, celebra, la marcia dei boeri dal Capo Occidentale a queste terre. Ma che celebra, esalta e ricorda anche il credo stesso afrikaner. Quello più intimamente legato all’apartheid. Non sono riuscito a capire come venga percepito questa attrazione turistica. Forse, il solo di fatto esistere e sopravvivere la dice lunga sulla voglia, imposta o vera non ci interessa, di coesistenza delle varie anime che hanno fatto la storia di questo paese. Dalla cima lo sguardo copre tutta la città. Ma se si guarda oltre, verso il sole che tramonta sull’altopiano sembra di scorgere tutta la storia di questa nazione che adesso è la Rainbow Nation. Secondo test. Sudafrica 1204 Italia 388. Non è il risultato finale ma la base di partenza. Sono i caps internazionali delle due squadre in campo. Se le metti a confronto e pensi al vincere o imparare… I primi 20 minuti al Loftus Versfeld sono tremendi. Pubblico ostile. Aria rarefatta. Il pallone ce l’hanno sempre loro. Che caricano, caricano, caricano. E tu devi placcare, placcare, placcare. Segnano due mete in 20 minuti. Una volta avremmo ceduto. E i punti sarebbero stati tanti. Troppi. Adesso no. Si dice che la difesa sia il vero termometro di una squadra. E allora, pur sotto 28-3 e 4 mete a zero alla pausa, questa squadra sembra star bene. Nel secondo tempo abbiamo qualche pallone in più. Lo sfruttiamo. Segna Manuel Zuliani. Gran tournée la sua. Loro non ci stanno. Mettono la Bomb Squad mentre partono fuochi d’artificio e slogan pubblicitari. Fuori 5 giocatori dentro 5 giocatori. Più forti dei primi. Ma noi, la Bomb Squad, e qua citiamo lo stesso Rassie Erasmus, la disinneschiamo. Finisce 48-24 per loro. Ma il secondo tempo, per quanto possa contare, finisce 21-14 per noi. Con le mete di Niccolò Cannone e Pablo Dimcheff, che segna non solo al debutto ma alla prima palla toccata in Nazionale. Meglio di così… Rassie Erasmus si dice frustrato. Quella meta subita da drive non gli va giù. Ma poi ragiona ed esclama. “Certo, abbiamo anche vinto e fatto 6 mete…”. Lasciamo l’highveld. Ci si sposta a sud. L’ultima tappa del viaggio in Sudafrica sarà nell’Eastern Cape, a Port Elizabeth, in riva all’Oceano Indiano.

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Tour estivo dell'Italrugby, parte 2: sull’Highveld. Con l’apartheid sullo sfondo

Moreno Molla