Perché lo sport Usa si sta spostando a Las Vegas

Jerry Tarkanian inquadrò la situazione con poche, scientifiche parole: "Bisogna dire la verità: Las Vegas non ha nulla di suo. Qui arrivano i più grandi artisti e uomini di spettacolo del mondo, ma una volta finito lo show o il ciclo di show se ne vanno. Mentre UNLV è parte fissa di questa città. I figli dei finanziatori non vengono al college qui, vanno a Southern California o Stanford, i finanziatori non sono venuti qui e nemmeno chi si è laureato qui dice di averlo fatto. Ma tutti ci adorano". Era il 1987 e Jerry Tarkanian era nel suo periodo di maggior splendore e notorietà. Coach della squadra di basket di UNLV, ovvero University of Nevada-Las Vegas, era in perenne lotta contro il Sistema, il sistema dello sport di college che lo aveva sempre guardato con sospetto, venendone ricambiato con estremo vigore. Nella sua carriera, iniziata a Long Beach State nel 1968, aveva infatti sempre agito ai limiti del regolamento, ed era ad esempio stato il primo ad utilizzare in modo massiccio giocatori provenienti dai junior college, quindi da atenei di secondo livello certamente non rinomati per la qualità degli studi: in molti casi, questi ragazzi provenivano da realtà disastrate ed erano semi-analfabeti, ma sapevano giocare a basket, e bene. Arrivato a Las Vegas nel 1973, aveva presto portato la squadra, iscritta al massimo livello universitario solo dal 1970, alla prima di quattro Final Four, vincendo poi nel 1990 in maniera travolgente, 103-73 su Duke, tuttora massimo scarto in una finale. Anche lì, però, giocatori a rischio, soggetti di dubbia moralità a girare attorno alla squadra, continue indagini della NCAA, l’organismo che gestisce lo sport di college, varie squalifiche di giocatori, addirittura 10, a turno, nell’anno del trionfo, e l’esclusione dall’edizione 1991 del Torneo, poi differita al 1992 per permettere ai Runnin’ Rebels - soprannome perfetto, per entrambi i vocaboli, visto l’altissimo ritmo delle partite - di difendere il titolo. In quegli anni, UNLV era l’unica vera attrazione sportiva di Las Vegas e una delle poche realtà cittadine, proprio come diceva Tarkanian, ad essere fisse e non temporanee. Anche per questo, a bordo campo e a volte anche nei corridoi e in luoghi dove non avrebbero dovuto mettere piede, giravano tutti i personaggi più in vista della città, perennemente in odore di malaffare, sospetto che da sempre accompagna questa località fondata sui casinò, sulle scommesse, sull’effimero, sul volgare, sull’esagerato, sul mercimonio, tutte caratteristiche evidenziate da film come 'Casinò', il capolavoro del 1995 di Martin Scorsese, dal primo della ridanciana trilogia 'The Hangover', in italiano 'Una notte da leoni', dalla serie televisiva 'Affari di famiglia'. Ai tempi di Tarkanian la prima fila a bordo parquet era soprannominata ‘Gucci Row’, la Fila Gucci, per il costo dei biglietti e per la tendenza degli abbonati a esibire capi di vestiario e gioielli, in una città in cui l’ostentazione è stile di vita. Anche i ricchi e i famosi andavano e venivano, come tutti, però: in un libro pubblicato nel 2004, 'Sun, Sin & Suburbia', lo scrittore Geoff Schumacher ricordava come Las Vegas fosse provvisoria a tutti i livelli, e come quasi nessuno, delle decine di migliaia di nuovi residenti annuali, rispondesse mai con convinzione alla domanda "ma ti piace questa città?", per non sbilanciarsi nel caso di rapida fuga, disillusione, delusione. Un quadro complesso, reso ancora più difficile da interpretare proprio per il flusso costante in entrata e uscita e per l’attenzione, comprensibile ma a volte esagerata, che all’esterno veniva data agli aspetti peggiori della vita locale. Sono memorabili ad esempio i reportage e i libri di giornalisti e scrittori come Hunter S. Thompson, Mario Puzo, Nicholas Pileggi , ma l’accusa che spesso viene mossa a loro, e a decine di altri, è quella di essere ‘parachute journalists’, ovvero gente che viene metaforicamente paracadutata in un luogo, lo descrive poi ne fugge, dopo averne magari data una lettura solo parziale e piegata alle esigenze, di solito denigratorie. In alcuni casi però si trattava di semplice ritratto di una realtà in costante cambiamento e dunque priva di appigli anche morali: dal 1946 Las Vegas è la città americana in maggior crescita percentuale di popolazione, e dal 1990 ai tradizionali centri di divertimento si aggiunsero ulteriori, giganteschi complessi con hotel, teatri, casinò, che sostituirono strutture a loro volta mitiche ma che stavano perdendo colpi. Proprio tra quel 1990, casualmente l’anno del trionfo di UNLV e Tarkanian, e 2000 la popolazione del circondario aumentò addirittura dell’86%, e questo fece di Las Vegas l’unica metropoli americana per la quale la pagina di Wikipedia, alla voce ‘illustri residenti’, distingua tra chi ci è nato e chi ci abita solamente: tra i primi, celebri Andre Agassi e i giocatori di baseball Kris Bryant e Bryce Harper. Era, insomma, 'Sin City', la Città del Peccato, per pubblicizzare la quale l’ente turistico, nel 2003, aveva coniato lo slogan ‘what happens here, stays here’, ovvero quello che accade qui resterà qui, non lo saprà mai nessuno. Jerry Tarkanian non c’è più dal 2015, quando a 84 anni ha chiuso una vita frutto di circostanze familiari inimmaginabili , e dal momento di quella sua dichiarazione anche quella Las Vegas non c’è più: resta una certa aria decadente, restano - come altrove, peraltro - le volgarità individuali e collettive, restano le miserie dei parassiti che si appoggiano ai grandi centri cercandone le briciole. Ma il panorama è diverso, e non per nulla per celebrare la città ora si dice ‘what happens here, only happens here’, quel che accade qui accade solo qui, e la caratteristica principale dei grandi eventi non è più la transitorietà ma la stabilità, una rivoluzione totale, un giro a 180 gradi di prospettive. UNLV c’è ancora, ma molto meno rilevante sul piano cestistico, mentre ora la scena è dominata dai Vegas Golden Knights della NHL, dai Las Vegas Raiders della NFL, dalle Aces della WNBA e, tra qualche anno, dagli attuali Oakland A’s della MLB, che proprio in questi giorni completano una permanenza di 56 anni nella città della baia di San Francisco in un clima di tristezza e contestazione, tra sedili portati via dallo stadio e, per l’ultimissima di stasera, un servizio di sicurezza rinforzato per evitare disordini. Come per i Raiders, anche per gli Athletics la destinazione passa da una città decadente e uno stadio ormai inservibile ad una località che costruisce, ospita, attira, investe, contando sulla tradizione di storia in perenne divenire per osare strutture - private, certo, ma autorizzate e incoraggiate - come la ormai celebre Sphere, che ha aperto una nuova dimensione per concerti ed eventi e alcuni giorni fa ha stabilito un record di incassi e di spettatori per la UFC, 22 milioni di dollari e un tutto esaurito da 16.024 spettatori. Gli A’s prima dovranno però giocare per tre anni a Sacramento, nello stadio dove da tempo si esibiscono i River Cats, succursale di AAA dei San Francisco Giants, ma da parecchi mesi si fa notare come le condizioni del Sutter Health Park siano negative anche per l’immagine della lega: piccolo e soprattutto in una zona della città in cui nel luglio scorso si sono superati i 40° in parecchie occasioni. Per sopportare le 81 partite degli A’s e le 75 dei River Cats dovrà forse essere installato un terreno in erba artificiale di nuova generazione, in grado di non riflettere calore, e si prevede di giocare il più possibile la sera e alcune volte addirittura la mattina: tutto questo, seppur gravoso, contrasterà ancor più con la magnificenza dello stadio in cui gli A’s dovrebbero iniziare a Vegas dal 2028. Tutto questo è stupefacente, se si pensa che per decenni Las Vegas nemmeno poteva essere nominata nell’ambito dello sport professionistico. Il motivo era chiaro: le scommesse. Che furono legalizzate, nello Stato del Nevada, nel 1931, e fu un paradosso: le autorità federali avevano infatti appena sguinzagliato centinaia di agenti per scovare e far chiudere le migliata di bische e clandestine nate in buona parte con l’inizio della Grande Depressione ma non riuscirono a bloccare la decisione presa in Nevada, che divenne così lo stato in cui tutto, sul piano dell’azzardo, era lecito, nonostante periodici interventi di questo o quel senatore o deputato motivati da ragioni etiche, prima ancora che istituzionali. Un paradosso doppio, tra l’altro: perché se l’esplosione demografica ed economica di Las Vegas è dovuta all’assenza del governo centrale sul tema scommesse, la sua stessa esistenza si deve proprio al governo medesimo e ai cospicui, decisivi investimenti fatti prima per la costruzione della diga di Hoover, che diede lavoro a migliaia di persone, poi allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale che richiese uno sforzo industriale ed estrattivo delle miniere, alla Guerra di Corea, che portò al consolidamento di una base aerea locale, e alla Guerra Fredda, con l’utilizzo di una località a 60 chilometri per i test delle bombe nucleari. Sopravvivenza materiale grazie all’intervento del governo e sopravvivenza economica grazie al suo mancato intervento sul tema delle scommesse, allora: uno dei tanti cambi di narrazione di una città che continua ad essere difficile da definire e che si presenta in modo diverso a chiunque se ne occupi. Alle perplessità sulle scommesse, va detto, si sommavano i timori legati proprio alla composizione demografica della città: troppi i residenti temporanei o provenienti da località con squadre di cui erano rimasti tifosi, e dunque potenzialmente indifferenti alla presenza di una franchigia locale, e troppi impegnati nei casinò e nei luoghi di divertimento durante i fine settimana o di sera, e dunque impossibilitati ad andare all’arena o allo stadio. Anche se, su questo punto, i pareri non erano unanimi. Ma quale è stato il punto di svolta dal ‘what happens here, stays here’ al ‘what happens here, only happens here’? Sempre il solito, le scommesse, o meglio la loro liberalizzazione. Nel 2018, infatti, la Corte Suprema ribaltò una legge del 1992 legalizzando le scommesse sportive in tutti gli Stati Uniti, e quindi non solo nel Nevada, nel Delaware, nel Montana o nell’Oregon. La decisione della Corte nacque dal tentativo di portare in superficie quello che spesso comunque bolliva, illegalmente, sotto la superficie, e che poteva esprimersi in mille rivoli: in teoria, infatti, anche i popolarissimi concorsi pronostici sul Torneo NCAA di basket, che sono la principale attività non lavorativa negli uffici e nelle scuole a inizio marzo, sono fuorilegge e perseguibili, anche se nessuno saggiamente lo fa. E nel momento in cui, allora, Las Vegas equivale a Philadelphia o Chicago, sul piano della possibilità teorica di scommettere, allora cade il tabù e la città può finalmente ospitare eventi e addirittura squadre. Del resto, non muovendosi legalmente per fermare società come DraftKings e FanDuel, che dal 2012 e 2009 rispettivamente avevano creato una sorta di fantacalcio su vari sport strutturandolo in modo da mescolare abilità a scommessa, le leghe avevano dimostrato un ammorbidimento verso il mondo dell’azzardo, e non per nulla già un paio di anni prima della sentenza era nata l’idea dei Golden Knights, a cui la NHL concesse di giocare a Las Vegas dal 2017. Subito con enorme successo di pubblico e risultati, culminati nel 2023 con la vittoria del titolo. L’anno dopo arrivarono, da San Antonio, le Stars, che cambiarono nome in Aces, e nel 2020 il colpo più clamoroso, lo spostamento dei Raiders, che per anni avevano meditato l’addio alla solita Oakland, e sempre, come per gli A’s, per motivi legati al decadimento del Coliseum e all’impossibilità di avere un nuovo impianto. I Raiders, del resto, si erano già trasferiti a Los Angeles dal 1982 al 1994 e questo è stato per loro solo un altro cambio di indirizzo: va ovviamente specificato che per attirare in città tutto questo ben di Dio ci sono voluti impianti di ultima generazione come l’Allegiant Stadium, che qualche mese fa ha ospitato il Super Bowl e che formalmente sorge non a Las Vegas ma a Paradise, ovvero semplicemente dall’altro lato della Strip, il tratto di strada che taglia in due la parte più vivace dell’agglomerato urbano. Che a Las Vegas si potesse giocare un giorno un Super Bowl era una prospettiva inimmaginabile anche solo 15 anni fa, considerando che la NFL si era addirittura sempre rifiutata di ospitare spot pubblicitari della città durante le telecronache della finale: e va ricordato che Mark Davis, figlio ed erede del fondatore Al e padrone anche delle Aces, forzò la mano alla lega stessa, procurandosi tra gli altri proprietari un numero di sostenitori sufficiente a far approvare il trasferimento. Ecco, allora, la sconvolgente trasformazione, che si arricchirà nel 2028 con gli A’s e chissà quando con una squadra NBA, sognata da LeBron James e non solo: ai tempi di Tarkanian le maggiori attrazioni, ad eccezione della sua UNLV, arrivavano in città solo a titolo temporaneo, mentre ora arrivano e restano. Almeno per un po’, perché chi giunge per aver abbandonato Oakland o San Antonio potrebbe fare altrettanto con Vegas, un giorno.

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