La gente di Oakland è rimasta senza sport

Per primi, nel 2019, se ne sono andati i Golden State Warriors della NBA – mica dall’altra parte del mondo, solo dall’altra parte del ponte ma se siete di Oakland, specialmente oggi, fra casa vostra e San Francisco c’è tutta la differenza che c’è tra tra un McJob e sedere nel board di un'azienda big tech. Poi hanno detto addio i Raiders, della NFL, che a dire il vero se n’erano già andati una volta , per poi tornare dopo una dozzina d’anni ed emigrare nuovamente, stavolta pare proprio per sempre, a Las Vegas, nel 2020. E ora, ultimi della pista, se ne vanno anche gli Athletics delle MLB, pure loro promessi sposi a Las Vegas ma con tappa intermedia a Sacramento, dove – pur di andarsene da Oakland – gli A’s accetteranno di giocare in uno stadio da minor league, in una città che ha dato sì i natali a Joan Didion e Greta Gerwig ma che certo non brilla per appeal. Neppure Oakland, a dire il vero. Però Oakland è diversa. Oakland ha tradizione e storia, in campo e fuori. Gli Warriors ci hanno vinto quattro titoli NBA, il primo nel 1975 con Rick Barry, gli altri tre recentemente con Steph Curry, nel 2015, nel 2017 e nel 2018. I Raiders hanno vinto due Super Bowl, nel 1976 e nel 1980. Gli A’s quattro World Series, tre consecutive dal 1972 al 1974 e poi un’altra ancora nel 1989. Oakland ha visto gli “Splash Brothers” e i “Bash Brothers” ; ha vinto con il “Commitment to excellence”, la parola d’ordine coniata da Al Davis, padre-padrone dei Raiders, e con la forza dei numeri, “Strenght in numbers” . La gente di Oakland Ma la cosa bella è che non sono i trionfi sportivi delle loro squadre, ciò che ha sempre reso le squadre sportive di Oakland speciali. È la gente. La gente del posto. Chi va – o meglio, andava... – a tifare. E chi magari ci lavora. Non è un caso che Tim Keown, giornalista che la Bay Area la conosce bene, dovendo raccontare l’ultimo addio, quello degli Athletics, parta proprio da loro. Da "Ice Cold Kenny Bo", al secolo Kendrick Thompson, che all’Oakland Coliseum vende birre , come suo patrigno prima di lui; da “Right Field Will”, Will MacNeil, e “Left Field Jenny”, Jennifer LaMarche, tifosi uniti da una fede e da un soprannome, che indica il posto sugli spalti dove li si può – o meglio, poteva – sempre trovare; da Rob Roberts, che ci ricorda come il termine “fan” sia l’abbreviazione di “fanatic”, e solo un fanatico può collezionare – come ha fatto Bob – 306 mazze usate in partita, più migliaia di altri pezzi di memorabilia; oppure da Kirk Morrison, nato e cresciuto a Oakland, che per i Raiders nella NFL ci è arrivato a giocare, per 5 anni, e che prima di scendere in campo, ogni partita, si fermava un attimo nel tunnel degli spogliatoi a respirare quello che può descrivere solo come “just an Oakland smell”, l’odore di Oakland. E come loro ce ne sono tanti altri, Krazy George, ad esempio, l'uomo - si dice - che ha inventato la ola . Per questo nel 2022, quando per Sky Sport ho seguito la finale NBA tra Golden State e Boston - la prima che gli Warriors disputavano dall’altra parte del ponte, a San Francisco, al nuovissimo Chase Center - sono andato all’angolo tra Grand Avenue e Webster Street, proprio nel cuore di Oakland, per vivere l’attesa di una partita di finale NBA in uno degli sports bar più caldi della città, tra quei tifosi rimasti orfani dei loro campioni. E come per Kenny, Will, Jenny, Rob e Kirk, ad ascoltare le parole di Michael e Sean, di Ayisha e Jabari si veniva messi al corrente della stessa identica storia. Di come “Oakland, non San Francisco, avesse bisogno degli Warriors”; di come la loro partenza fosse stata “a big loss”, una grande perdita; di quando “gli hot dog alle partite costavano ancora un dollaro e cinquanta”; di quando la squadra “faceva schifo”, ma si andava lo stesso alla Oracle Arena, sorretti da una fede incrollabile Bill Davis e il potere salvifico dello sport La gente di Oakland ha reso speciale lo sport di Oakland. In “Non qui, non altrove”, un bel romanzo pubblicato nel 2018 da Tommy Orange, autore anche lui di Oakland con tanto sangue nativo americano nelle vene, uno dei personaggi è Bill Davis, veterano del Vietnam, e Orange lo introduce così: “Aveva cominciato a lavorare allo stadio nel 1989, dopo essersi fatto cinque anni a San Quentin per aver pugnalato un uomo”. Oakland è anche questa, non certo una città ricca, non certo un posto facile. Ieri per le sue strade sono nate le lotte delle Pantere Nere di Huey P. Newton, cresciuto qui; oggi prendendo a prestito il nome di una fermata della BART, la metrò locale, un regista di gran talento come Ryan Coogler racconta tutta la disperazione attuale. Quella di un posto dove ancora oggi il tasso di omicidi per centomila persone sfiora quota undici, contro una media nazionale che non arriva a uno. Ecco perché Bill Davis – nelle pagine del libro di Orange – sembra essere il simbolo perfetto della città. Per le difficoltà che ha dovuto attraversare, ma non solo. Anzi. “Lo stadio, la squadra, gli Oakland Athletics, un tempo per lui erano stati la cosa più importante del mondo, durante il periodo magico di Oakland, dal 1972 al 1974, in cui gli Athletics avevano vinto tre campionati di fila. Cose che non succedono più. Ormai il baseball è diventato un business, non lo permetterebbero mai. Quelli per Bill erano stati anni strani, anni tremendi. Nel '71 era tornato dal Vietnam dopo aver disertato, congedato con disonore. Odiava il suo Paese e il suo Paese odiava lui. Aveva una tale quantità di droghe in corpo che è difficile credere che possa ricordare ancora qualcosa. Più che altro ricorda le partite. Allora le partite erano tutto ciò che aveva. Aveva le sue squadre, e loro avevano vinto per tre anni di fila, proprio quando lui ne aveva bisogno, dopo quella che gli era parsa come una vita intera di sconfitte. Erano gli anni di Vida Blue, di Catfish Hunter, di Reggie Jackson, di quel bastardo di Charlie Finley. E quando i Raiders avevano vinto nel '76, due campionati che nessuna squadra di San Francisco si era mai aggiudicata, era bello essere di Oakland, sentire di far parte di quella cosa, di quelle vittorie”. Perché lo sport ha un potere speciale, può arrivare a far magie, salvare vite. Non ci credete? Ancora Tommy Orange, ancora Bill Davis. “Un altro anno buono venuto fuori da un brutto momento era stato il 1989, quando gli Athletics avevano spazzato via i San Francisco Giants. Quando, nel bel mezzo del campionato, appena prima che cominciasse il terzo incontro, la terra era scivolata. Aveva ceduto. Aveva tremato. Il terremoto di Loma Prieta aveva fatto sessantatré vittime, o sessantatré persone erano morte in seguito a esso. La Cypress Freeway era crollata, e un'auto era precipitata dal Bay Bridge, una sezione del quale aveva ceduto proprio nel mezzo. Quel giorno il baseball aveva salvato la vita alla gente di Oakland e della Bay Area. Se molti non fossero rimasti a casa a guardare la partita alla televisione si sarebbero trovati in autostrada, sarebbero stati là fuori, dove il mondo stava crollando, cadendo a pezzi”. Proprio – metaforicamente – come oggi, quando il Coliseum ha spento i riflettori dopo l’ultimo inning di A’s vs. Rangers. L’ultima recita sportiva a Oakland. Triste, ma almeno vincente .

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