Nello sport nascerà mai un altro Bo Jackson?

Non ci sarà mai più nessuno come Bo Jackson, mai. Personaggio e atleta unico, capace di eccellere in contemporanea nel baseball e nel football professionistico, anzi di essere convocato all’All-Star Game MLB nel 1989 e al Pro Bowl NFL nel 1991, traguardo mai raggiunto prima da nessuno: senza nemmeno menzionare il fatto che in quell’All-Star Game fu addirittura l’Mvp, il miglior giocatore. Un fenomeno vero, nel senso filosofico del termine che indica qualcosa che appare ma che potrebbe anche non essere reale, perché reale, a tratti, Jackson non è sembrato: e se non esistessero filmati e testimonianze di ogni tipo sarebbe difficile credere a quello che ha fatto e alla traccia che ha lasciato, a carriera in corso e dopo il ritiro, avvenuto trenta anni e due mesi fa. A un certo punto, e parliamo dello stesso periodo in cui Michael Jordan emergeva e si avviava a dominare il mondo del basket e della pubblicità, Jackson venne ritenuto il più grande atleta vivente, e con piena ragione. Atleta, sul piano strettamente fisico, di una dimensione rara, con una potenza e una fluidità inaudite, emanate da 185 centimetri di statura e circa 99 chili di peso, con cosce scolpite nel marmo, la sua caratteristica più evidente, e una muscolatura che incredibilmente non era frutto di lavoro incessante ma del DNA, anche se si tratta sempre di considerazioni pericolosissime perché si rischia di cadere nella tentazione di parlare di un predestinato e non di uno che il suo percorso lo ha saputo trovare con le sue forze. Il ricordo di Bo Jackson torna spesso, ancor più quando, come in questi giorni, si gioca la serie di playoff tra Kansas City Royals e New York Yankees. I Royals, la sua squadra del periodo migliore, 1986-1990, e gli Yankees, di cui vestì la divisa per due anni, 1989 e 1990, un altro esponente pazzesco della ridotta categoria multisport, Deion Sanders: giocatore di baseball in quattro squadre diverse tra 1989 e 1995, con prolungamenti nel 1997 e 2001, e giocatore di football tra 1985 e 2005, addirittura, ma con un temporaneo ritiro dopo il 2001. Sanders, classe 1967 quindi cinque anni più giovane di Jackson, ha dunque avuto una carriera più lunga e di maggior successo personale, essendo l’unico nella storia ad avere giocato un super Bowl e una World Series, nel 1992, e ha creato un personaggio mediatico che dura nel tempo, molto più di Jackson che ha un carattere molto diverso, ma nel suo caso si è sempre parlato di eccezionali doti di versatilità e talento senza però l’elezione al ristretto ambito dei migliori della storia, come è capitato al collega, che a un certo punto portò uno scout molto noto, Hugh Alexander, a dire “sono osservatore da 50 anni, e tanti mi chiedono chi sia stato il più grande. La mia risposta è sempre la stessa: Babe Ruth, Joe Di Maggio, Willie Mays e Roberto Clemente. Non dico Stan Musial e Hank Aaron perché ho imparato che i migliori ti possono battere in cinque maniere diverse: con il lavoro difensivo di presa e di tiro, con la corsa sulle basi, con la media battuta e con i fuoricampo. Solo quei quattro sapevano fare tutte queste cose, ma comincio a pensare che presto dovrò aggiungere un nome, quello di Bo Jackson”. Questo per dare la misura: Sanders, che meriterebbe e meriterà prima o poi un articolo a parte, è quello della costanza eccellente, delle corse in aereo tra la fine di una partita di football e l’inizio di una di baseball, delle luci costantemente accese, mentre Bo - e dopo un po’ bastava dire Bo, senza aggiungere altro - è quello che avrebbe potuto sconvolgere la storia dello sport, e in parte lo ha fatto. Partendo, storia purtroppo già vista e dolorosa da raccontare, perché sconfina nel voyeurismo, da una situazione non particolarmente favorevole a livello familiare e sociale. Cresciuto a Bessemer, appena fuori la grande Birmingham, in Alabama, ottavo di dieci figli di una coppia che però viveva separata, accusò in maniera forte la mancanza di una figura paterna di riferimento. Psicologia spicciola? No, parere del diretto interessato, che successivamente studiò all’università psicologia infantile proprio per rimediare a certe lacune ed occuparsi di chi ne aveva: “mio padre viveva dalla parte opposta della città, i miei tre fratelli maggiori erano sempre via e io non avevo nessuno con cui parlare, per cui finivo col litigare con le mie sorelle e fare danni ovunque”. Danni veri, da bullo, favorito presto da un fisico imponente, da occhi profondi su un viso ampio, dai modi decisi: faceva a botte con tutti, rubava ai compagni di scuola i soldi per il pranzo e quando gli dicevano, piangendo, che così non avrebbero potuto mangiare glieli restituiva, ma solo in prestito. Sempre a Ira Berkow, del Times, disse “mi mettevo sempre nei guai: rubavo bici, andavo in giro con gente poco raccomandabile. Ero scontroso e testardo e se mia madre Florence mi diceva di fare una cosa io facevo il contrario. Lei faceva la custode in un hotel e quando tornava a casa non me la faceva passare liscia, ma dopo un paio di giorni ricominciavo daccapo”. Il soprannome deriva proprio da questi suoi comportamenti, che compresero anche il colpire con una mazza da baseball una cugina che gli aveva preso una racchetta da ping pong: nato Vince Edward, in omaggio all’attore Vince Edwards che era l’idolo della madre, divenne Bo quando uno dei fratelli maggiori disse che era più pericoloso e selvaggio di un cinghialone, appunto ‘boar hog’, abbreviato nel nomignolo che ha contribuito a fare la sua fortuna. Prima e dopo, però, altri guai, e il punto di rottura avvenne nell’estate del 1976, pochi mesi prima del suo quattordicesimo compleanno, in due episodi diversi e apparentemente antitetici: un giorno, per vendicarsi di un altro bullo che aveva osato replicare ai suoi pugni, aveva caricato il fucile del fratello e si era appostato in un cespuglio per sparare al rivale, ma improvvisamente si era ricordato dei racconti di chi era stato in riformatorio e aveva desistito. Qualche tempo dopo, però, introdottosi in un recinto per maiali, per puro, criminale divertimento lui e una manciata di compagni di malefatte ne avevano uccisi alcuni. Il proprietario dell’allevamento, un prete battista, uscì di casa e fece fuoco verso il gruppetto senza però colpire nessuno, ma fece in tempo, nel buio, a riconoscere Jackson, e poco dopo si presentò a casa sua, ponendo la signora Florence di fronte al fatto compiuto: o i ragazzi mi ripagano i 3000 dollari di valore che ho perso o vado alla Polizia. Bo, che ascoltava nella stanza adiacente, dopo essersi tolto i vestiti insanguinati, se la vide brutta, ancora. E pur di schivare il riformatorio accettò di lavorare mattina e sera, assieme ai complici, fino a guadagnare quei 3000 dollari di risarcimento. Fu davvero la svolta: chiuso in casa, lasciato libero di uscire solo per quei lavori, Jackson vide in televisione le prime partite di football universitario, a settembre, e all’antica passione per il baseball unì quella per il football, decidendosi così a provare a giocare nella squadra del liceo, e fu subito un successo. Ora, non c’è bisogno di citare quel tizio che disse “adoro il football, mi permette di stendere delle persone senza finire in galera”, ma sicuramente Jackson non si tirava indietro, anzi: “sulla strada ero stato sempre io a sferrare il primo colpo, e in partita accadeva lo stesso: quando qualcuno cercava di placcarmi, io lo guardavo negli occhi, abbassavo la testa e le spalle ed ero io a colpire lui”. La sua foga, la sua aggressività erano tali che sua madre, temendo che si facesse male, cercò di proibirgli di giocare a football, arrivando persino a chiuderlo… fuori di casa, alcune volte, quando tornava dall’allenamento, ma alla fine cedette, e presto capì che il ragazzo era qualcosa di speciale. Fin troppo, se uno avesse badato alle statistiche: da running back, ovvero il giocatore che porta palla dopo averla ricevuta ‘alla mano’ dal quarterback, correva solo una decina di volte a partita, perché doveva fare anche il difensore, l’uomo che riceveva i calci e cercava di guadagnare yard con il pallone e calciava pure le trasformazioni e i field goal, da tre punti. Faceva tutto, in nome di un atletismo formidabile e di una cattiveria agonistica di cui avete letto, e al tempo stesso primeggiava nel baseball e nell’atletica leggera, con imprese certificate dai numeri e dai racconti, che passavano di persona in persona contribuendo a dare benzina al fuoco di un mito in divenire. Due volte campione statale di decathlon, in entrambi i casi aveva un vantaggio tale da potersi permettere di non gareggiare nei 1500, dal momento che odiava le prove da mezzofondista, troppo noiose per lui. Lanciava il disco senza rotazione, e otteneva ugualmente distanze ragguardevoli, e nel 1982 stabilì anche il primato statale al coperto di salto in alto e salto triplo. Logico allora che alle partite di football e baseball della McAdory High School avessero presto cominciato ad assistere allenatori di college di varie parti del sud, a partire da quelli di Alabama e Auburn, le due grandi rivali, separate da 240 chilometri e da una rivalità che le fece etichettare, da un addetto ai lavori, come ‘il Medio Oriente del football universitario’, definizione che peraltro ai giorni nostri suonerebbe un po’ fuori luogo. Istintivamente, ma anche per moda e assuefazione ai gusti di chi aveva intorno, Bo aveva sviluppato una preferenza per Alabama, anche per la presenza di un gigante come Paul ‘Bear’ Bryant, in carica dal 1958, ma tutto cambiò il giorno in cui un assistente allenatore incaricato di scoprire talenti, Ken Donahue, gli disse “vieni da noi, sappi che per il primo anno e mezzo, forse due, difficilmente metteresti piede in campo, ma se vai ad Auburn giocherai per quattro stagioni in una squadra di perdenti”. Fu la seconda svolta: indispettito per la mancanza di rispetto, Bo virò verso Auburn, che oltretutto gli aveva prospettato la possibilità di fare di lui un Herschel Walker, l’eccezionale running back, anche lui straordinario figlio di un sud che fino a 20 anni prima gli afroamericani al college nemmeno li voleva, sul quale Georgia aveva rilanciato le proprie sorti solo due anni prima. In più, Pat Dye, l’erede di quel Shug Jordan che era stato a lungo rivale e amico di Bear Bryant, gli aveva promesso di lasciarlo giocare anche a baseball e praticare l’atletica. L’epopea di Jackson ad Auburn è mito, leggenda, aneddoto e bellezza assieme. Quattro anni straordinari, da dominatore, con 4303 yard guadagnate, 6,6 a portata di palla, tuttora record della Southeastern Conference, il raggruppamento di cui i Tigers hanno storicamente fatto parte. Le cifre però esaltano e nascondono allo stesso tempo il ricordo visivo di un giocatore capace di abbattere gli avversari ma anche di girare loro attorno, accelerando, decelerando, schivando, travolgendo. C’è ‘Bo over the top’, Bo sopra tutti, il touchdown decisivo contro Alabama nel 1982, quindi alla sua prima stagione, con un salto su compagni e avversari ad una yard dalla linea, poi oltrepassata con quello che, in barba alla fisiologia, viene definito in italiano ‘colpo di reni’. Bo diede ad Auburn la prima vittoria, rovinò l’ultimo Iron Bowl, il soprannome della sfida, di Coach Bryant, protagonista poco dopo di una coincidenza spaventosa. Annunciato il ritiro dopo il Liberty Bowl del 29 dicembre, infatti, Bryant si sentì chiedere “e ora che non allena più cosa farà?” e rispose “credo che schiatterò nel giro di una settimana”. Ecco, non fu una settimana, ma quattro: ricoverato in ospedale il 25 gennaio per dolori al petto, Bear morì il giorno successivo per un attacco cardiaco. Il suo funerale fu un affare di stato, con migliaia di persone ai lati delle strade e sui ponti a salutare il feretro, e un minuto di silenzio prima del Super Bowl di quattro giorni dopo. Nel frattempo, Bo continuò a stupire. Nel football, e nel baseball. Altra vittoria contro Alabama nel 1983, poi nel 1984 una gaffe, nata però dalla paura che le sue portate di palla generavano negli avversari: Coach Dye infatti scelse una corsa di Brent Fullwood, con Jackson e l’altro running back - Auburn giocava spesso con una formazione wishbone, con tre portatori di palla in campo - Tommy Agee ad aprirgli la strada, ma entrambi sbagliarono nell’eseguire il compito loro assegnato, Fullwood fu spinto fuori campo e Alabama vinse, con soprannome di ‘Wrong Way Bo’ appiccicato al ricordo di quella partita. Jackson fu eccellente anche nel suo ultimo Iron Bowl, quello 1985, ma dopo un suo touchdown Van Tiffin, il kicker di ‘Bama, segnò da 52 yard dando il successo ai Crimson Tide. Quell’anno vinse l’Heisman Trophy, il premio al miglior giocatore universitario, ma invece di prepararsi alla NFL tornò in palestra a rifinire la preparazione per la quarta e ultima stagione di baseball con Auburn. Le tre precedenti erano state eccezionali, sulla scia di un percorso iniziato nelle leghe per bambini e proseguito al liceo con risultati assurdi, accompagnati tra l’altro da un rendimento scolastico improvvisamente buono. Bo giocava in pratica in tutti i ruoli, compreso il lanciatore, che però non gli piaceva: con caratteristica franchezza aveva detto un giorno “non mi diverto a stare sul monte di lancio. Li elimino tutti troppo facilmente, non c’è gusto”, e che ne eliminasse tanti era vero, perché la muscolatura e la forza sviluppata a furia di tirare pietroni a finestre di casa ed edifici vari lo avevano dotato di un braccio formidabile, tanto che ai poveri battitori la pallina, tanto era veloce, arrivava con le dimensioni apparenti di un fagiolino bianco, pressoché non colpibile. Il resto, un teatro dell’irreale, dell’assurdo, del quasi incredibile se non fosse che, come si diceva all’inizio, c’erano immagini e testimoni. Le assistenze dall’esterno che eliminavano corridori sulle basi o a casa base senza quasi abbassarsi di traiettoria, le corse a segnare partendo dalla prima base, gli arrivi in prima su semplice rimbalzante verso l’interbase, cioè quel tipo di situazioni che in normali partite e per normali giocatori vale in realtà una eliminazione automatica. In battuta, poi, la potenza maestosa data dalle braccia, dagli avambracci, dai fianchi, dalle cosce, dalla rapidità di giro unita all’impatto. Tutto condito da una testarda riluttanza ad ascoltare, oltre un certo limite, i consigli degli allenatori: capita, quando il talento naturale è così grande da permettere quello che agli altri è precluso, o richiede anni di applicazione. In questo c’era anche un aspetto rilevante: la balbuzie, accentuata. Bo se ne vergognava, e anche le prese in giro dei coetanei fin dall’asilo avevano contribuito ad incattivirlo verso il mondo: non amava parlare, non amava impegnarsi in dialoghi e anche per questo, da adulto, prese l’abitudine di parlare di sé in terza persona. ‘Bo’ gli riusciva meglio di ‘I’, prima persona singolare. Al college, in realtà, non tutto andò liscio: la potenza in battuta c’era, ma era accompagnata dalla riluttanza a selezionare i momenti, e infatti al primo anno Bo batté maluccio .279, venendo ad un certo punto eliminato al piatto per 21 volte consecutive, perché, fissato com’era a colpire le palle veloci, fastball, che al liceo riusciva a spedire fuoricampo anche girando in ritardo, grazie alla sua potenza e rapidità, non riusciva ad adattarsi ai lanci a velocità modificata e alle palle curve. A un certo punto lasciò anche il baseball per tornare a fare solo atletica, per poi riprendere al terzo anno, battendo un più edificante .401, e chiudere l’ultimo con .246, in una stagione troncata perché a un certo punto la NCAA, l’ente che sovrintende allo sport universitario, lo squalificò. E il motivo è che Bo aveva ricevuto un biglietto aereo gratis, andata e ritorno, per Tampa. Era successo che i Tampa Bay Buccaneers della NFL lo avessero contattato per sottoporlo a una visita medica allo scopo di offrirgli preliminarmente un contratto, contando sul fatto che la prima scelta del draft fosse loro, ma c’era un problema: per Bo la passione vera non era il football, che secondo un coach del liceo ‘tollerò da un certo anno in poi’, ma l’atletica, solo che con l’atletica, lo informò un altro allenatore, non si poteva mangiare. E allora, anche su consiglio di giocatori NFL, che gli ricordarono quanto fosse breve la carriera di un running back, scelse il baseball. Con quattro anni di ritardo, perché già aveva detto no ad un’offerta dei New York Yankees appena finito il liceo. In quel momento aveva voluto andare al college, anche per mantenere la promessa fatta, da delinquentello riformato, alla madre, ma in quel 1986 toccava al baseball. Problema: nessuna squadra MLB gli credeva. In un gioco dell’assurdo, erano tutte convinte che il Bo Jackson inarrestabile giocatore di football avrebbe fatto ragionare il Bo Jackson buono, potente e spettacolare ma incostante giocatore di baseball, che oltretutto prima di andare in Major League avrebbe dovuto passare un lungo periodo di adattamento nelle leghe minori. E invece prevalse il secondo. Tampa Bay lo scelse, ma Bo rifiutò il ricco contratto da oltre quattro milioni di dollari, preferendo i soli 200.000 che i Kansas City Royals gli proposero. Royals che lo scelsero solo al numero 104 del draft, proprio perché tutti i club, compresi gli stessi Royals nei giri precedenti, non si erano fidati. Partita, dunque, la carriera nel baseball nel 1986, dopo sole 53 partite di minor league Jackson venne inserito nel roster MLB a settembre, in occasione dell’allargamento del numero di giocatori, e nel giro di pochi giorni fece capire quello che poteva fare. Ora, non si può ridurre una carriera di cinque anni ad una serie di numeri, ma è più facile ricordare alcuni episodi sensazionali, sia in battuta sia da esterno. I lampi di talento fisico, atletico e tecnico, nonostante alcune lacune nel box di battuta che fecero di lui, giocatore da tutto o niente, uno dei più frequentemente eliminati al piatto. Il 29 luglio 1988, mentre era in battuta, chiese all’arbitro di concedergli un attimo di sosta, un time out, ma la richiesta arrivò tardi e nel frattempo il lanciatore, Jeff Ballard, aveva già cominciato il suo movimento: pur essendo uscito dal box, Jackson riuscì a recuperare il movimento e colpire la palla spedendola, di fatto con una mano sola, oltre la recinzione, uno dei 25 fuoricampo di una stagione che aprì la strada a quella successiva, da Mvp dell’All-Star Game, cui solo un calo nel finale impedì di aggiungere anche il titolo di miglior giocatore dell’intera American League. 32 fuoricampo, 105 punti battuti a casa ma anche 172 strikeout, decima peggior prestazione, dal 1893, per un battitore destro. Ma anche la clamorosa eliminazione a casa base di Harold Reynolds, non l’ultimo arrivato: partito dalla prima base su un batti-e-corri, l’azione in cui il corridore parte contando su un contatto anche minimo del battitore, Reynolds fu inchiodato dal catcher che aveva ricevuto uno straordinario tiro di Jackson dall’esterno sinistro. L’anno dopo, 1990, vide la famosa presa al volo contro Baltimore in cui fece tre passi sul… muro, come una mosca, per evitare di sbatterci contro e farsi male. E poi le mazze spezzate su ginocchia e addirittura spalla per la frustrazione, come accadde poi, nel 1991 e 1993, nei Chicago White Sox, penultima tappa prima dell’addio, dopo il 1994 con i California Angels. Perché? Perché dal 1987 Jackson aveva ripreso con il football, quello che solo un anno prima aveva definito ‘hobby’, come poteva essere la sua amata pesca, firmando con i Raiders, che in quel periodo giocavano a Los Angeles e lo avevano scelto al numero 183 del draft 1987, scaduti i diritti di Tampa Bay. Di fatto, Jackson giocava a baseball fino a settembre, prendeva fiato e correva - in tutti i sensi - dai Raiders, pronto a dominare da running back come aveva fatto al college. Non per nulla è tuttora l’unico giocatore nella storia NFL ad avere DUE touchdown di oltre 90 yard di corsa, uno dei quali in un memorabile Monday Night Football contro Seattle in cui chiuse con con 221 yard, tuttora record per la partita del lunedì sera. In più, Bo in occasione di uno dei due touchdown ribaltò con una botta terrificante Brian Bosworth, uno dei più noti e polemici giocatori dell’epoca, un difensore, famosissimo già dai tempi del college, che prima della partita aveva avuto la cattiva idea di provocarlo. Il 13 gennaio 1991, però, il disastro: su una normale corsa, nella quale aveva seminato almeno sei difensori dei Cincinnati Bengals, Jackson venne placcato in maniera apparentemente normale dal linebacker Kevin Walker. Cadendo, però, subì una lussazione dell’anca, insomma una fuoriuscita della testa del femore dalla sua normale cavità, e fu l’inizio di un calvario che portò al deterioramento del tessuto e alla virtuale impossibilità di riprendere con il football. Tagliato poi dai Royals nel precampionato 1991, si accasò ai White Sox verso fine stagione ma saltò il 1992 per l’operazione all’anca, e non fu mai più sé stesso. Particolarmente triste un episodio in una partita con la maglia degli Angels: su una palla verso l’interbase, Jackson, che una volta sarebbe arrivato in base in carrozza, ci arrivò solo perché uno degli avversari, vedendolo in difficoltà, decise di rinunciare all’eliminazione. Bo Jackson si ritirò a fine stagione 1994, a 32 anni. Come mito dello sport e della pubblicità, visto il successo travolgente degli spot della Nike in cui pareva interpretare qualsiasi sport all’insegna dello slogan ‘Bo Knows’, come leggenda anche dei videogiochi, dato che nel celebre Tecmo Bowl gli furono assegnate doti quasi sovrumane. Un rimpianto c’è, sia nel baseball sia nel football: cosa sarebbe stato se avesse scelto solo uno dei due sport, cosa avrebbe combinato se si fosse concentrato solo su una specialità? Non esiste risposta, se non con un dettaglio: non sarebbe stato Bo Jackson, non sarebbe comparso in questo articolo, non sarebbe stato un emblema di durezza, cattiveria, capacità di ripresa, testardaggine. Ecco perché uno come lui non ci sarà più: impossibile avere quelle doti, impossibile, con l’ulteriore specializzazione di baseball e football, poter eccellere in entrambi.

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