Elezioni Usa, lo sport del potere e il potere dello sport

Lei grande appassionata di basket e tifosa di Golden State, lui grande appassionato di baseball e simpatizzante indifferentemente delle due maggiori realtà di New York, Mets e Yankees. Lei icona dell’impegno per l’emancipazione femminile e della libera espressione di genere nello sport, tanto da aver ricevuto l’esplicito appoggio di tutte o quasi le giocatrici di qualsiasi disciplina, lui idolo dei fans della UFC, l’organismo americano di arti marziali che raccoglie più di ogni altro la filosofia del machismo e che ne fotografa l’endorsement più strettamente maschile. Lei attivissima e direttamente coinvolta nell’attività sportiva con allenamenti quotidiani, subito dopo la sveglia: corsa, tapis roulant, nuoto e lunghe camminate “perché lo sport fa bene al corpo ma anche alla mente”, lui proprietario e assiduo frequentatore di circoli di Golf dove ha affinato negli anni la confidenza con i ‘ferri’ sino ad arrivare a un handicap di 2.8, di gran lunga il migliore mai fatto registrare da un Presidente americano. La sfida tra Kamala Harris e Donald Trump, insomma, riflette profondamente anche in campo sportivo l’antitesi della loro visione del mondo e del loro progetto politico. Del resto lo sport ha per definizione un’anima politica, quale che sia l’accezione che a questo antico aggettivo si voglia dare. Sì, perché lo sport è creatura multiforme con un’origine univoca e un’evoluzione variegata in mille rivoli e dimensioni. Come abbiamo già avuto modo di spiegare su queste pagine di Insider, lo sport trae la sua origine dalla guerra: la sua prima testimonianza occidentale è infatti omerica e riguarda i ‘giochi’ indetti da Achille in onore di Patroclo dopo la sua morte in battaglia. Illuminante scorrere le otto discipline previste per i guerrieri achei impegnati nell’agone sportivo: corsa con i carri , pugilato, lotta, corsa a piedi, duello con la lancia, lancio del disco, tiro con l’arco, lancio del giavellotto. Ovvero tutte attività strettamente connesse all’arte della guerra, peraltro descritte da Omero con stili differenti, dall’enfasi epica al registro comico. E se, per esempio, nel duello armato tra Aiace e Diomede non si registrano vincitori ma solo abilità e forza idealizzata, nella corsa con i carri è l’intelligenza di Antiloco, figlio di Nestore, a contenere le velleità di sorpasso di Menelao: come un perfetto pilota di Formula Uno allarga la curva ostacolando il Re dei Re, tenendolo dietro e aggiudicandosi il secondo premio alle spalle del velocissimo Diomede. Per arrivare alla gara di corsa, dove Aiace Oileo inciampa e finisce con la faccia nel letame concedendo così la vittoria a Odisseo, il solito astuto opportunista. Guerra formalizzata, insomma. Niente morte, ma competizione senza esclusione di colpi, perché lo sport porta nell’anima la genetica della vittoria, della sfida, dell’affermazione personale rispetto ai rivali, della risoluzione delle controversie attraverso una classifica di meriti e talento, qualche volta distorta dalla partecipazione della tifoseria più potente e impicciona, quella degli dei dell’Olimpo che parteggiano sfacciatamente per un eroe o per l’altro. Sembra roba antica, coperta di polvere, eppure la ritroviamo sempre identica nella sua essenza e quale che ne sia la declinazione storica. Vale anche per la Presidenza degli Stati Uniti che, per sua natura, incarna perfettamente il senso della guerra formalizzata e del duello irriducibile tra due contendenti. E così il rapporto tra Casa Bianca e sport è da 235 anni a questa parte una fusione permanente poiché la prima è costantemente innervata dal secondo sin dalla sua forma più ancestrale. Figlio di questa accezione primordiale dello sport è certamente George Washington, il primo Presidente e padre fondatore degli Stati Uniti. Che del resto era un generale. Narrano le cronache che fosse un abilissimo cavaliere, dote messa al servizio della guerra. E per questo dedito, tra l’altro, alla caccia alla volpe, sport introdotto nel nuovo mondo dalla nobiltà inglese e che permeava la cultura della Virginia coloniale del XVIII secolo. George in altre parole adattava le abilità ‘guerriere’ all’immagine di gentiluomo cavalleresco che voleva dare di sé, quasi fosse un cortigiano del vecchio mondo pronto a definire i contorni del nuovo. La Corona britannica promuoveva nelle sue colonie le ‘giostre’, esempio classico di attività guerresca formalizzata che imponeva abilità a cavallo, e la scherma, altro evidente segno dell’arte bellica dell’epoca. E non a caso il generale Washington si pagò molte lezioni di sciabola, divenendo al contempo un cavaliere universalmente ammirato. In lui lo sport ha una funzione pratica e professionale, ma anche una funzione sociale connessa all’immagine che contribuì a costruire il suo status e il suo spessore politico. In larga misura anche Abraham Lincoln, il sedicesimo Presidente dal 1861, è esponente di questa tradizione. Anche lui militare , anche lui praticante di uno sport che gli valse un’immagine politica. Tutti ricordano che da Presidente dovette affrontare la Guerra di Secessione e tutti lo associano all’emancipazione degli schiavi, ma pochi ricordano come fosse un campione di Catch Wrestling, una forma di lotta antesignana di quel Collegiate Wrestling che nel ‘900 sarebbe stata praticato nelle università americane. Lincoln era alto 1.95, dotato di un fisico decisamente vigoroso e pare abbia vinto praticamente tutti gli incontri disputati: leggendario quello che lo vide opposto al campione locale di New Salem, Jack Armstrong. Evento seguito da una folla descritta come immensa e partecipe, durante il quale il futuro presidente dovette eludere più di una malizia del suo avversario, fino alla vittoria. Perse una sola volta, contro Hank Thompson, ma accettò cavallerescamente il verdetto. Resistenza e lotta, capacità di soffrire e forza mentale connessa a quella fisica erano considerati all’epoca elementi fondanti di un profilo politico di alta levatura. E Lincoln incarnò lo spirito dei tempi finendo sui libri di storia anche grazie a queste caratteristiche. Le stesse di Theodore Roosvelt, ventiseiesimo Presidente dal 1901 e parente di quel Franklin Delano che avrebbe rotto l’isolazionismo americano portando gli Usa nella Seconda Guerra Mondiale. Theodore amava gli sport di combattimento, come Lincoln, in particolare la boxe. Praticando la nobile arte arrivò sino alla finale del campionato universitario ad Harvard, perdendola per decisione arbitrale, tra le polemiche, contro Charles Steadman Hanks. Non era un carattere malleabile, tanto che una volta, durante un incontro, rivolse i suoi pugni non all’avversario, ma a uno spettatore reo di averlo insultato a bordo ring. Non si fermò nemmeno quando, allenandosi nel wrestling, un colpo subìto gli ruppe i capillari dell’occhio sinistro offuscandogli permanentemente la vista, perché il fascino del Ju jitsu lo catturò in età matura portandolo ad allenarsi indifferentemente con insegnanti, figli, ministri del suo governo. L’antitesi del francescano che tuttavia mise il suo carattere forgiato nelle asperità dello sport al servizio della mediazione tra Russia e Giappone, incassando il Nobel per la Pace nel 1906. Il suo Ministro della Guerra era William Howard Taft, che gli succedette alla Casa Bianca nel 1909 come ventisettesimo Presidente, piegando il fiume del rapporto tra sport e politica in una prima repentina ansa di propaganda di massa. Se prima di lui lo sport praticato dai futuri presidenti era il nucleo intorno al quale si costruiva una parte significativa della personale credibilità politica, con lui lo sport diventa strumento di consenso. È vero, anche lui ne praticava uno. Anzi, fu il primo Presidente a scendere sul green per giocare a Golf. Ma pesava 160 Kg, la moglie lo definiva ‘la bella addormentata’ perché tendeva alla letargia a ogni evento cui partecipava e di lui rimase famoso il racconto secondo il quale sarebbe rimasto incastrato nella vasca da bagno della Casa Bianca, uscendone solo con l’aiuto di 6 persone. Insomma, non esattamente l’iconografia di un atleta. Eppure il 14 aprile 1910 era seduto tra il pubblico di Washington per assistere all’Opening Day della stagione di MLB tra Senators e Athletics. Ed ebbe un guizzo che divenne storia, tradizione. Fu lui, infatti, ad effettuare il primo lancio cerimoniale, consegnando così la palla al lanciatore dei Senators Walter Johnson che avrebbe poi dato inizio alla partita. Inutile dire che il gesto fu accompagnato da un boato di sorpresa e ammirazione. E che il giorno dopo tutte le prime pagine, soprattutto dei giornali sportivi, vissero di quel momento. Da allora tutti i presidenti si sono inseriti nel suo solco, ad accezione di Carter, Trump e Biden. Eccola la svolta che getta sullo sport il cerchio di luce popolare e propagandistico. Da quel momento diventa strumento di consenso, elemento che mette la Casa Bianca al centro di un’arena sportiva, ponte empatico tra il potere e la gente comune, un vero e proprio flashback sul I secolo, quando il Colosseo voluto da Vespasiano divenne tempio di quel patto tra Imperator e Populus. Testimone raccolto immediatamente dal successore di Taft, Thomas Woodrow Wilson, ventisettesimo Presidente dal 1913. Il suo nome è legato a doppio filo al football americano, non tanto perché lo praticasse da semplice appassionato , quanto perché tifoso di Princeton di cui andava a vedere persino gli allenamenti e soprattutto perché c’è la sua firma su alcuni dei cambiamenti regolamentari che trasformarono questo sport in quello che ancora oggi riconoscono milioni di tifosi. Wilson da professore universitario amava ripetere che a Princeton c’erano tre eccellenze: football, baseball e istruzione. Parlava continuamente del suo sport preferito, confrontandosi su regole, metodi di allenamento e organizzazione dei campionati. E sempre difendendo con forza il “valore morale di uno sport che insegna la disciplina” contro i detrattori che ne sottolineavano la brutalità. Con Calvin Coolidge, trentesimo Presidente dal 1923, arriva la prima First Lady tifosa della storia della Casa Bianca. La moglie Grace era infatti appassionata di baseball e un’accanita sostenitrice dei Washington Senators, di cui non voleva perdersi nessun incontro. Tanto che quando si trovava in viaggio presidenziale col marito, incollava l’orecchio alla stazione radio WRC che trasmetteva la cronaca delle partite. Calvin era molto più tiepido, ma assecondava col sorriso la passione della consorte, anche quando questa lo costringeva a qualche strappo al protocollo. Durante la prima partita delle Series del 1924, il Presidente si alzò alla fine del nono inning sul punteggio di 2-2, ritenendo che fosse il momento di tornare alla Casa Bianca. Ma Grace lo trattenne per i lembi del cappotto dicendogli: “Dove credi di andare?”. E Coolidge si riaccomodò un po’ imbarazzato fino alla fine dei supplementari. Del resto lei indossava la collana portafortuna con sette elefanti d’avorio, mica la si poteva costringere a lasciare. E sempre di baseball fu impregnata la presidenza di Herbert Hoover, alla Casa Bianca dal 1929. Uno sport che per lui era passione viscerale e che lo accompagnò in molte pieghe di complesse situazioni politiche, con alterne fortune. Lo praticò all’Università, rimase sempre la sua prima preoccupazione al mattino quando sfogliava i giornali nello studio ovale, ne decantava la filosofia invitando i bambini a formare il loro carattere attraverso il lavoro di squadra ed era costantemente presente alle partite più importanti. Applaudì timidamente la vittoria di Philadelphia alle World Series beccandosi le critiche di chi riteneva quell’atteggiamento rivelatore della sua preferenza per Chicago, tanto che un suo Ministro dovette intervenire: “I suoi elettori erano divisi equamente, il Presidente non poteva mostrare eccessivo entusiasmo per nessuna delle due squadre”. Tornò a Philadelphia nel 1931, in piena depressione economica, e volse la sua passione in messaggio politico: “Ho mantenuto l’impegno di venire qui perché lo sentivo come un gesto rassicurante nei confronti di un Paese che soffre”. Abbozzò, invece, di fronte ai fischi del pubblico che, in epoca di proibizionismo, gli urlava con cori espliciti “vogliamo la birra!”. E quando nel 1930 a Babe Ruth, fresco di firma su un contratto da 80.000 dollari l’anno, venne chiesto se ritenesse giusto guadagnare più del Presidente Hoover, la risposta del campione rimase famosa: “Perché no? Ho avuto un anno migliore del suo”. Lo sport segnò profondamente anche l’amministrazione di Frankiln Delano Roosvelt, trentaduesimo Presidente dal 1933. L’epoca più buia, complessa e opprimente del XX secolo. E sono probabilmente due i momenti in cui la natura politica dello sport e le sue declinazioni strumentali di supporto propagandistico restarono impressi nella storia. Le Olimpiadi di Berlino 1936, volute da Hitler per legittimare di fronte al mondo la potenza del Reich, diventarono il palcoscenico per una star immensa: Jesse Owens. Il ragazzo dell’Alabama avrebbe vinto complessivamente 4 medaglie d’oro, ma dopo la seconda, quella del salto in lungo, Owens scese dal palco e passò davanti alla tribuna d’onore, dove sedeva il Führer. Per anni la storia raccontò che Hitler, contrariato dalle sue vittorie, si rifiutò di salutarlo andandosene stizzito. Ma l’autobiografia di Owens e le testimonianze di parenti e giornalisti presenti, raccolte in parte anche dagli sceneggiatori del film ‘Race’, raccontano un’altra verità, decisamente più complessa. Il Führer lo salutò e, pare, dietro le quinte gli strinse persino la mano. Ma al ritorno in Patria fu Roosvelt a non volerlo ricevere alla Casa Bianca. A Hitler in quel preciso momento storico importava soprattutto non opacizzare con atteggiamenti pubblici che potessero essere stigmatizzati a livello internazionale la fulgida luce accesa su Berlino. Ma che le vittorie di Owens l’avessero deluso è dimostrato dalla sorte toccata al povero Luz Long, ‘solo’ argento nel Lungo e soprattutto reo di essere diventato amico del campione ‘negro’. Spedito in Sicilia per punizione, sarebbe morto durante l’operazione Husky, ovvero lo sbarco americano in Italia. Il Presidente Roosvelt era invece in campagna elettorale e gli Stati del Sud avrebbero potuto fargli pagare cara l’entusiastica celebrazione di un afroamericano come eroe olimpico. Ed è questo aspetto ad aprire un capitolo doloroso nella complessa stratificazione del rapporto tra Casa Bianca e sport. Da quel momento le implicazioni sociali del fenomeno sportivo assumono una nuova forma, imboccando la via dei contrasti interni e delle connesse conseguenze politiche. Owens non ha mai preso posizioni forti per sollevare la questione afroamericana in un Paese accartocciato su una subcultura razzista, ma inconsapevolmente diventa ipso facto il capostipite di un movimento che progressivamente strapperà il velo sull’ipocrisia dominante, grazie a Smith, Carlos, Mohamed Alì, fino a Lebron e Kaepernick. Ci torneremo. La seconda svolta arrivò con Pearl Harbor nel 1941: l’improvviso e tremendo attacco giapponese alla base americana delle Hawaai sconvolse gli Stati Uniti, provocandone l’entrata in Guerra. Lo choc che colpì l’opinione pubblica investì tutti gli aspetti della vita sociale a stelle e strisce, costringendo a riflessioni profonde anche lo sport: il baseball, per esempio, avrebbe dovuto continuare la sua stagione o no? Molti giornali sostennero la necessità di congelare tutto sull’onda di un evento tragico che spostava necessariamente l’attenzione, l’umore e le prospettive sul piano del conflitto. Ma Roosvelt no: “Penso che sarebbe meglio per il Paese che il baseball vada avanti. Tutti lavoreranno più a lungo e più duramente. E ciò significa che dovrebbero avere la possibilità di divertirsi e distogliere la mente più di prima”, fino ad arrivare a chiedere che si organizzassero partite in notturna per consentire ai lavoratori del turno di giorno di vedere una partita di tanto in tanto. Ecco, ora lo sport è di nuovo amico e alleato del potere: nei momenti più tragici può svolgere un’azione sociale ricreativa e consolatoria, può lenire l’anima ferita di un intero popolo. Ancora una volta è forza politica potente: dopo la guerra formalizzata, la costruzione di uno spessore individuale politico, l’effetto propaganda come stimolo dell’orgoglio di appartenenza, il volano di conflitti sociali interni, si trasformano anche in energia di contenimento delle paure e delle ansie di un Paese in guerra. E il cerchio si chiude con JFK, John Fitzgerald Kennedy. Il trentacinquesimo Presidente era un grande sportivo: praticava di tutto, dallo sci alla vela, dal tennis alla corsa, ma soprattutto, in gioventù, il football americano all’Università di Harvard dove divenne un promettente quarterback. E fu proprio un incidente di campo a procurargli una lesione spinale che lo avrebbe accompagnato, spesso con dolori lancinanti, per tutta la vita. Ma per lui lo sport non era attività individuale, al contrario sociale e politica. La sua epoca raccoglieva l’eredita culturale e storica dei regimi totalitari nazifascisti, la cui epica sullo sport come strumento per forgiare l’estetica e la morale della razza risuonò per anni come un dogma. E al contempo la sua epoca raccoglieva una nuova sfida conflittuale, la Guerra Fredda, contro una potenza affascinata dall’idea che anche lo sport potesse dimostrarne forza e superiorità. Non deve dunque suonare come contraddittorio rispetto all’immagine illuminata e progressista che ha lasciato ai posteri, l’appello di JFK a contrastare l’inadeguatezza atletica, vero pericolo per la sicurezza e la prosperità degli Stati Uniti. O la corrispondenza che individuava tra trascuratezza della forma fisica e decadenza del pensiero. La verità è che Kennedy era figlio del suo tempo e di quella fase culturale in cui l’abbraccio magnetico tra politica e sport tratteggiava quella specifica filosofia. Ma JFK fu anche il Presidente che dovette affrontare le prime vere battaglie della Guerra Fredda, un conflitto ideologico da combattere su ogni fronte possibile, dal consolidamento delle zone di influenza geopolitica alla corsa alla Luna, dall’economia alla superiorità del proprio stile di vita, dall’arte allo sport. E se nel 1960 alle Olimpiadi di Roma gli Usa avevano lasciato il primato di medaglie all’Urss, dal ’61 con la sua Presidenza un coach di football fu messo a capo del President’s Council on Youth Fitness allo scopo di riformare totalmente i programmi scolastici di educazione motoria. Ora c’è veramente tutto: lo sport è sì connesso alla salute, ma diventa elemento ideologico da contrapporre al nemico, arma per affermare la propria superiorità etica e politica. Di qui in poi, tutto il composito arcipelago di connessioni ideali, ideologiche, sociali, propagandistiche, morali, etiche, nazionalistiche, carismatiche resterà inalterato nella sua complessità, facendo emergere di volta in volta un singolo aspetto rispetto agli altri. La Casa Bianca ha continuato a ospitare presidenti sportivi sino ai giorni nostri: Gerald Ford fu ottimo giocatore di football dell’Università del Michigan e ricevette anche offerte per passare al professionismo, prima di intraprendere la carriera politica. Jimmy Carter si faceva immancabilmente immortalare durante lo jogging, ma era anche un discreto tennista e amava le gare automobilistiche. Senza contare che fu il primo Presidente a invitare alla Casa Bianca tutte e tre le squadre vincitrici delle maggiori Leghe americane: NBA, NFL, MLB. Ronald Reagan non era un grande sportivo, ma in qualità di attore interpretò una stella del football americano, George Gipp, tanto che gli rimase appiccicato per sempre il soprannome ‘Gipper’ che sfruttò anche in campagna elettorale utilizzando una vera frase dell’atleta: “Just win one for the Gipper”. George Bush senior amava il tennis più di ogni altra cosa e si rese protagonista di epiche partite di doppio alla Casa Bianca, in particolare quelle in coppia con Borg contro l’ambasciatore svedese in coppia con Gerulaitis. Sarà che il suo compagno era una leggenda, ma vinceva sempre lui. Del resto Pam Shriver, la tennista più invitata, disse di lui che “Un Presidente così forte non si è mai visto: dritto solido, servizio discreto, solo il rovescio un po’ molle”. Bill Clinton suonava il sax, più che giocare. E quando faceva jogging si fermava da Mc Donald’s una volta che i fotografi fossero spariti. Ma sapeva ironizzare sul suo poco talento sportivo : “Da ragazzino giocavo a basket in una squadra oratoriale, ma ero scarso perché troppo pesante e ben poco agile. Ma un giorno arrivò la mia partita, segnai 16 punti e per poco non feci una schiacciata. Da lì ho capito che ogni essere umano ha almeno un giorno buono in una partita di sport”. George W. Bush scese in campo per il lancio cerimoniale della prima palla delle World Series in una stagione non banale, quella del 2001, poco dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Poi arrivò Barack Obama, il presidente che giocava a basket: ovunque, sempre, con amici e con lo staff. Ma che non lo interpretava semplicemente come sport. In lui torna il riscatto sociale e la questione afroamericana se, come scrive lui stesso nell’autobiografia, “Per mio padre il campo da basket era un luogo in cui essere neri non rappresentava uno svantaggio”, dunque una fuga dal razzismo. In lui torna lo spirito e l’etica dello sport come metafora di vita, se è vero che la moglie Michelle, prima di sposarlo, chiese un parere al fratello Craig, ex stella NCAA. Fecero una partita insieme e Craig diede il suo assenso: “Si può capire molto di una persona da come si comporta in campo. Barack si dimostrò altruista, coraggioso e per nulla ansioso di mettersi in mostra a tutti i costi”. Che sia leggenda o verità, questa è la pasta di un vero leader. Infine Joe Biden, che sul suo passato sportivo ha ironizzato un po’, probabilmente ingigantendo il suo talento. Giocava a football, ai tempi dell’Università del Deleware, e in una tappa della campagna elettorale in Ohio disse: “Arrivati alla mia età non si è più sicuri di ricordare correttamente. Ma sono andato su internet per controllare e posso dire che qui ci sono venuto, il 19 ottobre del 1963: e abbiamo vinto 29-12!”. Peccato che Biden quella partita lì non la giocò…. E ora lei e lui, Kamala e Donald. Per la verità Trump è già stato Presidente, rinfocolando suo malgrado i contrasti sociali grazie alle continue gaffes, vera cartina al tornasole della sua visione del mondo egotica e sciaguratamente anticonformista. Forse perché refrattario alla considerazione che nel mondo contemporaneo lo sport produce star di fama mondiale, in grado di prendere posizione e influenzare teoricamente milioni di persone attraverso i social. Contro di lui si schierò apertamente Lebron James, quando il Presidente annullò l’invito ai campioni di Golden State a causa delle esitazioni di Steph Curry, tutt’altro che convinto di dover accettare. “Andare in visita alla Casa Bianca è un grande onore, ma Curry esita. Perciò l’invito è annullato” tuonò Trump. E Lebron rispose immediatamente: “Andare in visita alla Casa Bianca era un onore finché non sei apparso tu!”. Fu solo l’inizio di un carteggio social aperto ancora oggi. Del resto fu contro Trump e per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione afroamericana che Kaepernik, star del football, si inginocchiò durante l’inno nazionale. In breve imitato da una schiera sempre maggiore di colleghi. Il Presidente prima perse le staffe chiedendo l’immediato licenziamento di tutti gli atleti che si erano prestati a quell’offesa alla bandiera, poi di fronte allo stesso gesto messo in atto dai giocatori NBA rincarò la dose: “Comportamento vergognoso, come molti americani ho spento la Tv”, provocando l’ennesima risposta di Lebron: “Non ce ne può fregare di meno, l’NBA andrà avanti anche senza di lui”. Ma questa contro Kamala è stata un’altra sfida, sul filo di lana. Fatta di endorsement che hanno spostato qualche voto decisivo di qui o di là. E ancora una volta lo sport è stato al centro. Sport femminile da una parte, UFC dall’altra, campioni afroamericani esplicitamente schierati, star di altre discipline tutt’altro che concordi. Una campagna senza esclusione di colpi: Colby Covington, Brett Favre e John Daly pro Donald, Magic Johnson, Steve Kerr e Dawn Staley con la Harris. Casa Bianca e sport si abbracciano ancora, intrecciando le loro anime gemelle, come all’inizio dei tempi. Ennesimo capitolo del potere che si fa gioco. E del gioco che si fa potere.