Joe Dimaggio: l'eroe silenzioso che visse il sogno americano

Paul Simon lo ha definito la superstar silenziosa. Ha rappresentato il sogno americano per tutti. Ha incarnato il riscatto dai pregiudizi per gli italiani d’America, verso una vera integrazione nel Nuovo Mondo. Ha amato sempre e per sempre Marilyn. È considerato uno dei più grandi e vincenti giocatori di baseball della storia. Quante cose ci sono state nella vita di Joe DiMaggio, una vita che iniziava il 25 novembre del 1914 a Martinez, California. Dalla Sicilia, sognando la California Fine 800 e i primi anni del 900, epoca di trasformazioni sul grande delta formato dall’unione dei fiumi Sacramento e San Joaquin, un’area ricca di promesse di benessere e futuro, quella della baia di San Francisco. Lo sviluppo delle attività di pesca e di conservazione del pesce diedero vita ad una intensa attività commerciale, lì dove il lavoro era soprattutto miniere di carbone e porti per il trasporto via mare. E dove arrivò la grande industria, con la produzione di una lega di ferro e carbonio che stava diventando più preziosa dell’oro: l’acciaio. Una di queste cittadine in trasformazione si chiamava Pittsburg. Pittsburg, California. Evidente omaggio a Pittsburgh, Pennsylvania, stesse fondamenta economiche, carbone e acciaio. Niente h finale, un secolo fa era così nello spelling. Ma sul delta del Sacramento c’era anche la pesca. C’erano i pescatori. Tanti siciliani. Venivano in massa da Isola delle Femmine, borgo marinaro nella baia di Carini, vicino a Palermo. Luogo di pescatori e leggende. L’isolotto di fronte al borgo narra storie da secoli. Fanciulle turche abbandonate dai loro mariti per colpe che possiamo immaginare . Ma questa è una leggenda con pentimento. Dopo sette anni i consorti le cercarono, le ritrovarono, fecero pace e si stabilirono felici in quei luoghi. Plinio il Giovane scriveva che l’isola era popolata da fanciulle bellissime. Si offrivano in premio al vincitore della battaglia. Storia affascinante anche questa, chissà quanto gloriosa anche per le fanciulle. Tra i pescatori che emigrarono in California nei primi anni del 900 da Isola delle Femmine c’erano le famiglie Di Maggio e Mercurio. Joseph Paul DiMaggio è nato come Giuseppe Paolo, in quel 25 novembre 1914. Il padre si chiamava Giuseppe, la madre Rosalia Mercurio, anche il nonno da parte di madre era un Giuseppe. Non poteva che chiamarsi così, quello che poi diventerà per tutti Joe, Joe DiMaggio. Un figlio che è stato uno scostamento sul percorso del destino, con giri ampi e tortuosi come il delta del Sacramento. Pigro. Buono a nulla. Era quello che pensava e diceva il padre Giuseppe di quel figlio di pescatori che soffriva il mal di mare, che faceva di tutto per non aiutare i fratelli a pulire la barca che puzzava di pesce marcio. Fare altro, qualsiasi cosa, era un preciso atto di volontà. Abbandonare la pesca e anche la Galileo High School di San Francisco. Nel playground di North Beach dove aveva imparato a giocare a baseball quando aveva 10 anni non era pigro ed era decisamente buono a qualcosa. A 18 anni il fratello Vince lo propose alla squadra dove stava giocando, i San Francisco Seals della Pacific Coast League. Baseball professionistico, minor league, ma già sport vero, pagavano per prendere palle e non pesci. Joe si trovava meravigliosamente in quel mare di terra, tutto riusciva semplice, istintivo, naturale. Passione? Ancora no, era e rimarrà sempre un’anima ampia e tortuosa Joe DiMaggio. Ma nella prima stagione da rookie, aveva trovato all’improvviso un senso all’esistenza, una strada bene illuminata per le risposte alle domande irrisolte, da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo. Dal 13 maggio al 25 luglio del 1933 ha battuto valido per 61 partite consecutive, record nella Pacific Coast League e seconda migliore prestazione nelle minors. Bisogna capire ‘battere valido’, nel baseball, per capire in generale. Colpire la palla e arrivare salvo almeno in prima base, senza che la difesa riesca ad eliminarti. Quindi, colpire talmente bene da iniziare il percorso sulle basi che ti porterà a segnare punto. O magari segnare direttamente con un fuoricampo. È quello che devono fare gli attaccanti, i battitori. Battere e conquistare basi è il gesto offensivo più importante. Ed è difficile. In ogni partita, in battuta ci vai circa 4 volte, forse 5. Nella stagione 2024, la media battuta in MLB è stata .243. I professionisti di Major League battono valido 2,43 volte ogni 10 turni in battuta. Se batti quasi 3 volte su 10, sei molto bravo. Oltre 3, fenomeno. Poi bisogna fare come DiMaggio, cioè farlo in ogni partita, per più partite possibile, consecutive. Joe pensava che il baseball fosse un gioco, nel 1933. Non la vita. Durante quella striscia di partite in cui continuava a battere valido, cambiò tutto: “Fare una battuta ogni giorno era diventato per me più importante di mangiare, bere e dormire”. E così fu, per sempre. THE YANKEE CLIPPER E UN RECORD CHE NESSUNO BATTERà DiMaggio era un piccolo campione della Pacific Coast, dal 1936 in poi è diventato l’eroe di una nazione con gli Yankees. La squadra di New York era già diventata vincente grazie a Babe Ruth e nella seconda metà degli anni 30 era ancora la squadra di Lou Gehrig. Ma non arrivava alla World Series dal 1932. Con Joe DiMaggio vinse 4 titoli consecutivi dal 1936 al 1939. Durante la stagione 1937 sfiorerà l’impresa, battendo valido per 43 partite su 44. Quasi una striscia consecutiva, quasi un record. Solo rimandato. Da qui in avanti potremmo fare solo un bell’elenco di numeri impressionanti . I numeri esprimono la grandezza del campione ma quello che non dicono è che Joe era ormai entrato sotto la pelle di ogni appassionato di baseball in America. Un battitore tremendo, che sapeva tracciare traiettorie con la palla che per altri erano rotte sconosciute. C’era chi pensava si ispirasse al volo degli uccelli, faceva volare palle senza le ali. Ed era veloce. In difesa giocava esterno centro, l’uomo che deve coprire più territorio. Lo faceva correndo con una grazia senza fretta, elegante e tranquillo nel seguire le palle da prendere al volo. Si muoveva seguendo una coreografia. Il suo swing, il movimento con la mazza per colpire la palla, era fluido, armonioso. Era questa la vera eredità della famiglia DiMaggio. I geni che non si erano mai visti nella pesca erano in quello stile. Il primo cronista di San Francisco che andò a casa DiMaggio per scrivere un articolo sul giovane Joe, trovò una famiglia di pescatori. Sì: trovò gente semplice, così erano, ma trovò soprattutto un’educazione esemplare, gentilezza e toni pacati, gente riservata ma accogliente. E atteggiamenti, gesti, posture di grande eleganza. Niente stereotipi italo-americani, urla, spaghetti ed esuberanze varie. Il radiocronista degli Yankees Arch McDonald lo soprannominò ‘The Yankee Clipper’. Era il nome del Boeing 314 usato dalla Pan American, inaugurato nel 1939, un aereo che poteva partire e atterrare sull’acqua, poteva attraversare l’oceano. Oppure lo chiamavano ‘Joltin’ Joe’, faceva sussultare, ti dava la scossa. E niente è mai stato elettrizzante per l’America come quello che accadde nella stagione 1941 del baseball. Un paio di settimane dopo la morte di Lou Gehrig, il 15 maggio Joe aveva chiuso con una battuta valida la partita contro i Chicago White Sox. Una partita come altre, ma fu l’inizio della storia. Nelle settimane successive ha vissuto il momento più alto della sua ossessione: colpire ogni giorno, mettere una battuta valida in ogni maledetta partita. Gara dopo gara, fermentava una partecipazione popolare. Un’attenzione irresistibile. Il 29 giugno, in un doppio confronto contro Washington, allungò la serie a 42 partite consecutive. Record di George Sisler battuto . Mancava solo quel vecchio record, altri tempi e troppe poche squadre, che non si sapeva nemmeno come prenderlo quel numero. Comunque: Willie Keeler, 45 partite, tra il 1896 e il 1897. Joe lo raggiunse. E continuò. Fino a Ken Keltner. Terza base degli Indians, giocatore che fu 7 volte All-Star e che vinse la World Series nel 1948, mica scarso. Ma è entrato nella storia perché il 17 luglio del 1941 fece due incredibili prese di rovescio su due battute di DiMaggio. Fine dell’impresa, fine della storia. Il record si fermò a 56 partite consecutive con battute valide. Fine della cronaca e inizio della leggenda di un record, perché l’impresa è sempre stata considerata una delle più impressionanti mai avvenute. Nello sport, non solo nel baseball. Un record imbattibile e mai battuto, mai nemmeno avvicinato. Pete Rose arrivò a 44 nel 1978, in anni recenti raramente si è arrivati a 30 o si è andati oltre . Joe DiMaggio ha fatto in realtà qualcosa di più grande. Dopo quel 17 luglio, riuscì a battere per altre 16 partite consecutive. Nel 1941 fece quindi 72 su 73, e impressiona più del record. La carriera di ‘Joltin’ Joe’ fu interrotta dalla guerra , fu limitata dalle misure dello Yankee Stadium, troppo grande all’esterno centro e sul centro sinistra rispetto ad altri stadi. Joe ha battuto solo il 41% dei suoi fuoricampo in casa, altrove ha fatto molto meglio. Fu limitata alla fine da un corpo sempre elegante ma ferito, pieno di dolori, che lo costrinse al ritiro nel 1951. Poteva aggiungere altri numeri, quelli rimasti ne fanno uno dei migliori giocatori di tutti i tempi. Ha giocato 13 stagioni, sempre negli Yankees, e ha vinto 9 titoli . Per 13 volte è stato convocato all’All Star Game, è stato 3 volte MVP. Ancora oggi ha il maggior numero di stagioni con più fuoricampo che strikeout . Joe lo ha fatto 7 volte. Un confronto, per capire. I due migliori battitori di oggi sono Aaron Judge e Shohei Ohtani. Judge nel 2024: 58 fuoricampo e 171 strikeout. Ohtani nel 2024: 54 fuoricampo e 162 strike out. I migliori hanno il triplo degli strikeout rispetto ai fuoricampo. Traduzione: DiMaggio la palla la colpiva sempre, come nessuno mai, se non Ted Williams, che era un suo contemporaneo. Williams giocava nei Boston Red Sox, è considerato uno dei più grandi battitori di sempre e nel 1941 finì con la media battuta di .406. Irreale. Inavvicinabile anche questo nei decenni che hanno portato ai nostri giorni. Ma il titolo di MVP quell’anno andò a DiMaggio, anche per la striscia delle 56 partite consecutive. Probabilmente il 1941 è stata una delle migliori stagioni di sempre nel baseball. L’AMORE ALL’IMPROVVISO E MARILYN PER SEMPRE Se restiamo solo sul pianeta baseball non vediamo tutto l’universo di Joe DiMaggio. Ci sono due donne che lo hanno illuminato, quell’universo. Marilyn Monroe e la Signora Robinson. Joe aveva un debole per la bellezza, terribilmente attratto soprattutto dalle attrici. Nel 1937 incontrò Dorothy Arnold sul set del film Manhattan Merry Go-Round, dove lui interpretava sé stesso. La sposò nel 1939 e 20 mila persone si radunarono nei dintorni della Chiesa di San Pietro e Paolo a San Francisco. La dimensione della fama era questa. Il figlio Joe Jr. nacque nel 1941 . Non andò bene, quasi mai. Dorothy voleva un marito, un padre per suo figlio, una situazione stabile. Joe voleva continuare la vita che lo aveva messo al centro dell’America. Eccola, la vedete? È la contraddizione che caratterizzò sempre la sua esistenza: garbato, sobrio, ma ossessionato dalla sua immagine e dal suo ruolo, il grande campione che amavano tutti. Non poteva fare a meno di essere quello che l’America voleva che fosse. Divorziò da Dorothy Arnold nel 1944, durante la guerra. Con Marilyn fu amore a prima vista. Che banalità . Nessuna banalità. È stato letteralmente così. Folgorato la prima volta, nel 1951. Marilyn non era neanche lì, di persona. Era in una foto. In bella posa in un servizio di una rivista, il ‘National Enquire’, con alcuni giocatori dei Chicago White Sox. La stava leggendo dal barbiere. Fu abbastanza, anzi fu già tutto. Reagì come quando decise che voleva battere una palla da baseball in ogni partita. Cercò di contattarla in ogni modo, partendo da quel servizio fotografico. Era con dei giocatori di baseball, dopotutto. Qualcuno doveva sapere come arrivare a lei. E ci riuscì. Ci furono interminabili telefonate tra New York e Los Angeles, forse qualche incontro, rapido, interlocutorio, in un rapporto ancora indefinibile. Con i media che già banchettavano sulla storia del secolo, perché qualcuno si era lasciato scappare che i due si parlavano. L’incontro alla fine ci fu, parecchi mesi dopo, nel ristorante Villa Capri di Los Angeles. Dopo cena nella suite dell’Hotel Beverly Carlton. Marilyn era colpita da quel signore, alto, elegante e gentile. Joe era sempre più folgorato. La loro frequentazione era uno scoop quotidiano, una striscia molto più lunga delle 56 partite consecutive con una valida. La più affascinante attrice di Hollywood, in prepotente ascesa in quegli anni, e il mito del baseball, il più forte e ammirato campione. Un campione geloso. Molto geloso. Con Marilyn poteva essere un problema. Non era l’unico uomo che vedeva e che frequentava. Era nel vortice della notorietà e del desiderio di tutti e anche il gossip contribuiva ad alimentare la sua carriera. Mesi di corteggiamento. Poi, la sera della vigilia del Natale del ‘53, Joe fece arrivare a Marilyn un regalo decisivo: un grande albero con un cartello di auguri. Il 14 gennaio del 1954 Marilyn e Joe si sposarono. Questa volta in forma privata al Municipio di San Francisco. L’America non parlava d’altro, sembrava quasi non desiderasse altro. Cosa poteva esserci di meglio? Che fossero anche felici, magari. Lo sono stati, almeno un po’. Possiamo chiamarlo amore, un classificatore ufficiale del baseball non avrebbe dubbi, non lo confonderebbe con un errore. Ma era un amore in fuga. Nelle prime due settimane si sono rifugiati in montagna, un luogo isolato, vicino a Palm Springs. Poi partirono in viaggio di nozze per il Giappone, dove Joe avrebbe tenuto un tour promozionale per il baseball. Via dalla pazza folla. Illusi. Durante lo scalo ad Honolulu furono riconosciuti e accerchiati dalla gente. A Tokyo tremila persone li aspettarono all’arrivo, una moltitudine adorante e curiosa prese d’assalto l’albergo, contenuta a fatica. Fu così sempre, ovunque. Marilyn fu invitata a tenere uno spettacolo per i soldati americani impegnati in Corea. Temperature gelate, ma mandò in surriscaldamento tredicimila militari rumorosi ed entusiasti, cantando con il vestitino attillato ed esibendosi come sapeva fare, naturalmente brillante, provocante, terribilmente sexy qualsiasi cosa dicesse o facesse. E Marilyn capì, realizzò veramente che cosa voleva dire essere una star internazionale. Un giorno arrivò a una partita dove c’era Joe, le cinquemila persone presenti allo stadio dimenticarono il baseball. Adoravano solo lei. DiMaggio capì, realizzò veramente che cosa voleva dire essere il marito di una star internazionale. Dopo l’esibizione davanti alle truppe ci fu il primo, violentissimo litigio, la prima minaccia di divorzio. “Non ho mai visto così tanti uomini adoranti in vita mia”, gli aveva raccontato Marilyn. “Io sì”, rispose Joe, ultimo rigurgito di un orgoglio da campione che ora stava perdendo la partita. I mesi successivi furono il tentativo di tenere insieme due vite inconciliabili. Marilyn, dal 1953 in poi aveva recitato in Niagara, Gli Uomini Preferiscono le Bionde, Come Sposare un Milionario, La Magnifica Preda. Enormi successi. Poco dopo il matrimonio vinse il Golden Globe 1954 come migliore attrice. Era una diva, costretta a una vita mondana che riconosceva, che la volesse o meno era ormai la sua. Joe DiMaggio stava vivendo invece la nemesi del suo primo matrimonio. Questa volta era lui che voleva una situazione tranquilla, una moglie e una casa. Marilyn non poteva fare a meno di essere quello che l’America voleva che fosse. Fecero seguito gelosia, infedeltà, violenza. Sembrava che le leggende di Isola delle Femmine fossero arrivate fino lì, in America. Una fanciulla bellissima, data in premio al campione, trattata con rabbia, ma al momento non perdonata. Non perdonata soprattutto dopo che Joe DiMaggio assistette di persona a una delle scene più famose della storia del cinema. Il 15 settembre 1954, all’incrocio tra Lexington Avenue e la 52esima strada a New York, si stava girando Quando la Moglie è in Vacanza di Bill Wilder. La gonna del vestito bianco di Marilyn che si alzava al passaggio dei treni della metropolitana. Wilder aveva avvisato un bel po’ di fotografi e durante le riprese ci furono parecchi curiosi a godersi la scena. C’era anche Joe, arrivato per fare una sorpresa alla moglie. La sorpresa fu più per lui. Gonna che si alza, tante foto e parecchi guardoni compiaciuti. “Anche io sarei turbato, se ci fossero tante persone che guardano la gonna di mia moglie svolazzare sopra la testa”, disse lo stesso Bill Wilder. Wilder aveva organizzato tutto per lanciare il film, ma girò nuovamente la scena in uno studio di Hollywood, breve e più castigata. Forse era stato davvero troppo o forse il rumore del pubblico presente aveva rovinato l’audio. Di quel momento rimasero le foto, molto più provocanti, e un filmato amatoriale girato da un appassionato di cinema che è saltato fuori solo pochi anni fa. Quella scena fu la fine del matrimonio, la lite e le violenze che seguirono convinsero Marilyn a chiedere il divorzio nell’ottobre del 1954, nove mesi dopo le nozze di San Francisco. Joe fu devastato. Scrisse lettere di scuse e di perdono, cercò il lieto fine della leggenda delle fanciulle di Isola delle Femmine. Dichiarò il suo amore eterno per Marilyn. Anche lei fu particolarmente addolorata, spesso in lacrime durante le udienze. Ma si lasciarono. Rimanendo sempre in contatto. Qualcosa di quell’amore è continuato nel tempo. DiMaggio fu vicino a Marilyn negli ultimi disperati mesi, forse ci fu la ripresa di un legame, di sicuro prestò i soldi per la casa di Brentwood dove Marilyn fu trovata morta il 4 agosto del 1962, con una dose di barbiturici nel sangue ben oltre la soglia letale. Fu Joe ad organizzare e pagare il funerale, sconvolto dal dolore la baciò e per tre volte le disse “ti amo” prima di chiudere la bara. Non volle Hollywood, non volle la politica e i Kennedy al funerale di Marilyn. Nessuno degli altri ex mariti partecipò. Joe DiMaggio ha fatto consegnare rose rosse sulla sua tomba tre volte alla settimana per 20 anni. Non rilasciò mai interviste sulla sua relazione con Marilyn, non disse mai una parola sulla diva più indagata al mondo prima di Lady Diana e sul suo modo di essere e di vivere, che pure lo aveva fatto disperare. Quando chiedevano di lei, riusciva solo a commuoversi, senza parole. Non si risposò mai, anche se gli attribuirono flirt con attrici, modelle e cantanti famose come Lee Meriwhether, Marian McKnight, Marlene Dietricht, la bomba sexy Cleo Moore, biondissima come Marilyn, Gloria DeHaven. DiMaggio è morto l’8 marzo del 1999 a 84 anni. Secondo il suo avvocato e amico Morris Engleberg, se ne è andato dicendo: “Finalmente potrò rivedere Marilyn”. Piace crederlo. Marilyn e Joe anche loro in pace e felici da qualche parte, anche loro dentro la leggenda di Isola delle Femmine, paese gemellato con Pittsburg, California. L’OMAGGIO DI PAUL SIMON Il regista Mike Nichols adorava il duo folk rock Simon & Garfunkel. Alla fine degli anni ‘60 avevano un notevole successo e Nichols li volle coinvolgere per il suo film Il Laureato, con Dustin Hoffman. Era il 1967. Nel film entreranno capolavori come Scarborough Fair/Canticle e The Sound Of Silence. Anche due brevi estratti di una canzone che doveva chiamarsi Mrs. Roosevelt e che invece prenderà il nome della protagonista del film: Mrs. Robinson. Eleonor Roosevelt era la moglie del presidente Franklin Delano Roosevelt, una figura molto influente, attivista per i diritti civili, ebbe un ruolo determinante nel processo di creazione delle Nazioni Unite. Ma la Signora del film era Robinson, e così fu anche nella canzone. Non aveva ancora un testo definito, fu canticchiata con i famosi di di di, du du du. Nichols la volle a tutti i costi, era entusiasta. Paul Simon la completò per l’uscita dell’album Bookends del 1968, finì al primo posto in classifica e vinse il Grammy come Disco dell’Anno. Nel testo definitivo, Simon volle rappresentare la perdita dell’innocenza dell’America, la scomparsa di generazioni di eroi che erano stati un esempio da seguire e che avevano guidato le speranze e le conquiste della nazione. Il sogno americano stava andando a pezzi, alla fine degli anni 60. Stavano esplodendo le ribellioni che segnarono poi un’epoca, difficile trovare figure cristalline da usare come punti di riferimento. Nel suo passato l’America ha avuto eroi così. Come Joe DiMaggio. Paul Simon era ed è un grande tifoso degli Yankees. Il suo giocatore preferito era Mickey Mantle, ma il suo nome non stava dentro le battute della canzone come quello di DiMaggio. Forse è stato meglio così, perché Joe era un esempio più adatto al significato della canzone. E nella canzone si è preso l’ultimo ritornello: Where have you gone, Joe DiMaggio? Our nation turns its lonely eyes to you Woo, woo, woo What’s that you say, Mrs. Robinson? Joltin’ Joe has left and gone away Hey, hey, hey ASCOLTALA QUI ‘Dove sei andato, Joe DiMaggio?’ La strofa precedente descriveva la scena di un salotto americano davanti alla tv per assistere al dibattito tra due candidati: potevi ridere o urlare ascoltandoli, poi dovevi decidere chi votare, sapendo che in ogni caso avresti perso. Eccola, la disillusione. Nessun punto di riferimento certo. Di chi ci si può fidare, in quell’America della fine degli ani 60? La nazione voleva guardare ancora a te, Joe DiMaggio, ma lo faceva con occhi tristi e solitari. Perché ‘Joltin’ Joe’ ha lasciato, se ne è andato. Paul Simon ha spiegato spesso il significato della canzone, l’ha dovuto spiegare anche a Joe DiMaggio che ha incontrato qualche anno dopo in un ristorante di New York . Joe non aveva capito. Aveva preso alla lettera le parole, si domandava perché qualcuno cantasse “chissà che fine ha fatto quel vecchio campione degli Yankees”. “Sono sempre in TV, faccio spot pubblicitari, sono ovunque”, pensava DiMaggio, e si domandava cosa c’entrasse lui con i candidati in politica e Mrs. Robinson. In quel ristorante di New York, lo chiese direttamente all’autore. Aveva perfino pensato di fare causa a Paul Simon. Ora ce l’aveva davanti. Era stato il cantante a riconoscerlo e a presentarsi, per chiarire. Trovò esattamente l’eroe che aveva descritto: una persona cordiale, elegante, che lo invitò subito a sedere e a spiegare. Simon spiegò. Joe era per lui un eroe genuino, era percepito come un uomo vero, umile nonostante la sua grandezza, riservato e profondo, uno che aveva amato e giocato con passione e integrità, difendendo con tenacia la sua vita privata. L’eroe della canzone conosceva la purezza di spirito, la forza dell’esempio e il potere del silenzio. Eroi così erano venuti a mancare, ormai. Joe ascoltò, ringraziò, strinse la mano a Paul Simon e gli disse semplicemente “buona notte”. Sapeva già, Joe DiMaggio, che a quella canzone doveva molto. Quando uscì veniva trasmessa da tutte le radio, fu n.1 in classifica, tutti impararono a conoscere chi era stato Joe DiMaggio, grande giocatore di baseball, ma idolo sul campo di una generazione precedente. Era tornato popolare anche per le nuove generazioni, Joe lo percepiva ovunque andasse e ogni volta che gli proponevano un nuovo lavoro, un nuovo contratto. E Joe era terribilmente sensibile riguardo la sua immagine, la sua fama, il suo orgoglio. Era l’altra grande ossessione della sua vita, ricordate? Il più grande giocatore di baseball vivente. Era così che voleva essere presentato agli eventi a cui partecipava. Non voleva, in realtà pretendeva. Diede un pugno nello stomaco a Billy Cristal perché si era dimenticato di presentarlo così ad un raduno delle leggende Yankees. Gentile, elegante, garbato e silenzioso Joe, fino a un certo punto. Non tollerava quelli che considerava come tradimenti ai suoi sentimenti e alla sua persona. O forse, semplicemente, per Joe Dimaggio era una sofferenza continua essere Joe DiMaggio. Quella deificazione che andava contro la sua natura. Per questo alla fine fu l’unico che capì veramente Marilyn. Perché era soprattutto una sofferenza essere Marilyn Monroe. Dimaggio morì poco prima dell’inizio della stagione 1999 del baseball. Il 25 aprile fu organizzato il Joe DiMaggio Day allo Yankee Stadium. Paul Simon prese il centro del campo, in un silenzio irreale, rotto solo dall’esplosione del pubblico quando arrivò l’ultimo ritornello Where have you gone, Joe DiMaggio?... …Joltin’ Joe has left and gone away ‘Dove sei andato Joe?’ Un figlio di pescatori siciliani è stato il miglior rappresentante del sogno americano. Per gli italiani che arrivarono in America tra la fine dell’800 e i primi del 900 è stato molto di più. Furono almeno 4 milioni gli italiani emigrati nel Nuovo Mondo in quegli anni. DiMaggio ha dato dignità e rispetto a un’intera comunità di lavoratori in terra straniera, come hanno fatto altri campioni del baseball di origine italiana: Yogi Berra, Joe Garagiola, Roy Campanella, Phil Rizzuto, Tommy Lasorda, Ron Santo, Mike Scioscia, Joe Torre e moltissimi altri. Italiani poveri, diventati celebri e di successo, alcuni dei migliori interpreti del sogno americano, rimanendo profondamente italiani. Joe DiMaggio è entrato nella letteratura americana. Il personaggio di Arturo Bandini in Chiedi alla Polvere di John Fante ritrova l’orgoglio di essere italiano grazie alle imprese di DiMaggio nel baseball . Santiago, il protagonista de Il Vecchio e il Mare di Ernest Hemingway, trova il coraggio di continuare a pescare ispirandosi a DiMaggio, il giocatore degli Yankees che lottava sempre e che qui torna ad avere un legame anche con la pesca, l’inizio della sua storia personale. Hemingway conosceva Joe, andava a vedere le partite degli Yankees come suo ospite. La musica ha usato Joe DiMaggio in tante altre canzoni: Vogue di Madonna, Center Field di John Fogerty, Whatever Happened to the Heroes di Joss Stone, Father Lucifer di Tori Amos, We didn’t start the Fire di Billy Joel . Nel cinema sarà citato in Grease e in Manhattan. Paul Simon aveva ragione. Oggi molto più di allora. Abbiamo bisogno di eroi, di persone a cui ispirarci. In tempi così confusi e rumorosi, abbiamo bisogno di una guida che conosca soprattutto la dignità e il potere del silenzio.