Cosa c'entra la Stanley Cup col derby di Liverpool? La storia di un Conte leggendario

Tredici minuti, quei tredici minuti, che possono diventare quindici, o venti o ancora più, a seconda dell’andatura, delle distrazioni, delle aspirazioni: arrivare in fretta o arrivare bene, arrivare dopo aver assorbito lo scenario, magari da parte dei frequentatori non regolari, o arrivare più veloci possibili, per chi ormai il tragitto lo ha fatto centinaia di volte. Qualunque sia la durata del percorso, andare da un capo all’altro di Stanley Park, il parco circa quattro chilometri a nord del centro di Liverpool, vuol dire al tempo stesso unire e separare due mondi, quello dell’Everton e del Liverpool, i cui stadi sorgono alle estremità, secondo una linea che tra Goodison Park ad Anfield scende diagonalmente di circa 45 gradi, da sinistra a destra. Questa, però, è cosa nota, anzi fa parte dei rudimenti di base di chi impara a conoscere il calcio inglese, così come le origini stesse della rivalità: la scelta dell’Everton, nel marzo 1892, di lasciare Anfield in segno di protesta per l’aumento della quota annuale di affitto decisa da John Houlding, socio del club e proprietario sia dello stadio sia del quasi prospiciente Sandon Hotel. L’Everton andò appunto dalla parte opposta del parco e costruì Goodison Park, mentre Houlding, trovatosi con uno stadio inutilizzato e la perdita degli introiti del pub dell’hotel, molto frequentato nei giorni delle partite, colmò l’improvvisa lacuna fondando il Liverpool pochi mesi dopo, 3 giugno, prima di diventare anche sindaco della città. Ora, come è noto, con il trasferimento dell’Everton all’impianto di Bramley-Moore tutta la storia e la retorica dell’attraversamento di Stanley Park, tutte le inquadrature dall’alto con i due stadi nella medesima immagine, perdono di senso dopo il derby di ritorno di mercoledì 2 aprile 2025 sera, ad Anfield, e del resto non è che i tifosi delle due squadre si riunissero tutti presso il proprio stadio per poi marciare verso quello dell’avversaria, in occasione della stracittadina, elemento che sarà ancora più accentuato nel nuovo stadio. A proposito del quale, con una battuta storicamente ineccepibile, Andy Burnham, sindaco della città metropolitana di Manchester ma nato a Liverpool e tifoso dell’Everton, ha detto: “Con Bramley-Moore diventano tre, dopo Anfield e Goodison Park, i grandi stadi che il mio club ha costruito”. Nessuno dei tre, curiosamente, è nel distretto cittadino che dà il nome al club, ovvero Everton: Anfield è ad… Anfield, Goodison Park a Walton e Bramley-Moore tra Vauxhall e Sandhills, che è anche una fermata della metropolitana, peraltro già ingolfata in modo preoccupante in occasione della più recente prova generale di afflusso e deflusso, per una partita dell’Under 21. Ma perché il derby si chiama 'derby'? Stanley Park è sempre stato strumento e non oggetto di interesse, un aneddoto tra due stadi, ma è in realtà una parte importante della città fin dalla sua apertura nel 1870, quando fu deciso che per far respirare una zona nata nobile e periferica ma presto raggiunta e strangolata dall’espansione della città si sarebbe conservato questo angolo di verde, composto per oltre metà da prati, alcuni dei quali con bellissime fioriture di narcisi, e per il resto da un laghetto e giardini, più o meno curati. Sulle rive del laghetto, composto in realtà da tre specchi d’acqua comunicanti, è facile vedere tende di pescatori, dotati di permesso, e sono numerose le specie di volatili che nei momenti giusti dell’anno vi soggiornano, creando un luogo di pacifico isolamento rispetto al mondo circostante, fatto di rumori di auto e spesso di un silenzio frutto più della scarsa attività che di rispetto e meditazione. Originariamente però il parco aveva un altro nome, al quale ci rincresce dire che non siamo riusciti a risalire, e si chiama Stanley solo dopo l’elezione a sindaco di Liverpool di Frederick Stanley, nato nel 1841 e morto nel 1908. E qui subentra, diagonalmente ma neanche troppo, una serie di incroci sportivi che vanno addirittura oltreoceano, con una curiosa deviazione appena a nord di Manchester. Frederick Stanley, infatti, era il Conte di Derby, carica onorifica creata dalla famiglia Ferrers 900 anni fa . Senza scendere troppo in dettagli estranei alla narrazione, nacque tutto dalla battaglia di Bosworth del 22 agosto 1485 tra le truppe del re Riccardo III e quelle del rivale, Henry Tudor, uno dei momenti più importanti della cosiddetta Guerra delle Due Rose e della storia britannica: William Stanley, infatti, patrigno di Henry, era il comandante in capo dell’esercito di Riccardo III, ma in quella battaglia si fece poco elegantemente da parte, mentre suo fratello passò addirittura al nemico, portando Riccardo a urlare, fotogramma celebre nella storia inglese, “Tradimento!”. Henry Tudor vinse, pose fine alla dinastia dei Plantageneti, divenne re e per i servizi ricevuti, oltre che per la parentela, diede appunto alla famiglia Stanley la carica di conte, trasmessa nei secoli. E se volete un ulteriore, incredibile legame con il calcio, tra i sospettati di tradimento ai danni di Riccardo III ci fu anche Henry Percy, Conte di Northumberland, nipote di quell’omonimo, soprannominato Hotspur, che sarebbe poi stato scelto quattro secoli dopo come ispirazione per il Tottenham Hotspur, sorto in una zona adiacente a terreni della famiglia Percy. In più, Edward Smith Stanley, dodicesimo Conte di Derby, fu l’ideatore della corsa di cavalli chiamata Oaks e, nel 1779, di quella che tuttora va in scena all’ippodromo di Epsom e si chiama, appunto Derby: se Smith-Stanley però avesse perso il lancio della monetina con l’amico Charles Bunbury la competizione avrebbe preso il nome di Bunbury e dunque, se si considera una delle principali ipotesi della nascita dell’appellativo che indica una sfida tra squadre rivali, in queste ore avremmo celebrato l’ultimo ‘Bunbury’ di Liverpool della stagione, e l’ultimo con l’Everton ancora sistemato a Goodison Park. E va bene che ci sia abitua a tutto, ma derby suona meglio, ancor più per la sfida tra queste due squadre: perché il nome ‘Derby’ del titolo nobiliare deriva non dalla città dove gioca il Derby County ma dal comprensorio di West Derby, dove la famiglia aveva corposi terreni e che comprendeva - massì - Walton ed Everton. Ora, fosse tutto qui, l’intreccio tra nobiltà e calcio, sarebbe una parziale arrampicata sugli specchi, ma per fortuna c’è molto altro. A partire dal calcio stesso: perché il Bury Football Club, società dell’estremità nord della Manchester metropolitana - quella insomma su cui governa Burnham - gioca dal settembre 1885 a Gigg Lane, uno stadietto grazioso, classico inglese, mattoni e un po’ di cemento armato, colori blu di ordinanza, bonomia e passione, attaccamento e identità, e a concedere nell’estate di 140 anni fa il terreno per la costruzione fu… il Conte di Derby, o meglio l’amministratore. Non che fosse difficile imbattersi in possedimenti della famiglia, che a un certo punto della storia era la seconda maggior proprietaria terriera del Regno dopo quella reale, ma fa specie che i fondatori del Bury abbiano trovato proprio quell’appezzamento. Tra l’altro, nei prossimi giorni il club dovrebbe festeggiare la promozione all’ottavo livello del calcio inglese, la Northern Premier League, dopo essere stato espulso dalla Football League nel 2019, per grossi problemi economici, essere rinato grazie a una fusione che si riprese lo stadio temporaneamente passato in mani altrui ed essere ripartito nel 2020-21 dalla decima serie. Se vi capita, andateci: sono gentili, accoglienti, appassionati e orgogliosi, come dimostrano i richiami alle due FA Cup vinte nel 1900 e 1903, 4-0 al Southampton e 6-0 al Derby County, da primo club dell’area di Manchester ad avere successo in campo nazionale. Intrecci oltre confine Di calcio c’è abbastanza, ma l’intreccio tra gli Stanley e lo sport va oltre. Come del resto è quasi logico per una famiglia potentissima, anche se caduta in disgrazia presso i Reali per quasi 200 anni e, a un certo punto, persino caduta in situazione economica disagiata, non tanto per la mancanza di introiti quanto per le spaventose spese di gestione delle proprietà. Risollevatasi parzialmente grazie a cessioni di terreni e beni operata da Edward Henry Stanley, figlio di Edward Smith Stanley, quattordicesimo Conte di Derby che pur essendo stato addirittura tre volte Primo Ministro sotto la Regina Vittoria non aveva saputo fare i conti a casa propria, la dinastia espresse personalità politiche di alto livello, e tra queste - arieccolo - Frederick Stanley, che dopo una carriera in ascesa in patria, passando per la carica di Segretario di Stato per la guerra e Ministro del Commercio e dell’Agricoltura, con momenti di apprensione economica, uno dei quali salvato a sua insaputa dalla… moglie, l’1 maggio 1888 fu nominato Governatore Generale del Canada, una carica che esiste tuttora, anche se al giorno d’oggi l’indicazione della persona viene dal Primo Ministro canadese. All’epoca il Governatore aveva poteri maggiori, e Frederick Stanley li esercitò, dice la storia, con saggezza e oculatezza, adeguandosi alla vita e alle tradizioni locali e anzi contribuendo alla loro affermazione. In tanti settori - esiste in sua memoria uno Stanley Park anche a Vancouver, così come uno Stanley Theatre - ma soprattutto in uno, lo sport. Anche se in Canada, un giorno, rispose in perfetto latino a uno studente che gli aveva fatto una domanda nella medesima lingua, da adolescente e da ragazzo aveva evidenziato una inclinazione maggiore per l’attività fisica rispetto a quella intellettuale e politica - si dice che le conversazioni casalinghe del padre, il Primo Ministro, fossero “Tristi e deprimenti come la nebbia londinese” - e in Canada mostrò subito ammirazione e interesse per l’hockey su ghiaccio. Un atteggiamento rivoluzionario persino in quella nazione nascente, e che trovò una coincidenza favorevole nella decisione della Corona, nel 1871, di ritirare le proprie truppe. I canadesi, costretti a difendersi da soli da eventuali attacchi degli Stati Uniti, avevano l’impressione generale e generica che la maggior parte della popolazione in età militare non avesse la necessaria solidità morale e fisica, e fu da questo che, come in contemporanea anche in Gran Bretagna, lo sport fu visto come strumento di vigore e recupero della mascolinità, concetto molto in vigore a quei tempi . E lo sport che piaceva di più era proprio l’hockey, che nella mentalità canadese rappresentava anche la vittoria sul gelo e sull’inverno, che da ostacoli diventavano strumenti facilitatori della pratica di quello sport. Robert Tait McKenzie, medico, scrittore, scultore, atleta, educatore, scrisse che l’hockey “Tende a incoraggiare e sviluppare nei giovani quell’amore per il fair play e lo sport maschio così caratteristico dei gentiluomini britannici. Portando con sé tanti vantaggi, impliciti ed espliciti, questo elemento di potente influenza nella creazione di una progenie di uomini tenaci e autosufficienti diventerà, in futuro, lo sport nazionale canadese”. E buona parte del merito va alla lungimiranza e alla passione di Stanley, i cui figli erano diventati giocatori di hockey per passione, condivisa anche dalla moglie Constance. La sera del 18 marzo 1892, presso il Russell Hotel di Ottawa, città di residenza di Stanley, uno dei segretari del Governatore, Lord Kilcoursie, presenziò ai festeggiamenti dell’Ottawa Hockey Club, che aveva appena vinto il campionato amatoriale, e a un certo punto, dopo un brindisi alla Regina Vittoria, ringraziò i presenti e lesse una lettera di Stanley, dei cui figli era… compagno di squadra in un club chiamato Rideau Rebels, dal nome della residenza ufficiali: “È da qualche tempo che penso che sarebbe bello se ci fosse un trofeo da assegnare ogni anno alla squadra campione del Canada. Ora come ora chi vince non ha alcun modo di mostrarlo, e considerando l’alto interesse del pubblico per le partite, e l’importanza di avere uno sport che si giochi con fair play e con regole condivise, ho l’intenzione di donare una coppa alla squadra vincitrice. Non sono tra l’altro sicuro che l’attuale logistica sia soddisfacente, per cui credo che si debba prendere in considerazione una logica in cui ogni squadra giochi una volta in casa e una volta in trasferta contro ciascuna delle avversarie”. Era un’idea ‘importata’ dal calcio, dalla Football League , e soprattutto era l’idea di un trofeo, di qualcosa di tangibile, prezioso, concreto. Era la Dominion Hockey Challenge Cup , un trofeo simile ad una insalatiera, forgiato a Sheffield , che venne poi ribattezzata Stanley Cup in onore del suo ideatore, nel frattempo tornato in patria: insignito nel 1886 anche del titolo di Barone di Preston, non era riuscito ad arrivare a fine mandato, settembre 1893, perché in aprile era morto il fratello maggiore Edward Henry e le regole nobiliari pretendevano che la trasmissione del titolo Conte di Derby avvenisse in presenza. Divenuto presto sindaco di Liverpool, poi di Preston, non poté mai consegnare ad alcuna squadra la coppa che porta il suo nome, e di cui una copia fa parte tuttora del monumentale trofeo che va alla squadra campione NHL.

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Roberto Gotta