‘Sweet Caroline' è la canzone degli stadi, ma perché?

Ci sono canzoni nate per essere cantate in uno stadio, come ‘We Are The Champions’ . Ci sono canzoni nate per un’esigenza artistica e che arrivano ad essere cantate in uno stadio, come ‘You’ll Never Walk Alone’ . La trasposizione in un evento sportivo le rendono ancora più potenti. A questo secondo gruppo appartiene ‘Sweet Caroline’. Una canzone che è ovunque, ormai . Con una storia che unisce una serie di elementi affascinanti: l’amore, la famiglia Kennedy, Frank Sinatra ed Elvis, lo sport americano, la boxe e il calcio europeo, due dj impulsivi, due luoghi di culto sportivo come Fenway Park e Wembley. Neil Diamond ha scritto ‘Sweet Caroline’ nel 1969 nella stanza di un albergo di Memphis. L’ha scritta in un’ora. Era un pensiero dedicato alla moglie Marcia Murphey, la percezione dell’avvenuta costruzione di un amore. È venuto tutto facile. La melodia, il testo. Solo una cosa creava un disaccordo tra parole e musica. Il nome Marcia inserito nel ritornello non veniva bene. Un nome con due sillabe. Dopo la parola sweet , doveva esserci una parola da cantare composta da tre sillabe. Niente Mar-cia, dunque. Serviva un ‘ta-ta-taaa’. Neil Diamond ha trovato il nome adatto dentro un ricordo distante pochi anni e dentro gli appunti che conservava in un quaderno. La sua personale lista di indizi emotivi, di link in grado di aprire pagine conservate nel server della sua memoria. Il giovane autore Neil aveva un suo metodo all’inizio degli anni ‘60: catturare una forte emozione, conservarla. Con una parola chiave scritta in un quaderno che lo potesse riportare alle stesse sensazioni. Sensazioni che poi diventavano musica. La parola che Neil Diamond trovò nei suoi appunti e che riportava ad un sentimento di grande tenerezza era ‘Caroline’. Il link neuronale aveva ricomposto un’immagine. Una bambina, capelli biondi che uscivano da un casco da giovane amazzone. Stava cavalcando un pony. Un grande prato. Due persone la ammiravano sullo sfondo, lo sguardo d’amore e d’orgoglio di una mamma e un papà. L’immagine era la copertina della rivista ‘Life’, pubblicata il 7 settembre 1962. La bambina si stava divertendo. Una foto semplice, un momento di serenità, la tranquilla felicità di una famiglia americana. Non una famiglia qualsiasi. Non il prato di una casa qualsiasi. La mamma nella foto era Jaqueline Bouvier Kennedy. Il papà era John F. Kennedy. Il prato era quello della Casa Bianca. La bambina aveva quasi 5 anni e si chiamava Caroline Bouvier Kennedy, la figlia maggiore del presidente degli Stati Uniti D’America. Il nome Caroline ha funzionato. La canzone nata nel 1969 ha avuto un successo immediato, arrivando al n.4 della classifica Hot 100 di Billboard e poi al n.8 della classifica dei singoli più venduti in Inghilterra nel 1971. Piaceva a tanti, non piaceva a Neil Diamond. Faceva parte delle nuove canzoni che doveva proporre e registrare all’American Sound Studio di Memphis. Niente di speciale, pensava Neil. Non sarà certo un singolo, non sarà una hit. È sorprendente come certe creature a volte sfuggano agli artisti per diventare altro. Non le capiscono, non capiscono cosa le porta così lontano, via da loro. ‘Sweet Caroline’ ha avuto il percorso che apparteneva a molti classici dell’epoca, quando entrano nel grande patrimonio della musica popolare. Elvis Presley ha fatto una sua versione già nel 1970, pubblicata nell’album dal vivo ‘On Stage’. Anche Roy Orbison l’aveva inserita nei suoi concerti . La grande consacrazione è arrivata con la versione cantata da Frank Sinatra e pubblicata nell’album ‘Some Nice Things I’ve Missed’, del 1974. La miglior cover di ‘Sweet Caroline’ mai pubblicata, secondo lo stesso Neil Diamond. La voce del più grande artista di intrattenimento di sempre, accompagnato dalla sua orchestra. Dopo gli anni ‘70 ‘Sweet Caroline’ è rimasta popolare. Una canzone festaiola, da karaoke. Matrimoni, battesimi e compleanni. Stava lì, la conoscevano un po’ tutti, la potevi tirare fuori quando volevi cantare in allegria. Famosa senza essere clamorosa. Poi ha fatto veramente la storia grazie allo sport, che negli anni ‘90 ha intuito il potenziale di una canzone semplice e zuccherosa. Con un testo facile e ottimista. Una canzone capace di far cantare tanta gente. Tutti insieme. Abbracciati. Una canzone da cantare nel luogo dove si tenevano le feste più grandi e dove c’era il karaoke con il maggior numero di aspiranti cantanti. Lo stadio. RISCOPERTA NEGLI ANNI ‘90 La musica era diventata una parte significativa dell’intrattenimento offerto negli stadi e nei palazzetti d’America. Un’abitudine che si è radicata definitivamente negli anni ‘90. A Charlotte, North Carolina, non potevano fare a meno di notare che tra Caroline e Carolina ci fosse molto più di un’assonanza. Una corrispondenza quasi totale che poteva essere sfruttata, grazie alla canzone di Neil Diamond. ‘Sweet Caroline’ è diventata parte della routine musicale nelle partite casalinghe dei Carolina Panthers, squadra della NFL. I Panthers avevano debuttato come expansion team nel 1995 e avevano avuto un ottimo impatto nella più importante lega di football americano. Un grande avvenimento per Charlotte, la città più popolosa del North Carolina con oltre 800mila abitanti. Prima stagione: 7 vittorie e 9 sconfitte, la migliore prestazione di sempre di una squadra al debutto nella NFL. Il 1996 fu entusiasmante. C’era finalmente il nuovo stadio da quasi 75mila posti, costruito nel distretto centrale di Uptown Charlotte. La seconda stagione fu chiusa con 12 vittorie e solo 4 sconfitte. I Panthers vinsero la NFC West division, nei playoff eliminarono i Dallas Cowboys e si fermarono solo contro i Green Bay Packers . Un anno con molto da celebrare a Charlotte. La canzone celebrativa ideale era ‘Sweet Caroline’, trasformata in un omaggio allo stato americano, alla sua gente e al suo sport. L’occasione è stata colta poi inevitabilmente anche dall’università di North Carolina. Eppure, non è grazie al North Carolina che la canzone ha iniziato il suo giro del mondo stadio dopo stadio. È stata Boston il luogo seminale del successo definitivo, l’esempio originale che ha scatenato infiniti tentativi di imitazione. Nel 1997 i Boston Red Sox avevano affidato alla BCN Productions e ai suoi esperti il compito di intrattenere i tifosi con un ricco accompagnamento musicale durante le partite a Fenway Park, uno degli stadi del baseball più antichi d’America. La musica veniva scelta da Amy Tobey, una ragazza che aveva piena libertà di azione. La prima volta fu per caso. Conosceva qualcuno che aveva avuto una bimba e l’aveva chiamata Caroline. Pensò di fare un omaggio pubblico, ma era un pensiero privato, tutto suo. Amy aveva notato la reazione del pubblico durante ‘Sweet Caroline’. Canzone conosciuta e cantabile, voglia di festa. Da buona tifosa dei Red Sox, oppressa da mille scaramanzie, Amy decise di riproporla solo se la squadra era in vantaggio. Quando stava perdendo non c’era tutta questa allegria. La metteva verso la fine, sempre dopo la settima ripresa. Con la comprensibile cautela di un ambiente che credeva nella malasorte e nella ‘Maledizione del Bambino’, l’anatema lanciato dal più grande campione di sempre del baseball Babe Ruth . Venduto da Boston ai New York Yankees, se ne andò oracoleggiando un ‘Non vincerete mai più’. Era il 1918 e da allora i Red Sox non avevano vinto. Mai più. Comunque, alla fine degli anni ‘90 ‘Sweet Caroline’ a Boston sembrava un innesto che aveva attecchito. I tifosi cominciavano a considerarla una canzone a cui volere bene. Un momento da aspettare. Un motivo in più per andare a Fenway Park. La spontaneità del rito divenne ortodossia nel 2002. Il nuovo vicepresidente esecutivo dei Red Sox Charles Steinberg era convinto che la canzone avesse un suo potere, una magia trasformativa. La impose in tutte le partite. Restava solo da stabilire quando. Dopo il settimo inning e prima del nono dove le partite di baseball finiscono. Facile. Andava suonata e cantata nella pausa tra la parte alta e la parte bassa dell’ottava ripresa. Così è stato scritto nel manuale liturgico di Fenway Park, durante le partite dei Red Sox, da allora in poi. Nei secoli dei secoli. Nel 2002, l’introduzione dell’obbligo del rito dell’ottavo inning non convinceva la sua ispiratrice. Amy Tobey era dannatamente preoccupata. Aveva paura che la canzone potesse mutare da portafortuna a sciagura. Ha atteso il segnale divino della magia interrotta, del maleficio rivelato. Pensò di averlo trovato nei playoff del 2004, quando Boston andò sotto 3 a 0 nella serie contro i New York Yankees. Più che grandi rivali. ‘L’Impero del Male’. Il presidente dei Red Sox Larry Lucchinio aveva soprannominato così gli Yankees nel 2002. Boston rimontò da sotto 0-3 e vinse la serie di finale dell’American League, eliminando gli Yankees. Prima squadra a rimontare e vincere in gara 7 nella storia del baseball dopo aver perso le prime tre partite. I Red Sox vinsero poi la World Series 2004 contro i St. Louis Cardinals. Un nuovo trionfo dopo 86 anni. ‘Sweet Caroline’ aveva battuto anche la ‘Maledizione del Bambino’. Per i tifosi dei Red Sox era definitivamente la loro canzone. NEIL DIAMOND A FENWAY PARK Neil Diamond era piacevolmente sorpreso da questo legame speciale con Boston. Negli anni, la tradizione si era sedimentata, solidificata. Nella partita di apertura della stagione 2010 del baseball a Boston , entrò in campo per la prima volta per cantare ‘Sweet Caroline’ dal vivo insieme al pubblico. Gli avversari anche quel giorno erano gli Yankees. Neil Diamond tornò a Fenway Park il 20 aprile del 2013. Aveva più significato, questa volta. Neil prima di cantare disse: “Grazie Boston. Che grande onore essere qui per me oggi. Vi porto l’amore di tutto il Paese”. Fenway Park era coperto da cartelli con la scritta ‘B STRONG’. Boston Strong. CLICCA QUI PER VEDERE IL VIDEO Cinque giorni prima, il 15 aprile 2013, due pentole a pressione piene di esplosivo, chiodi, pezzi di ferro e sfere esplosero nei pressi del traguardo della Maratona di Boston. Ci furono tre morti: Krystle Campbell, una ragazza di 29 anni; Lingzi Lu, un ragazzo cinese di 23 anni; Martin Richard, un bambino di 8 anni di Dorchester, un quartiere popolare di Boston. 264 feriti. La reazione della città fu rappresentata dal baseball e dai Red Sox. David Ortiz, il giocatore più famoso della squadra, l’idolo dei tifosi, pronunciò un breve discorso. “Questa è la nostra città e nessuno può minacciare la nostra libertà. Siate forti!”. Un leader sportivo che diventava capopopolo nel momento del bisogno. Più efficace di qualsiasi politico, amministratore o dirigente di polizia. E poi c’era ‘Sweet Caroline’ e c’era Neil Diamond che la cantava dal vivo. Non celebrativa questa volta. Più intensa. Esprimeva la determinazione delle persone che volevano tornare a vivere ‘good times’, i bei tempi citati nel testo. La versione diffusa a Fenway Park era l’originale del 1969. Quindi Neil Diamond cantava seguendo sé stesso, sovrapponendosi e creando un effetto straniante. A volte un’eco, a volte anticipando o ritardando le parole del testo: Where it began I can't begin to know when But then I know it's growin' strong Was in the spring And spring became the summer Who'd have believed you'd come along? Dov'è iniziato Non è dato saperlo Ma so che sta crescendo forte Era in primavera E la primavera divenne estate Chi avrebbe creduto che saresti arrivata Hands Touchin' hands Reachin' out Touching me, touchin' you Mani, mani che si sfiorano Allungandosi, toccando me, toccando te Sweet Caroline Good times never seemed so good I've been inclined To believe they never would Dolce Caroline I bei tempi non sono mai sembrati così belli Ero disposto A credere che mai lo sarebbero stati La seconda parte del testo sembrava scritta apposta per descrivere quel bisogno di vicinanza che Boston stava vivendo. La lettera d’amore scritta da Neil Diamond per Marcia Murphey nel 1969 era diventata la lettera d’amore e di resistenza che una città voleva sentire. But now I look at the night And it don't seem so lonely We fill it up with only two And when I hurt Hurtin' runs off my shoulders How can I hurt when holdin' you? Ma ora guardo la notte E non sembra così triste L’abbiamo riempita noi due E quando soffro Il dolore mi scivola addosso Come posso stare male quando ti stringo? Warm Touchin' warm Reachin' out Touchin' me, touchin' you Calore Toccando calore Raggiungendoci Toccando me, toccando te Sweet Caroline Good times never seemed so good I've been inclined To believe they never would, oh, no, no Dolce Caroline I bei tempi non sono mai sembrati così belli Ero disposto A credere che mai lo sarebbero stati In questa esecuzione Neil Diamond ha fatto le pause necessarie per permettere al pubblico di cantare le aggiunte alla versione originale. Ormai c’era la sua versione e quella cantata dal pubblico, con le variazioni. Erano addirittura le parti preferite dal pubblico. Quelle che caratterizzavano maggiormente la canzone. L’autore si era arreso all’evidenza e alla consuetudine. Nel ritornello, dopo “Sweet Caroline”… i tifosi gridavano “Uoh! Uoh! Uoh!”. Dopo “Good times never seemed so good”, gridavano “So Good! So Good! So Good!”. Negli stadi di tutto il mondo c’è stata, c’è e ci sarà sempre questa aggiunta nei cori. Da cantare scandendo le battute con braccio alzato e pugno chiuso o indice verso il cielo. Neil Diamond è entrato nella storia di Boston. È diventato un suo figlio adottivo. Veniva da un altro luogo. La prima volta a Fenway Park, quella del 2010, aveva il cappellino da baseball con la B, simbolo dei Red Sox e una giacca con una scritta enorme sulla schiena. ‘Keep the Dodgers in Brooklyn’. Fate restare i Dodgers a Brooklyn. Era lo slogan del disperato tentativo dei tifosi di bloccare il trasferimento dei Dodgers da Brooklyn, dove erano nati nel 1883, a Los Angeles. Si erano trasferiti in California nel 1958. Lo strappo era rimasto. Neil Leslie Diamond era nato nel 1941 a Brooklyn, New York. UN ARTISTA E UNO SPORTIVO Nato e cresciuto in una famiglia di ebrei immigrati dall’Europa. Russi i nonni materni, polacchi quelli paterni. Mercanti di tessuti. Neil ha frequentato la Erasmus Hall High School di Flatbush Avenue a Brooklyn, una scuola intitolata a Erasmo da Rotterdam. L’inclinazione artistica era già chiara, sancita dall’ingresso nel Chorus and Choral Club della scuola. È stata la scoperta del canto. Insieme a lui, nel Chorus and Choral Club c’era una ragazza che si chiamava Barbra. Era Barbra Streisand. Ha venduto 150 milioni di dischi, ha vinto 10 Grammy, 9 Golden Globe, 2 Oscar. Una delle più grandi performer di tutti i tempi. Non fu una grande amicizia, in realtà. Perdevano il loro tempo davanti alla scuola, fumando qualche sigaretta. Senza un dollaro in tasca e senza sogni di successo nel mondo della musica, perché il futuro non aveva ancora un indirizzo certo dove andare. Nessuno sapeva chi era destinato a diventare. Forse ne era consapevole solo un compagno di scuola di Neil che si chiamava Bobby. Era Bobby Fisher. A 14 anni aveva già vinto il titolo nazionale americano di scacchi. Un prodigio. Una vita da film, raccontata in diversi film. Lasciò l’Erasmus Hall High School a 16 anni, “Perché tanto a scuola non si poteva imparare niente”. Campione del mondo di scacchi nel 1972 dopo il celebre duello con Boris Spassky, che rappresentava l’Unione Sovietica. La Guerra Fredda giocata su una scacchiera. Il mondo intero che studiava ogni mossa. Poi fu un crescendo caotico. Il rifiuto di affrontare Karpov, 20 anni senza giocare una partita, la rivincita con Spassky organizzata nel 1992 a Belgrado, nella Jugoslavia sottoposta alle sanzioni dell’ONU. Una violazione dell’embargo che gli impedì per sempre in ritorno negli USA. Una vita da fuggiasco e rifugiato, tra Ungheria, Filippine e Giappone dove fu arrestato. La cittadinanza islandese e la morte a Reykjavik nel 2008. Neil Diamond lasciò questa sorta di seconda sede di ‘Saranno Famosi’ , perché la famiglia si era trasferita a Brighton Beach. Cominciò a frequentare la Abraham Lincoln High School. Sognando di diventare un campione nello sport. Era diventato un membro della squadra di scherma. Il suo migliore amico era Herb Cohen, capitano della squadra. Herb Cohen fu reclutato dalla New York University. Diamond lo seguì per far parte del team che nel 1960 partecipò al campionato NCAA di scherma . Vinse il titolo universitario nel fioretto e partecipò ai Giochi Olimpici di Tokyo 1964 e Città del Messico 1968. Un campione, che tornò a fine carriera alla New York University come allenatore. Neil non riusciva a vedere la scherma come Herb, che combatteva “Come se la mia vita dipendesse da quell’assalto”. Aveva trovato un altro tipo di pedana. Un palco. Come molti ragazzi di famiglia ebraica, passava alcune settimane estive al Surprise Lake Camp, North Highlands, circa 100 km più a nord di New York. Al camp vide un concerto di Pete Seeger. Negli anni in cui stava diventando Pete Seeger. Uno dei cantanti folk più famosi, ispirazione di migliaia di giovani americani che seguivano anche le sue radicali battaglie per l’ecologia e i diritti civili. Woody Guthrie, Pete Seeger e un ragazzino che si chiamava Bob Dylan. All’inizio degli anni 60 l’anima folk dell’America aveva la sua Trinità. Anni ben documentati nel film di James Mangold ‘A Complete Unknown’, con Timothée Chalamet e Edward Norton . Il concerto di Seeger fu un’esperienza rivelatrice per Neil Diamond. Le forti emozioni trasmesse dal vivo da un cantante così ammirato, dalle sue canzoni. E poi, soprattutto, l’annullamento totale della parete tra artista e pubblico. Per Seeger e Guthrie la musica era una condivisione. Spesso incoraggiavano i ragazzi a scrivere e cantare canzoni proprie. Appoggiavano i loro strumenti e ascoltavano chi si proponeva tra il pubblico. Neil Diamond capì per la prima volta che anche lui poteva scrivere dei testi, poteva trovare le note giuste. Non riuscì a finire il college. Scrivere canzoni lo aveva assorbito, non esisteva altro nel suo mondo. Iniziò con un lavoro temporaneo alla Sunbeam Music, 50 dollari a settimana. Non funzionò, come non funzionò una breve esperienza con la Columbia Records. Un pellegrinaggio musicale, senza sosta. Non riusciva a imporsi cantando le sue canzoni, ma cominciava a essere apprezzato come autore. ‘Sunday and Me’ fu la prima Top 20. I primi grandi successi arrivarono con i Monkees, che cantavano ‘I’m a Believer’, ‘A little bit me, a little bit you’. Le sue canzoni venivano scelte da Elvis e Cliff Richard, perfino da una hard-rock band che si chiamava Deep Purple. Il successo commerciale gli consentì di incidere e cantare personalmente, ottenendo finalmente un buon riscontro con ‘Solitary Man’, ‘Cherry, Cherry’ e ‘Kentucky Woman’. Arrivarono i primi tour, apriva i concerti di Herman’s Hermits e degli Who. Diamond non scriveva canzoni di protesta. La necessità di produrre buone hit per sopravvivere lo avevano indirizzato verso una musica pop, commerciale. Dopo i primi successi provò a cambiare. Canzoni più intime, personali. In totale disaccordo con la Bang Records, la sua casa discografica. Seguirono anni di liti e problemi legali, il tentativo di ripartire con la Uni Records e un album che non è entrato in nessuna classifica, nemmeno una settimana di presenza nei bassifondi di una periferia musicale che ignorava il suo passaggio. Neil Diamond era scomparso. Decise di fare quello che avevano fatto i Dodgers nel 1958. Lasciare Brooklyn, New York. Andare a Los Angeles. GLI ANNI DEL GRANDE SUCCESSO Il trasferimento in California avvenne nel 1969. Neil Diamond trovò naturalmente la sua dimensione artistica, suoni più dolci, una linea melodica più chiara e coerente. ‘Sweet Caroline’ era l’esempio perfetto. Fu la canzone della sua rinascita. Non fu neanche il suo maggior successo, all’epoca. Arrivarono ‘Cracklin’ Rosie’ nel 1970 e ‘Song Sung Blue’ nel 1972 che raggiunsero il n.1 della Hit 100. La vampata di ritorno della nuova notorietà lo ha aveva investito e avvolto completamente. Anni favolosi. I concerti al Greek Theatre di Los Angeles, dove fu il primo a usare dal vivo un sistema di diffusione sonora stereo. Il ritorno con la Columbia Records, con un contratto da un milione di dollari per album anticipati. Successi consolidati e continui, one-man show, collaborazioni e duetti. Uno in particolare, per ‘You Don’t Bring Me Flowers’. Brano uscito nel suo album ‘I’m Glad You’re Here With Me Tonight’ del 1977. Barbra Streisand ne fece subito una cover nel suo album ‘Songbird’ del 1978. Pochi mesi dopo fu registrato il duetto Streisand-Diamond . Divenne il preferito delle radio in tutti gli States nel 1978 e, inevitabilmente, n.1 della Hit 100. Neil aveva ritrovato Barbra, nella linea temporale di un percorso iniziato fumando qualche sigaretta fuori dalla Erasmus Hall High School di Brooklyn. Era tutto meraviglioso. Eppure, tutto stava per finire, 10 anni dopo ‘Sweet Caroline’ e il periodo più bello della sua vita. Nel 1979 Neil Diamond collassò sul palco durante un concerto a San Francisco. Quando si risvegliò non sentiva più le gambe. Fu operato per rimuovere un tumore alla spina dorsale. Da anni perdeva sensibilità alla gamba destra, un sintomo disatteso, la volontà che voleva ingannare il corpo. Ha scritto lettere d’addio ai suoi amici più cari, convinto di non rivederli. Affrontò 12 ore di operazione. Dopo una lunga riabilitazione, ricominciò il suo canto. E ricominciò il successo, non con l’intensità di prima ma con episodi notevoli come la colonna sonora di ‘The Jazz Singer’ e canzoni come ‘America’ e ‘Heartlight’. Nel 1987 cantò l’inno nazionale americano prima del Super Bowl, la grande finale del football, l’evento con più spettatori televisivi negli States. Lo sport gli stava regalando un ultimo momento di grande fama prima di anni di inerzia musicale senza scarti e sussulti. Gli album con le canzoni di Natale, le cover e altre mediocrità. Cose così. Una rotta artistica con pilota automatico, in costante decelerazione. Neil Diamond navigava tranquillo negli anni ‘90. L’onda anomala che lo ha spinto di nuovo in alto, come sappiamo, è venuta ancora dallo sport. E da ‘Sweet Caroline’. TUTTA L’AMERICA E TUTTO IL MONDO Un fenomeno unico. ‘Sweet Caroline’ ha avuto la prodigiosa capacità di spargersi rapidamente negli stadi e nei palazzetti. North Carolina e Boston sono stati luoghi di particolare rilievo ma tanti altri hanno considerato questa canzone come parte della tradizione locale. Quasi con la pretesa di farne un’esclusiva. Assurdo, vista l’ampiezza della sua diffusione e della notorietà. Le università americane erano sempre in cerca di canzoni coinvolgenti, molte l’hanno aggiunta alla loro playlist. Iowa State e la squadra di football dei Cyclones. L’Università di Pittsburgh ne ha fatto l’inno non ufficiale, personalizzando il testo. Ha inserito il coro “Let’s Go Pitt” dopo le parole del ritornello. Quindi… “Sweet Caroline…Let’s Go Pitt”. E ha sostituito il triplo “So Good” con “Go Pitt!”. Ha iniziato ad usarla come canzone della rimonta o portafortuna nella pausa tra il terzo e il quarto quarto durante le partite dei Panthers, la squadra di football universitario. Poi hanno esteso il possesso sulla canzone. Utilizzandola in tutti i contesti sportivi, negli eventi organizzati dagli studenti, nelle cerimonie, comprese le feste di laurea. Riferimenti a ‘Sweet Caroline’ sono finiti nel merchandising del campus universitario di Pittsburgh. I rivali di West Virginia hanno cominciato a cantarla per prendere in giro Pittsburgh. È diventata molto popolare a Penn State, anche qui grazie alla squadra di football, i Nittany Lions. Con una pausa di qualche mese durante uno scandalo per abusi su minori, dove tutto quel toccarsi e sfiorarsi del testo della canzone creava un’allusione poco opportuna. Si era diffusa anche nel mondo dell’hockey. Usata nelle partite casalinghe degli Erie Otters, squadra della Ontario Hockey League, una lega junior di hockey su ghiaccio. Il coro personalizzato dai tifosi ha inserito un “London Sucks!”, insulto rivolto ai London Knights, la squadra rivale di London, città della parte sud-ovest dell’Ontario. Creando un po’ di contrasto con la tenerezza della dolce Caroline. Il primo confine varcato da ‘Sweet Caroline’ è stato quello tra Stati Uniti e Canada. È stata ed è ancora diffusa a tutto volume nelle arene per scatenare il pubblico di molte squadre della NHL, la principale lega pro di hockey nordamericano. I più fedeli sono i Vancouver Canucks. Il salto di continente è avvenuto più tardi, negli anni 2000. L’ARRIVO IN EUROPA Il 7 settembre del 2005 l’Irlanda del Nord sconfisse l’Inghilterra in una partita giocata a Belfast e valida per le qualificazioni ai Mondiali di calcio 2006. Non batteva gli inglesi dal 1972. Finì 1-0, gol di David Healy. Una dura sconfitta per la squadra allenata da Sven-Goran Eriksson. La squadra di David Beckham e Wayne Rooney, Frank Lampard e poi Steven Gerrard e Michael Owen. Una playlist di campioni. ‘Sweet Caroline’ si unì alla festa nel dopo partita. Anzi, scatenò la festa, divenne protagonista. Una notte folle per i tifosi nord-irlandesi. Da quel momento viene cantata in tutte le partite interne dell’Irlanda del Nord. Un elemento caratterizzante dello sport nord-irlandese. Lo sapevano bene i tifosi della Svizzera che nel novembre 2021 la cantarono come omaggio all’Irlanda del Nord che aveva pareggiato 0-0 contro l’Italia. La Svizzera si qualificò direttamente per i Mondiali 2022 grazie a quel pareggio e alla sua contemporanea vittoria 4-0 sulla Bulgaria. Gli azzurri andarono ai playoff, e andarono incontro alla seconda eliminazione consecutiva dalla fase finale dei Mondiali di calcio. Irlanda del Nord e ‘Sweet Caroline’ avevano lo stesso significato. Anche questa volta, l’appropriazione della canzone non poteva essere esclusiva. Le squadre inglesi avevano notato l’effetto, uno stadio intero che canta. Bellissimo. So good! Fu adottata dal Reading Football Club che nel 2005/2006 fu promosso in Premier dopo una stagione record da 106 punti. Richiesta dai giocatori, affascinati da ‘Sweet Caroline’ durante le celebrazioni della promozione. La prima stagione della storia in Premier per il Reading si concluse con una salvezza e con l’abitudine a cantare il nuovo inno. All’elenco possiamo aggiungere i tifosi dell’Aston Villa e dell’Arsenal. Ci fu una contaminazione curiosa. Il mondo del pugilato. Nelle riunioni veniva suonata spesso. Una canzone gioiosa e che predicava amorevoli abbracci, finita tra gli appassionati del combattimento. Accompagnava i match di Josh Warrington, ‘The Leeds Warrior’. Il Guerriero di Leeds è stato campione del mondo dei pesi piuma. Aveva un notevole seguito di tifosi. Pazzi di ‘Sweet Caroline’. La canzone preferita di Tyson Fury, ‘The Gypsy King’, campione del mondo dei pesi massimi. Non la cantavano i suoi tifosi, la cantava lui. Alla presentazione del suo incontro con Francesco Pianeta e soprattutto sul ring di Las Vegas dopo la sua vittoria contro Deontay Wilder per KO, uno dei ritorni vincenti più clamorosi di sempre in un mondiale. Tyson Fury ha perfino registrato un singolo con la sua versione di ‘Sweet Caroline’. Per uno scopo benefico: raccogliere fondi per una associazione che si occupa di salute mentale. Nonostante si sia rivelata in Europa per celebrare una vittoria contro l’Inghilterra è stata proprio la nazionale inglese a fare espandere la celebrità di ‘Sweet Caroline’, tanto da farla tornare nelle classifiche di vendita. Nel luglio 2021 entrò nella chart dei singoli del Regno Unito, 50 anni dopo la prima volta. Arrivò fino al n.20. Come era avvenuto a Boston, c’entrano un dj dotato di buon intuito e un grande stadio. Nell’estate 2021 si giocava Euro 2020 . Ottavi di finale a Wembley. Inghilterra contro Germania. 2-0 con gol di Sterling e Kane. Il dj che si occupava di mettere la musica allo stadio si chiamava Tony Perry. Aveva una lista di canzoni da utilizzare, approvate dall’Uefa. Non c’era ‘Sweet Caroline’, ma lui la inserì nel prepartita, accolta con un entusiasmo travolgente dai tifosi. Al termine della gara, l’atmosfera era elettrizzante. Tony Perry aveva due canzoni sulla sua lista per celebrare una vittoria inglese. ‘Three Lions’, la canzone scritta da David Baddiel e Frank Skinner per gli Europei 1996 e che era diventata l’inno della nazionale di calcio. E subito dopo ‘Vindaloo’ dei Fat Les, una canzone scritta per i Mondiali 1998 dal bassista dei Blur Alex James e cantata, diciamo più che altro parlata, dall’attore Keith Allen. Un motivo sempliciotto pieno di ‘nah, nah, nah’ ripetuti all’infinito per cantare in coro e gridare ‘England!’ ogni tanto. Tony Perry, rispettò il protocollo e fece partire ‘Three Lions’, poi buttò via ‘Vindaloo’. Ci voleva qualcosa di meglio. Era un momento di gioia collettiva. Scelse ‘Sweet Caroline’. E la gioia collettiva divenne un’esplosione. Inattesa e sorprendente per tutti, indimenticabile. L’allenatore Gareth Southgate disse nel post-partita: “Non c’è niente di meglio di ‘Sweet Caroline’, vero?”. Southgate riuscì a esprimere le sue emozioni. Harry Kane, l’autore del secondo gol, no. Visibilmente commosso, continuava a interrompere l’intervista in campo. Per sentire i tifosi. Per dire che non sapeva cosa dire. Dopo la semifinale vinta 2-1 dall’Inghilterra sulla Danimarca, furono i giocatori della squadra inglese a guidare il coro di ‘Sweet Caroline’. La canzone di Neil Diamod aveva conquistato Wembley, i tifosi inglesi e l’attenzione del mondo. Ancora una volta. Ogni volta più forte. È stata la colonna sonora del titolo vinto dalla squadra inglese femminile di calcio negli Europei del 2022. Gol vincente di Chloe Kelly nella finale contro la Germania. Durante l’intervista a bordo campo per la BBC, è partita ‘Sweet Caroline’. Chloe Kelly ha lasciato l’intervista ed è corsa dalle sue compagne per cantare. Portandosi dietro il microfono. Non poteva perdersi l’esperienza. Nonostante le sconfitte contro l’Inghilterra, sottolineate da ‘Sweet Caroline’, anche la Germania ha avuto una speciale adorazione per la canzone di Neil Diamond. Parte del merito di una diffusione così dilagante appartiene alla festa di tutte le feste. Tra fine settembre e i primi di ottobre, Monaco di Baviera ospita la più grande fiera del mondo. L’Oktoberfest ha 7 milioni di frequentatori di media e altrettanti boccali di birra. Una tradizione iniziata nei primi anni dell’800. Negli stand che possono ospitare migliaia di persone, si suona e si canta lo ‘schlager’, la musica popolare tradizionale. Ma a far ondeggiare migliaia di boccali di birra e a scatenare urlatori al luppolo è anche e soprattutto ‘Sweet Caroline’. Una popolarità simile è stata ben recepita dai tifosi delle squadre di calcio tedesche. Il rito per eccellenza si tiene nelle partite casalinghe del Friburgo all’Europa-Park Stadion. Friburgo è una città della Brisgovia, vicino al confine con la Francia, poco distante da quello con la Svizzera, tra la valle del Reno e la Foresta Nera. Una leggenda locale narra la storia di una ragazza di 17 anni, morta di tubercolosi nel 1867. Si chiamava Caroline Christine Walter. Era il ritratto della vita stessa, la bellezza accecante di un’adolescente amatissima. Fu sepolta nel vecchio cimitero cittadino, l’Almer Friedhof. La sorella Selma incaricò uno scultore di riprodurre esattamente Caroline con una statua a grandezza naturale da mettere sulla tomba. Distesa, coperta da un lenzuolo, dolcemente addormentata , un libro tra le mani, i capelli lunghi sulle spalle, un tenero sorriso. Un incanto fissato per sempre, contro la crudeltà definitiva della morte che voleva imporre un termine a tanta bellezza. Il giorno dopo la sepoltura, la sorella Selma trovò sulla tomba un fiore fresco. E lo ritrovò, ancora. Ogni giorno. Per mesi, per anni. Nessuno sapeva come, vedeva chi lo portava e capiva perché. Ma da oltre un secolo, sulla tomba di Caroline compare un fiore fresco. Ogni giorno. La tomba con la statua di Caroline Walter è una delle maggiori attrazioni di Friburgo. Come potevano non innamorarsi di ‘Sweet Caroline’ tra la valle del Reno e la Foresta Nera? CAROLINE KENNEDY E MACARONI Caroline Kennedy ha vissuto a lungo inconsapevole. Non sapeva di avere ispirato con una sua immagine di bambina il titolo di uno dei più grandi successi della musica pop. Neil Diamond non aveva mai raccontato i particolari della sua creazione. Nel 2007 fu invitato ad esibirsi durante la festa dei 50 anni di Caroline Kennedy. Ovviamente era lì soprattutto per cantare ‘Sweet Caroline’. Al termine della canzone, in un ambiente che era già emotivamente molto coinvolto, non riuscì a trattenersi. Ci sono momenti in cui le cose devono accadere, devi solo abbandonarti all’inevitabile, al giusto e al vero. Raccontò un segreto che non poteva più rimanere suo ad un gruppo ristretto, sapendo che lo stava raccontando al mondo. Raccontò della foto di quella Caroline bambina di 5 anni guardando negli occhi la stessa Caroline che aveva davanti a sé, con i suoi 50 anni. Possiamo immaginare la scena. L’incredulità, l’imbarazzo, il turbamento. Le emozioni come atomi instabili che si compongono e decompongono, scorrendo vorticosi tra pancia, cuore e cervello. Caroline Kennedy è nata il 27 novembre del 1957 a New York. Caroline, come la zia, la sorella più giovane di mamma Jaqueline, e come una bisnonna materna. Un nome di famiglia. Aveva due anni quando il padre, John Fitzgerald Kennedy, vinse le elezioni presidenziali del 1960, diventando per tutti JFK, il più giovane presidente degli Stati Uniti di sempre . La famiglia si trasferì alla Casa Bianca. Uno spazio enorme per una bambina, un castello delle favole con uno splendido prato. Su quel prato poteva girare libero un pony. Era diventato il compagno di giochi di Caroline e anche un’attrazione per gli ospiti internazionali che venivano ricevuti negli incontri ufficiali. Il pony di razza Shetland di 10 anni era un regalo del vicepresidente Lyndon B. Johnson. Si chiamava Macaroni. Il riferimento era da cercare probabilmente nel testo della canzone patriottica e popolare ‘Yankee Doodle’, dove in una strofa si parla di un pony cavalcato da un tipo con atteggiamenti da elegantone . Macaroni era una celebrità. Caroline aveva imparato a cavalcare. Erano inseparabili. La JFK Presidential Library ad Museum è ricchissima di fotografie del pony Macaroni e di Caroline alla Casa Bianca. Il pony riceveva regolarmente numerose lettere dai suoi ammiratori. Un membro della famiglia presidenziale a tutti gli effetti. La vita nel castello delle favole finì il 22 novembre 1963. John F. Kennedy fu assassinato a Dallas, colpito da due proiettili mentre stava attraversando la Dealey Plaza sulla limousine presidenziale scoperta. Nel 1968 fu assassinato anche il senatore Robert Kennedy, fratello di John. Jaqueline Kennedy non sopportava l’idea che i prossimi potevano essere i suoi figli. Lasciò l’America, sposando l’armatore greco Aristotele Onassis e portando con sé i figli sull’isola greca di Skorpios. Caroline è tornata negli States per frequentare la Concord Academy del Massachusetts, una scuola superiore di preparazione al college. Iniziò una possibile carriera da fotografa e giornalista. Nel 1976 lavorò come assistente fotografa a Innsbruck, durante le Olimpiadi invernali. Fu assunta dal ‘Daily News’. Rimaneva per ore seduta in redazione senza parlare con nessuno perché la evitavano tutti, terrorizzati. Era la figlia di Kennedy. L’articolo più importante lo scrisse per la rivista Rolling Stone. Era il racconto della sua visita a Graceland, la celebre dimora del re del Rock Elvis Presley a Memphis. Elvis era morto da poco. Il lavoro di fotogiornalista finì quando si rese conto che non riusciva ad osservare il mondo, era il mondo che osservava lei. Si è laureata in Belle Arti al Radcliffe College di Harvard. Ha lavorato al Met, il Metropolitan Museum of Art di New York. Poi la virata verso gli studi in legge, il lavoro di avvocata e scrittrice, l’impegno per i diritti civili e le organizzazioni non profit. Caroline Kennedy è stata ambasciatrice degli Stati Uniti in Giappone sotto l’amministrazione Obama dal 2013 al 2017 e ambasciatrice in Australia durante la presidenza di Joe Biden. Nella sua ricca produzione di libri ci sono raccolte di poesie amate dalla madre Jaqueline, poesie racconti e annotazioni personali che attraversano la storia della sua famiglia. Ha avuto una particolare attenzione per la letteratura per bambini e per quella dove le donne sono autrici e protagoniste. È stata l’involontaria protagonista della celebre canzone di Neil Diamond, in un momento di grazia e tenerezza catturato da una foto di copertina e impresso per sempre nel titolo e nel ritornello di ‘Sweet Caroline’. LA MALATTIA E IL RITORNO A FENWAY PARK Neil Diamond ha scritto una canzone su un amore arrivato in un momento indefinito, in primavera forse. L’inizio di un sentimento a volte non è fissato con i chiodi della consapevolezza. Parte piano e poi i chiodi li mette durante il percorso. L’amore era cresciuto e in estate era stato sorprendente rendersi conto di essere felici. Come mai prima. Sensazioni intramontabili, si riproducono e passano da una generazione all’altra. Questa disarmante semplicità poetica e melodica ha reso ‘Sweet Caroline’ uno dei più classici ‘singalong’, le canzoni da cantare tutti insieme. Un meraviglioso esempio lo ha dato Robbie Williams nel suo Heavy Entertainment Tour del 2017. Durante il concerto raccontava una storia. Raccontava di quando era bambino e guardava le performance del padre. Pete Conway, il padre di Robbie, gestiva un pub a Stoke-on-Trent, nello Staffordshire, e amava esibirsi. Dopo aver divorziato, si era dedicato completamente alla carriera nel mondo dello spettacolo, come cantante e stand-up comedian, organizzando l’intrattenimento in alcuni villaggi vacanze. Robbie era uno spettatore privilegiato in prima fila. Guardava come il padre sapeva ottenere l’attenzione del pubblico. “Lo teneva nel palmo della sua mano”, raccontava Robbie. “E in quel momento ho capito che cosa avrei voluto fare da grande”. Il racconto preparava il colpo di scena: “Mio padre cantava sempre questa canzone…”. Iniziavano le prime note di ‘Sweet Caroline’. Quando arrivava il momento di attaccare la prima strofa, entrava sul palco Pete Conway e cominciava a cantare. Pubblico impazzito. Robbie guardava il padre Pete , con lo stesso orgoglio di quando era bambino. “My daddy, everybody!”. È il mio papà. Lo aspettava su un divano, dove poi cantavano insieme il ritornello. E dove il padre poteva restituire lo stesso sguardo d’orgoglio. Con i commenti che sono stati aggiunti sotto i video di quei concerti ci si potrebbe scrivere un libro. Dichiarazioni di eterno affetto per Robbie Williams, il suo papà Pete. E per Neil Diamond. Racconti personali e toccanti di padri e figli, di rapporti intensi, vissuti e magari interrotti. Poppa Pete, come veniva soprannominato Pete Conway, ha accompagnato altri concerti di Robbie Williams, fino al 2019. Nel 2020 era previsto un grande addio alle scene, in un concerto organizzato a Stoke-on-Trent per Natale. Il Covid lo ha impedito. La malattia di Parkinson non ha più permesso a Poppa Pete di recuperare un momento così bello. Nel 2018 il Parkinson aveva costretto anche Neil Diamond ad annunciare la rinuncia ad esibirsi dal vivo. Furono cancellate le date del tour in Australia e Nuova Zelanda. All’inizio fece come quella volta nel 1979. Ignorare. Ignorare tutto. Ha detto alla sua malattia ‘ora ho da fare, ne parliamo più avanti’. Dopo un paio d’anni ha iniziato il processo di accettazione. Non ha mai veramente smesso di cantare, perché è “Una cosa che permette alla mia mente e al mio corpo di fondersi in una cosa sola”. Ma, non poteva più farlo in un concerto, davanti ad un pubblico. C’è riuscito solo due volte. Il 4 dicembre del 2022 al Broadhurst Theatre di Broadway, la sera del debutto del musical ‘A Beautiful Noise’, uno spettacolo che raccontava la sua vita e la sua musica. Senza alcun preavviso, è comparso per far cantare tutta la platea. Lo ha fatto per una sola canzone. Lo so. Sapete già che cosa hanno cantato. ‘Sweet Caroline’. Lo spettacolo aveva avuto un’anteprima in un’altra città nell’estate del 2022. Al Colonial Theatre di Boston. Non poteva esserci un altro posto. Doveva essere Boston. Il Colonial Theatre è uno dei teatri storici d’America. È stato costruito nel 1900, 12 anni prima di Fenway Park, il teatro del baseball. Il 18 giugno del 2022, Neil Diamond è comparso a sorpresa sugli spalti di Fenway Park. Ha cantato ‘Sweet Caroline’, aiutato dal cast di ‘A Beautiful Noise’, che più che accompagnarlo in alcuni passaggi lo ha proprio sostituito. È stata l’ultima volta a Boston, nello stadio che lo considera ‘The Legend’. È stata una forte emozione, forse una sospirante malinconia. Ma il messaggio di ‘Sweet Caroline’ è sempre molto chiaro. Ogni momento è unico, irripetibile. È sempre un momento come non ce ne sono mai stati altri. Viviamolo bene. So good. Neil Diamond ha lasciato una testimonianza profonda negli anni della malattia per capire e continuare ad avere a cuore ‘Sweet Caroline’. Una canzone d’amore, certo. Un amore che non ha dubbi, non fa soffrire, non si lamenta. Un amore che non ha paura, e che non racconta bugie. Quando avete bisogno di un amore così, abbracciate qualcuno e cantate ‘Sweet Caroline’.

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‘Sweet Caroline' è la canzone degli stadi, ma perché?

Danilo Freri