Il Super Bowl Shuffle del 1985: quando i Bears cantarono prima di vincere

Quel primo pomeriggio di dicembre di 40 anni fa alcuni avevano sonno, altri erano irritati, altri ancora non c’erano nemmeno. Eppure era un giorno importante: in un piccolo teatro della zona nord di Chicago, il Park West, si doveva girare il video del ‘Super Bowl Shuffle’, brano musicale a celebrazione della straordinaria stagione 1985 dei Chicago Bears. Data e momento, però, potevano apparire fuori luogo: la sera prima i Bears avevano subito a Miami la prima sconfitta della stagione, e in più, essendo dicembre, non solo non era certa la qualificazione della squadra al Super Bowl ma non c’era ancora neppure la garanzia del primo posto nella National Football Conference, passaporto per il fattore campo nei playoff. Garanzia aritmetica, perché chiunque avesse un briciolo di testa e di cognizione sportiva sapeva che quella squadra sarebbe entrata nel tabellone anche giocando alla metà del suo potenziale, circostanza peraltro impossibile vista la mentalità senza sconti dell’head coach Mike Ditka e dell’allenatore della difesa, Buddy Ryan, e già il fatto che quest’ultimo debba essere menzionato preannuncia uno dei risvolti particolari di quella squadra unica nella storia. Quando infatti i Bears il Super Bowl lo vinsero davvero, distruggendo per 42-10 i New England Patriots, ad essere portati in trionfo, sulle spalle dei giocatori, furono sia Ditka sia Ryan, fatto mai avvenuto né prima né dopo. MICHAEL&WALTER Era un periodo particolare, per Chicago, città sportiva di grande profondità e grande storia. Cubs, White Sox, Blackhawks, Bulls, Bears, una scena di basket liceale di estrema profondità e talento, ma pochi successi recenti: l’ultimo titolo NHL dei Blackhawks, squadra fondatrice della lega, risaliva al 1961, l’ultimo dei Cubs al 1908 e dei White Sox al 1917, dei Bears al 1963, ovvero tre stagioni prima che la finale prendesse il nome di Super Bowl, e nemmeno l’arrivo nel 1975 di un favoloso running back chiamato Walter Payton era riuscito a cambiare di molto le cose. I Bulls, nati nel 1966, non avevano mai vinto nulla, ma da un anno avevano in squadra Michael Jordan, e il fermento per la presenza di un fuoriclasse del genere si era abbinato alla crescita dei Bears nel dare alla città una energia sportiva che tanti non ricordavano di aver mai provato. È vero che Jordan, reduce da un’estate di autopromozione per la Nike che lo aveva visto esibirsi anche a Trieste, si era rotto un piede alla terza partita di campionato e sarebbe tornato solo per i playoff, ma il momentaneo sgomento era attenuato dalla speranzosa sensazione che quello sarebbe stato solo un intoppo nell’ascesa di Air. Jordan e Payton, leader e simbolo dei Bears, erano i Signori sportivi della città, due ragazzi del sud accomunati da un inusuale senso del dovere e della professionalità e da un sorriso aperto e cordiale che rendeva accettabile, perlomeno a livello di immagine, una determinazione quasi diabolica, maniacale, feroce. Jordan, come noto, presto avrebbe cominciato a mettere sotto una pressione a volte persino esagerata i compagni di squadra, mentre Payton era celebre per le sfiancanti, durissime sedute di allenamento che svolgeva correndo su e giù da una collinetta dietro casa, e alle quali di tanto in tanto invitava colleghi o giovani universitari che a suo avviso possedessero la forza interiore, e fisica, per non cadere stremati. Anche grazie a quelle prove allucinanti Payton durò 13 stagioni, 1975-1987, in un ruolo faticoso e sfibrante come quello del running back, e al momento del suo ritiro erano suoi praticamente tutti i record per il ruolo. Aveva uno stile di corsa fluido e non ortodosso, con scarti e scatti volti a confondere i difensori, e si rifiutava anche in allenamento di uscire dal campo ad azione ormai conclusa, preferendo mettersi alla prova - e mettere alla prova i difensori - con un ultimo sforzo per cercare il contatto. Quando l’1 novembre 1999 morì, a soli 46 anni, per rara malattia del fegato, la colangite sclerosante primitiva, l’impatto su Chicago e sull’intero mondo dello sport americano, non solo della NFL, fu enorme, così come gli omaggi di colleghi e avversari: Emmitt Smith dei Dallas Cowboys scoppiò a piangere dopo aver superato il suo record di yard corse, il 27 ottobre 2002, e anche a distanza di tanti anni la figura del numero 34 e della sua tenacia, della sua sofferenza cercata sul campo e incredula nella malattia sono vive, al di là di ogni retorica. DA COACH OF DA BEARS Il talento di Payton era stato messo al servizio di Jack Pardee e Neill Armstrong, che tra 1975 e 1981 avevano condotto i Bears a 50 vittorie e 56 sconfitte, con una partita di playoff a testa, persa. Nel 1982, George Halas, fondatore, coach e padre padrone dei Bears oltre che figura potentissima e influente della NFL, aveva voluto assumere come head coach proprio Ditka, all’epoca 42enne. Ditka era stato tight end della squadra che nel 1963, allenata proprio da Halas, aveva conquistato il titolo NFL, all’epoca il massimo traguardo possibile. Passato a Dallas, aveva vinto un Super Bowl da giocatore poi uno da assistente allenatore, e aveva scritto ad Halas per candidarsi ad allenare i Bears, scusandosi per le parole dure pronunciate nel 1967 al momento dell’addio a Chicago, e Halas lo aveva scelto, accogliendolo come un figliol prodigo. I due avevano tratti in comune, primo tra tutti una grinta che sconfinava nell’arroganza, entrambe forgiate da infanzie non facili. Ditka, cognome vero Dyczko , era di Aliquippa, Pennsylvania, terra di acciaierie, da cui il soprannome Iron Mike che è sempre parso perfetto: al liceo aveva praticato tutti gli sport e il suo allenatore nel basket era stato il ‘serbo-croato’ Press Maravich, padre di Pete, uno dei più grandi talenti nella storia del basket americano, morto per infarto a soli 40 anni nel gennaio 1988. ‘Da Coach’, ovvero ‘The Coach’ per antonomasia ma nella pronuncia di Chicago , rappresentava alla perfezione sia le sue origini sia la città a cui il suo nome resta legato, al di là di un pizzico di retorica che accompagna sempre questi parallelismi: come intuibile dal titolo di una delle sue autobiografie, 'In life, you first kick ass', insomma sii sempre tu il primo a colpire, per lui ogni ostacolo era da abbattere, non aggirare, per lui chi faceva un passo indietro non esisteva più, atteggiamento che ha mantenuto per tutta la sua carriera e anche la sua vita, come testimoniato dalla sua mentalità incrollabile anche da commentatore televisivo, sua tappa successiva. E il primo ostacolo se l’era trovato in casa: Ryan, 51 anni, che era parte dello staff di Armstrong e che Halas, con lungimiranza, aveva voluto tenere. Anzi, moltissimi difensori, fedelissimi al coach di reparto che li aveva forgiati, avevano chiesto al boss che la carica di capo allenatore venisse affidata proprio a Ryan o che, se proprio la scelta fosse andata altrove, che venisse perlomeno mantenuto lo status quo. I due non andarono mai veramente d’accordo, e Ryan spesso espresse il suo orgoglio, o testardaggine, chiedendo ai suoi difensori di non tirarsi mai indietro neppure in allenamento. Tanto che un giorno Ditka dovette ricordargli che "contro gli avversari giochiamo la domenica, non in allenamento", affermazione davvero estrema se si considera la mentalità senza sconti, di solito, di chi la pronunciò. La realtà era che l’attacco dei Bears, dotato di giocatori di livello inferiore - a parte Payton - aveva bisogno di più tempo per acquisire abitudini e schemi, e l’aggressività della difesa anche in allenamento non era particolarmente utile. Dopo due stagioni da 3-6 e 8-8, contrassegnate il 31 ottobre 1983 dalla morte, a 88 anni, di ‘Papa Bear’ Halas, nel 1984 Chicago chiuse 10-6 e arrivò alla finale della NFC, persa però malamente a San Francisco. Con una spocchia non sorprendente per una squadra della costa ovest allenata da un genio, Bill Walsh, che aveva di sé una percezione tutt’altro che bassa, alcuni dei giocatori dei 49ers presero in giro i Bears, dicendo loro "la prossima volta che venite qui portate pure l’attacco", partita e parole che costituirono al tempo stesso una ferita profonda e uno stimolo immenso per i Bears. Che trovarono la formula perfetta nel 1985, al secondo anno nel ritiro precampionato di Platteville, nel Wisconsin, scelta fatta da Ditka per allontanare la squadra dalla confusione del centro tecnico abituale, anche se nemmeno quelle cinque ore d’auto riuscirono a dissuadere parecchie centinaia di tifosi dal presentarsi a qualche allenamento, tale era l’attesa per la stagione. Attesa confermata: dopo una faticosa vittoria iniziale, 38-28 in rimonta su Tampa Bay, ne arrivarono altre 11 di fila, compreso un 26-10 sul campo di San Francisco nel quale Payton corse per 132 yard rabbiose e, a vittoria ormai certa, Ditka mise in campo a portare palla un defensive tackle di 165 chili, William Perry, per… vendetta contro Walsh che nella finale NFC ad un certo punto aveva usato un uomo di linea di attacco, Guy McIntyre, in un ruolo simile . Perry, al primo anno di NFL, era stato fin lì quasi ignorato da Ryan come difensore, perché a suo avviso era un "obeso, una scelta buttata via". Nella partita successiva, oltretutto un seguitissimo Monday Night Football e contro la storica rivale, Green Bay, Ditka per due volte usò Perry come apri-strada per Payton, con il risultato di due touchdown e di un avversario, il povero linebacker George Cumby, spazzato via da Perry, che segnò pure personalmente, da una yard; e 15 giorni dopo, a Green Bay, Perry ricevette addirittura un passaggio in touchdown, con il risultato che negli USA si scatenò una sorta di frenesia collettiva. Soprannominato ‘Fridge’, perché era largo come un frigorifero, o più ironicamente ‘Biscuit’ perché secondo il collega Dan ‘Danimal’ Hampton era "giusto il peso di un biscottino sopra i 165 chili", Perry fu invitato al popolarissimo David Letterman Show e ricevette innumerevoli proposte pubblicitarie, ‘costringendo’ Ryan a metterlo titolare anche in difesa, dove con la sua stazza e la sua mobilità negli spazi brevi lo resero un muro quasi invalicabile in una difesa che avrebbe chiuso la stagione come prima nelle classifiche per punti subiti, yard concesse e palloni strappati agli avversari, oltre che per il numero di giocatori a segnare almeno un touchdown. Trascinati da questi giocatori irripetibili, tra cui il middle linebacker Mike ‘Samurai’ Singletary, che per la sua irruenza al college aveva rotto 16 caschi e una volta aveva ricevuto una penalità in campo per aver rimproverato… se stesso in maniera eccessiva, difesa e attacco, pur a volte guardandosi storto, si fusero agli occhi della stupefatta opinione pubblica a formare un gruppo irresistibile e così sicuro di sé da accettare la folle proposta di incidere ancor prima che finisse novembre quel brano musicale, ‘Super Bowl Shuffle’. MONDAY NIGHT IN MIAMI L’idea era stata di Dick Meyer, che l’anno prima aveva fondato la casa discografica Red Label Records ed era, oltre che di Chicago, anche tifoso dei Bears. Ne aveva parlato con il wide receiver Willie Gault, un fenomeno atletico che senza il boicottaggio statunitense delle Olimpiadi di Mosca del 1980 avrebbe partecipato ai 110 ostacoli e aveva ricevuto una risposta entusiasta, anche perché Gault, che in seguito ha poi fatto anche l’attore, aveva notevoli tendenze artistiche. Alcuni giocatori, a dire il vero, erano scettici e timorosi: va bene che siamo forti e dominiamo la NFL, ma non è che parlando ora di Super Bowl ci mettiamo contro avversari, media e la sorte? Si convinsero quando venne detto loro che il ricavato sarebbe andato ad associazioni che fornivano pasti caldi, e accettarono di registrare una sorta di lungo rap dal valore artistico probabilmente discutibile ma di grande impatto, anche per la cura delle parole, adattate a ognuno dei 10, tra i 24 partecipanti totali, a cui fu chiesto di ‘cantare’. Walter Payton, ad esempio: Well, they call me Sweetness, And I like to dance. Runnin' the ball is like makin' romance. We've had the goal since training camp To give Chicago a Super Bowl chance. O Willie Gault: This is Speedy Willie, and I'm world class. I like runnin' but i love to get the pass. I practice all day and dance all night, I got to get ready for the Sunday fight. Now I'm as smooth as a chocolate swirl, I dance a little funky, so watch me girl. There's not one here that does it like me, My Super Bowl Shuffle will set you free. Registrate in qualche modo le parti vocali e strumentali, prima di uscire bisognava girare anche il video, ed eccoci tornare a quella tarda mattinata, a quel primo pomeriggio di dicembre, poche ore dopo il ritorno a Chicago del volo con la squadra, reduce dalla prima sconfitta. Con qualche tensione: visti i Dolphins - che preservarono così il record dei loro predecessori del 1972, imbattuti - sconfiggere la difesa nei primi due quarti, chiusi 31-10 , Ditka se l’era presa con Ryan, che a suo avviso si stava intestardendo in una tattica fallimentare, e i due sarebbero venuti alle mani se alcuni giocatori non li avessero trattenuti. Anche per quel motivo, al Park West non si presentarono i due più rappresentativi: Payton e il quarterback Jim McMahon, altro personaggio particolare. Il qb ‘punk’, come descritto da media rapidi a dare etichette, era uno spirito libero , uno che all’università era andato nella mormone Brigham Young ma aveva ripetutamente violato il divieto di non bere alcool, uno che considerava come migliori amici i suoi uomini di linea e avrebbe imposto la presenza di almeno due di loro in qualsiasi apparizione pubblicitaria . McMahon non aveva giocato per infortunio, a Miami, ma era comunque indispettito e momentaneamente isolato in un mondo tutto suo, dopo il rimprovero di Ditka per l’abbigliamento trasandato con cui aveva assistito a bordo campo alla partita a Dallas, sulla quale apriamo una doverosa parentesi: pur giocando anche lì col quarterback di riserva, Steve Fuller, Chicago aveva annichilito i Cowboys 44-0, quasi con dispiacere di Ditka, che aveva inferto al suo maestro ed ex head coach Tom Landry una delle peggiori sconfitte della storia, tanto che un giornale, parafrasando il nome di un celeberrimo video porno , titolò con allitterazione ‘Ditka does Dallas’. Payton e McMahon furono filmati a parte, alcuni giorni dopo, e nel video, celeberrimo e rintracciabile sul web, le loro figure sono palesemente sovrapposte, con le incerte tecniche dell’epoca, a quelle dei compagni. Restava da definire un dettaglio, che tale non era: quando pubblicare il tutto? Hampton, il difensore più feroce, quello che un giorno disse "sapete come trovano i difensori dove sono nato io, nell’Arkansas? Scuotono un albero, e quelli che dopo essere caduti a terra si rialzano come se niente fosse li mettono a giocare in difesa", era del tutto contrario, McMahon e Payton volevano che si attendesse la fine della stagione, ma ragioni di freschezza, marketing e… fuga di notizie imposero l’uscita immediata, con sorpresa persino di Ditka, che si era rifiutato di partecipare ritenendo imbarazzante la propria presenza. Di recente, intervenendo in un documentario proprio sui 40 anni da quel periodo irripetibile, alcuni giocatori hanno ammesso che aver trascorso quelle ore assieme, in sala registrazione e al Park West, contribuì a cementare una ancora maggiore unità di squadra, che a volte, per la rivalità sotterranea tra attacco e difesa, aveva rischiato di sgretolarsi. INARRESTABILI Nonostante alcune perplessità sui testi e sulla coreografia , e il fatto che nel video si veda Fuller con una fasciatura, frutto delle botte prese poche ore prima, il successo era praticamente scontato: nove settimane nella top 100, con un massimo di 41esima posizione, disco d’oro per la vendita di almeno 500.000 copie, una candidatura al Grammy nella categoria ‘Miglior rhythm’n’blues di un duo o un gruppo’, anche se a vincere fu - con maggiori meriti artistici, non sorprendenti - ‘Kiss’ di Prince, curiosamente un teorico nemico in quanto cresciuto a Minneapolis, la città dei Vikings. Né ci furono conseguenze sul morale o sui risultati: arrivati i playoff, i Bears disintegrarono prima i New York Giants poi i Los Angeles Rams , tenendo rispettivamente a sole 32 e 46 yard di corsa i due migliori running back avversari, Joe Morris ed Eric Dickerson, e al Super Bowl poi, nonostante un paio di incertezze iniziali e uno svantaggio di 3-0, schiacciarono New England, che alle fine del primo tempo aveva una statistica di MENO 19 yard, quindi non solo non aveva guadagnato terreno ma ne aveva perso, contro la soffocante difesa dei Bears. Un solo rammarico, che Ditka si porta ancora dietro: arrivato per l’ennesima volta a pochi centimetri dalla zona di meta, per prorogare il mito decise di dare la palla a Perry, che segnò, ma questo voleva dire far chiudere la partita di Payton senza un touchdown nell’occasione che Sweetness aveva sognato per anni. I GRABOWSKI Quei Bears durarono una sola stagione, anche per via della immediata partenza di Ryan verso Philadelphia e il ruolo di head coach , ma l’eredità di quell’improvvisato brano e quel curioso video restano. Anche in una curiosa parodia del 1987, voluta ancora da Meyer: dato che un giorno Ditka aveva detto, di Chicago e dei Bears, "al mondo ci sono gli Smith e ci sono i Grabowski. Noi siamo i Grabowski", intendendo gente senza fronzoli che lotta con i denti per tutto quello che vuole, ecco spuntare ‘The Grabowski Shuffle’, altro prodotto memorabile per gli appassionati di sport e cultura sportiva ma un po’ meno per gli amanti del buon gusto.

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Il Super Bowl Shuffle del 1985: quando i Bears cantarono prima di vincere

Roberto Gotta