Cosa rende Patrick Mahomes così simile a Tom Brady

La dinastia dei New England Patriots è durata 17 anni, dal primo Super Bowl vinto nel 2002 all’ultimo, il sesto, conquistato nel 2019. In mezzo, però, un temporaneo stop, potenzialmente pericoloso: quando, alla prima giornata della stagione 2008, Tom Brady, quarterback e primo artefice di quella strepitosa serie di successi, si infortunò gravemente. In modo bizzarro: mentre prendeva posizione per lanciare, gli franò sul ginocchio sinistro un difensore avversario, Bernard Pollard, che era stato gettato a terra da un giocatore dei Patriots ma era riuscito comunque ad arrivare a lui con un guizzo, colpendolo con la spalliera. Legamento crociato anteriore e mediale collaterale rotti e addio 2008, stagione nella quale i Patriots non arrivarono ai playoff per la prima volta dal 2002. Anche se, va detto, grazie al perfetto utilizzo del secondo qb Matt Cassel da parte del coach Bill Belichick, New England chiuse con un brillantissimo bilancio di 11 vittorie e cinque sconfitte, normalmente sufficiente non solo ad entrare nel tabellone ma pure in posizione privilegiata. Tornato Brady dalla prima partita della stagione 2009, i Pats ripresero la marcia, raggiungendo i playoff ogni anno e il Super Bowl altre cinque volte, con quei tre successi, negli anni solari 2015, 2017 e 2019. CAMBIO GENERAZIONALE In occasione dell’ultimo titolo, New England batté in semifinale, cioè nella finale della American Football Conference, i Kansas City Chiefs, a Kansas City: 37-31 dopo un tempo supplementare e una partita spettacolare, in cui vennero segnati 38 punti nell’ultimo quarto di gioco. Con un ulteriore elemento di dramma sportivo: a poco più di un minuto dalla fine Charvarius Ward, difensore padroni di casa, aveva intercettato un lancio di Brady e posto virtualmente fine alla partita, ma all’inizio dell’azione un suo compagno di squadra, Dee Ford, si era inavvertitamente sistemato oltre la linea della palla, circostanza che comporta la penalità, quindi la grande giocata di Ward venne annullata e due azioni dopo New England aveva pareggiato, mandando la partita al supplementare. Al termine, Mahomes, sconsolato, rimase a lungo negli spogliatoi, ma quando uscì si trovò davanti Brady ad aspettarlo. Tra i due ci sono 18 anni di differenza, quasi una generazione, eppure - o forse proprio per questo - il quarterback dei Pats sentiva il bisogno di parlargli: “Aveva appena vinto. Poteva andare a festeggiare il passaggio al Super Bowl, e invece era lì. Parlò poco, mi disse ‘continua a fare quello che hai fatto finora, stai facendo le cose giuste’. Quando sei giovane, vai in campo, giochi, cerchi di divertirti e fare di tutto per far vincere la tua squadra, ma quando arriva il più grande di tutti e ti dice certe cose vuol dire che stai davvero facendo le come come si deve. Fu un momento importante per me”. C’era del resto la percezione, nella NFL, che la partita appena conclusa avesse rappresentato una sorta di passaggio di testimone tra i due. Incompleto, per ovvi motivi legati al risultato di quella partita, e pure provvisorio, visto che due anni dopo la sfida si sarebbe ripetuta, addirittura al Super Bowl, e Brady ne sarebbe uscito ancora vincitore, anche se con la maglia di Tampa e non più quella di New England: settimo Super Bowl vinto dall’allora 44enne Brady, record assoluto, così come la decima presenza alla finale. Mahomes nel frattempo aveva vinto il trofeo, proprio dodici mesi prima, nella rimonta su San Francisco, e dunque il suo approdo alla seconda finale consecutiva era stato ancor più significativo nella costruzione di un racconto di eredità e continuità, racconto che si è arricchito di contenuto e spessore quando Mahomes ha vinto il Super Bowl nel 2023 e 2024. Tre titoli vinti a 28 anni, mentre Brady la quota l’aveva raggiunta nel 2005, a 27 anni, e la domanda era nata da sé: ma non è che il record di titoli vinti da Brady, apparentemente inavvicinabile, sarà invece a rischio se Mahomes continuerà così? WOUNDED KNEE Un confronto a distanza abbinato ad un parallelismo che è diventato ancora più logico domenica 14 dicembre, anche se per circostanze negative: nelle ultime fasi della sconfitta contro i Los Angeles Chargers, con i Chiefs in svantaggio di soli tre punti, Mahomes nel lanciare la palla in corsa, placcato dal difensore avversario Da’Shawn Hand, ha piantato per terra la gamba sinistra con un movimento innaturale e si è rotto il legamento crociato anteriore e il legamento collaterale laterale. Quasi lo stesso infortunio di Brady, stessa gamba, stessa età o quasi, 31 anni e un mese per l’ex qb di New England, 30 e tre mesi per Mahomes. Certo, quella volta accadde alla prima giornata, mentre stavolta eravamo alla quattordicesima partita sulle 17 di regular season e la sconfitta finale è stata già l’ottava, e ha tra l’altro tolto a Kansas City l’ultima speranza di arrivare ai playoff, prima assenza dal 2014. In più, la tempistica dell’infortunio ha ovviamente conseguenze diverse: Brady, per paradosso, aveva avuto più tempo di prepararsi all’annata 2009, mentre Mahomes, subito operato dall’ortopedico dei… Dallas Cowboys, a ricordare involontariamente il legame tra le due squadre di cui abbiamo parlato in occasione del Thanksgiving Day, faticherà a tornare in piena efficienza per agosto, periodo in cui è necessario concentrare gli sforzi di preparazione per la stagione. Una notevole differenza, sulla cronologia, che però non sminuisce la forza di questo racconto di vite parallele eppure parzialmente consecutive e per certi versi contrapposte agli occhi del mondo esterno, perché è ovvio che nel momento in cui si parla di un possibile superamento dei traguardi raggiunti da Brady può scattare una divisione del mondo tra tifoserie. Anche qui, però, c’è il paradosso di una specularità che unisce: perché per entrambi i quarterback la notorietà e i successi sono stati accompagnati da un’adorazione pari all’ostilità e all’antipatia da parte di chi non tifava per loro e vedeva nelle loro squadre la rappresentazione di un’entità maligna e accarezzata da favori arbitrali. SUCCESSI E SOSPETTI Succede per ogni dinastia o presunta tale, ovunque, anche nei paesi con una cultura sportiva apparentemente superiore. Sì, sono forti, ma hanno gli arbitri dalla loro parte, è il concetto. Lo si è detto per anni della Juventus, in Italia. Del Manchester United di Alex Ferguson in Inghilterra, quando pareva inevitabile che i minuti di recupero, a Old Trafford, sarebbero durati tanto quanto bastava ai Red Devils per segnare il gol del pareggio o della vittoria, minuti chiamati ‘Fergie Time’ e parzialmente confermati persino da uno studio, per non parlare del Real Madrid e del ‘asì, asì, asì gana el Madrid’ spesso cantato dai tifosi avversari. Erano apparentemente favoriti i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant - meno forte, però, la percezione - e tutte le squadre in cui ha giocato LeBron James, a eccezione della prima Cleveland. E ovviamente pure New England, per via di un episodio obiettivamente controverso avvenuto nei primi playoff di Brady da titolare, 19 gennaio 2002, partita contro gli Oakland Raiders, sotto la neve: New England è in svantaggio 13-10, Brady arretra per lanciare ma non trova ricevitori liberi e interrompe il gesto, rimettendo la palla al sicuro, ma viene colpito da un avversario e la perde. Gli arbitri, vedendola recuperata da un giocatore dei Raiders, decretano il ‘fumble’, cioé palla persa, e la partita sarebbe finita lì, con l’eliminazione dei Patriots e, forse, il ritorno da titolare nella stagione successiva di Drew Bledsoe, il titolare che Brady aveva rimpiazzato per infortunio. Ma il capo arbitro va a vedere il replay e capisce che siamo nel territorio chiamato ‘tuck rule’: la regola, introdotta solo nel 1999, che considera il gesto di proteggere la palla e infilarla al sicuro tra braccio e corpo, una volta che si rinuncia al lancio, come parte del lancio stesso, e dunque se viene fatta cadere si tratta di un lancio non preso, non di un fumble. Decisione quindi cambiata, New England pareggia poi vince al supplementare e due settimane dopo inaugura la sua serie di Super Bowl vinti battendo, a sorpresa, i St.Louis Rams. Tutto ineccepibile dal punto di vista regolamentare ma visto con sospetto da molti, a partire dai Raiders, squadra da sempre ribelle e non solo a parole, considerando che alcuni anni prima il loro proprietario Al Davis aveva testimoniato contro la NFL nella celebre causa intentata dalla lega rivale, la USFL, vicenda di cui avete letto qualche mese fa. Da quel momento, ogni decisione apparentemente a favore di New England ha suscitato perplessità, proteste e disillusioni, anche perché nel 2007, quando i Pats avevano già tre titoli, venne fuori che un membro dello staff aveva registrato le segnalazioni manuali degli schemi fatte dai coach avversari da postazioni illegali: la NFL multò di mezzo milione di dollari il coach Bill Belichick e tolse ai Pats la prima scelta 2008, ma la decisione della lega di distruggere i nastri fu vista da molti, legittimamente, come il tentativo di soffocare le prove e il potenziale scandalo. Nel 2015, poi, venne fuori che, su ordine di Brady, i Pats avrebbero volutamente sgonfiato alcuni palloni, nella finale di conference contro gli Indianapolis Colts. Diatriba andata avanti per mesi, con tanto di indagine e resoconto di 243 pagine con test scientifici e misurazioni di pressione e scambi di accuse, omertà e insinuazioni, certo non facilitate dal fatto che Brady avesse distrutto il cellulare contenente presunti messaggi inviati a membri dello staff incaricati di sgonfiare i palloni, circostanza che in giornata di maltempo lo avrebbe aiutato nella presa. Palloni, giusto ribadirlo, usati solo dai Patriots, mentre i Colts come è comune ne avrebbero utilizzati altri. Il bello è che il fatto fu scoperto all’intervallo, con New England in vantaggio 17-7: nel secondo tempo, con palloni gonfi secondo i parametri NFL, New England segnò 28 punti a zero, smentendo già così che ci potesse essere stato un vantaggio vero. Brady venne comunque squalificato per quattro partite, ma solo nel 2016, tra sentenze e appelli. E ci fu anche chi disse che la NFL aveva perseguito un verdetto punitivo anche per il clima generale di sospetto verso i Patriots. Per Kansas City la trafila è stata simile: una volta intrapresa la strada dei successi, qualsiasi episodio discutibile è stato interpretato come favoritismo arbitrale, soprattutto nei contatti su Mahomes, che come tutti i quarterback, stelle di cui la NFL non può fare a meno, gode di una protezione speciale con regole sempre più severe, ma secondo molti nel suo caso si è andati oltre, a volte, tra accuse di… simulazione ed eccesso di proteste, unita a un’apparente morbidezza arbitrale verso giocatori, uno tra tutti l’uomo di linea Jawaan Taylor. Nel Super Bowl del febbraio 2023, il sorpasso dei Chiefs avvenne per una penalità difensiva di Philadelphia formalmente ineccepibile ma considerata fuori luogo per quel momento specifico, mentre lo scorso anno, nell’ennesimo scontro con i Buffalo Bills per l’accesso al Super Bowl, gli arbitri decretarono dopo un replay che il quarterback dei Bills Josh Allen non avesse superato con la palla la linea di chiusura del ‘down’ e quindi di mantenimento del possesso, anche se le immagini televisive mostravano il contrario. Le polemiche portarono persino il commissioner della NFL Roger Goodell a dover affrontare il tema nei giorni che precedettero il Super Bowl, peraltro perso in modo netto dai Chiefs. E nemmeno due mesi fa uno studio della University of Texas-El Paso su oltre 13.000 chiamate arbitrali tra il 2015 e il 2023 ha decretato che alle difese impegnate contro i Chiefs erano state inflitte più penalità di violenza sul quarterback e sui suoi ricevitori, rispetto alle partite contro altre avversarie. Nero su bianco, anche se l’arco temporale è bizzarro: Mahomes infatti è titolare fisso dal settembre 2018, e prima di lui il brillante Alex Smith aveva portato i Chiefs ai playoff quattro volte in cinque anni, tra il 2013 e il 2017, con l’eccezione appunto del 2014. Era una squadra molto diversa, non paragonabile a quella che è stata poi affidata a Mahomes, per cui lo studio universitario difetta di contesto e non considera il fatto che tra il 2016 e il 2021, l’attacco di Kansas City ha avuto un giocatore come Tyreek Hill, personaggio discutibile per i comportamenti nella vita privata ma velocista di valore mondiale in campo, difficilissimo da marcare. AMERICA’S TEAMS. O FORSE NO Un percorso parallelo, allora, di ripetuti successi accompagnati da avversione, sospetti e forti invidie, un po’ come accadde alcuni decenni fa con i Dallas Cowboys. Che erano, anzi si erano soprannominati America’s Team, la squadra preferita dagli americani, ma in realtà erano amati quasi solo in Texas e avversati nel resto del paese, anche per l’atteggiamento dell’allenatore Tom Landry, personaggio in realtà così integerrimo e pulito nell’abbigliamento e nei modi da sembrare fastidioso, e del quarterback Roger Staubach, che era entrato nella NFL dopo aver servito nella Marina, anche in Vietnam, dove peraltro, essendo daltonico, era stato destinato a incarichi non critici. Staubach, assieme a un altro simbolo degli anni Settanta, l’ex difensore dei Minnesota Vikings Alan Page divenuto poi il primo afroamericano a far parte della Corte Suprema del Minnesota, nel 2018 ha ricevuto la Presidential Medal of Freedom dal presidente Donald Trump, a testimonianza della sua influenza nella storia, non solo sportiva, americana. Ma questa notorietà dei Cowboys, la loro onnipresenza televisiva, la visibilità dei loro tifosi anche in trasferta e persino l’uscita della serie televisiva Dallas, nell’aprile 1978, al termine di una decade contrassegnata da cinque presenze al Super Bowl, con due vittorie, contribuirono a generare in molti l’effetto opposto, per cui chi non tifava per loro li voleva vedere sconfitti, senza una via di mezzo, senza una zona grigia. Come appunto accaduto ai Patriots e ai Chiefs, anche se con qualche differenza. Nel caso di New England infatti ad accentuare una certa ostilità del mondo esterno ha contribuito anche la figura di Belichick, figura di profonda conoscenza tecnica e tattica, un genio che si era già segnalato come allenatore della difesa dei New York Giants campioni NFL 1991 ma che non ha mai emanato empatia e calore, men che meno dopo la vicenda delle registrazioni, mentre Andy Reid, dal 2013 a Kansas City, al massimo si è portato appresso l’etichetta di… perdente, per via del Super Bowl e di tre finali di conference consecutive perse tra il 2001 e 2004 quando allenava i Philadelphia Eagles: inutile dire che le sette finali di conference e i tre Super Bowl vinti con i Chiefs hanno reso quella reputazione ancor più ridicola di quanto non fosse prima. Diverso, bisogna dirlo, anche lo scenario mediatico locale: i media di Boston sono potenti, influenti e a volte sospettati di faziosità, mentre quelli di Kansas City hanno un’influenza più limitata, dovuta ovviamente anche al fatto che in città c’è una sola altra squadra di alto livello, i Royals della MLB, al contrario di quanto avviene a Boston dove la sola presenza di Bruins, Celtics e Red Sox conferisce ai media una gravitas del tutto diversa. IL FUTURO DI PAT Ora, naturalmente, al di là delle similitudini e dei paralleli, si apre un capitolo nuovo della storia di Mahomes, quello della ripresa e del recupero. A suo tempo, Brady tornò in piena efficienza anche grazie alla cura dettagliatissima del proprio fisico, demandata in parte alle pratiche olistiche di Alex Guerrero, una sorta di guaritore, teorico di una dieta a base di verdure ma con l’esclusione di melanzane, peperoni, pomodori, funghi e pressoché tutti i tipi di frutta, oltre a riso, caffè, bevande gassate e derivati del latte: per quanto controverso e non sempre scientificamente coerente, un regime che ha poi permesso a Brady di giocare fino all’età di 45 anni e sei mesi. Nel frattempo, tra l’altro, la NFL aveva approvato quella che colloquialmente si chiama ‘Tom Brady rule’, ovvero una modifica regolamentare che dal 2009 punisce chi colpisce un quarterback al di sopra e al di sotto della zona compresa tra il collo e la parte bassa della coscia. Mahomes seguirà un percorso più tradizionale per farsi trovare pronto per il training camp, il ritiro precampionato che di solito inizia negli ultimi giorni di luglio, ma le probabilità di avvicinarsi ai traguardi ottenuti dal suo ex collega dipendono in parte anche dalle scelte di Kansas City, che nell’ultimo biennio non gli ha messo a disposizione una qualità adeguata, nei ricevitori e nella linea di attacco, costringendolo spesso a eroismi e improvvisazioni come quella dell’azione in cui si è infortunato: quando si definisce il football come sport di squadra in senso stretto si sottintende il legame strettissimo tra reparti e ruoli, perché se i tuoi ricevitori non riescono a smarcarsi non puoi lanciare loro la palla, e più indugi più è facile che la tua linea non riesca a proteggerti dalla pressione dei difensori. Nella partita contro i Chargers, Mahomes è stato pressato, ha quindi dovuto lanciare in condizioni difficili, nel 48,6% delle azioni. La sua struttura è diversa da quella di Brady, a cominciare dalla statura minore , da un fisico più compatto e più mobile che gli ha permesso nel corso degli anni proprio quella lunga serie di creazioni in movimento, di lanci effettuati in corsa e anche da angolazioni precarie, situazioni in cui il suo DNA di figlio di un ex lanciatore di baseball, e lanciatore egli stesso, gli ha permesso esecuzioni quasi perfette, ma ora dovrà esserci maggiore attenzione a circostanze del genere. È un bel dilemma per Reid, in un periodo di cambiamenti a livello generale. Da parecchio tempo infatti il club è in trattativa con le autorità locali per una ristrutturazione dello stadio, l’Arrowhead Stadium, che ha 53 anni ed è uno dei più antichi della NFL, anche se è stato rimesso a posto nel 2010. Lo scorso anno i residenti della contea bocciarono in un referendum la proposta di prolungamento temporale dell’IVA aggiuntiva sugli acquisti al dettaglio, con la differenza versata a favore di un nuovo stadio per i Royals e una corposa rimessa a posto dell’Arrowhead, e subito dopo l’assemblea dello stato del Kansas autorizzò l’emissione di obbligazioni a coprire fino al 70% dei costi per la costruzione di due impianti e portare così i Chiefs al di qua del confine. Sì, perché la Kansas City sede delle due squadre è quella nello stato del Missouri, non quella nel Kansas che è dal lato occidentale del confine, e il paradosso è questo tiro alla fune tra due entità governative adiacenti, spesso confuse tra loro. Oltretutto, la proposta del Kansas comprende la costruzione di uno stadio coperto e dunque candiderebbe città e stato a ospitare un Super Bowl: accade ormai da tempo che chi edifica un nuovo impianto con i criteri giusti ottiene l’organizzazione della partita più importante di tutte, quasi in ossequio - visto che abbiamo menzionato i Royals e il baseball - al ‘If you build it they will come’ che nel romanzo e nel film ‘L’uomo dei sogni’ l’ex giocatore Joe Jackson dice al personaggio interpretato da Kevin Costner. Che vengano o meno, quel che conta, ora, nelle due Kansas City, è che Mahomes si rimetta a posto e riprenda la corsa. Verso Brady ma prima di tutto verso la propria miglior condizione, ora che ha varcato la soglia dei 30 anni.

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Roberto Gotta