Non esiste la scuola italiana, esistono gli italiani che fanno scuola

Era il 26 giugno 1988. Gianni Clerici, che lavorava anche con la voce, quel giorno la perse. Laringite. Il giornalista non potè quindi celebrare in telecronaca con Rino Tommasi un giorno che, nel deserto dei tartari di quegli scarni anni Ottanta , divenne una giornata storica per il tennis azzurro. Un italiano, Davide Sanguinetti, ai quarti di finale a Wimbledon. Il fatto è che il tennis in Italia è sempre stato amato e seguito sì, ma da lontano, sport da pagina letteraria più che da mettere in pratica, non sembrava più roba per noi dai tempi di Adriano Panatta. Sulla terra rossa si lottava ancora per perdere, sull’erba non ci si provava nemmeno. Sono passati 26 anni e il mondo si è capovolto. I quarti di finale più che un traguardo sono visti come un fastidio, una delusione. La periferia dell’impero è diventata capitale. Una capitale popolatissima, diversa, in cui convivono cadenze del nord est e del centro sud, enfant prodige e late bloomer, singolaristi e giocatori di squadra, fuoriclasse e gregari, servizi a 235 chilometri orari e rovesci a una mano all’antica. Con un dream team del genere, in ogni settimana del 2024, una bandierina tricolore è sempre arrivata almeno in finale. C’è un capitano che si chiama Jannik Sinner, ma l’ottima notizia è che c’è vita e ci sono vittorie anche senza di lui. Con la rinuncia del numero uno al mondo a Parigi 2024, ecco sbarcare in Francia Lorenzo Musetti, più responsabilizzato che mai, che bacia il tricolore cucito sulla sua divisa e dice: “Con questa maglia mi passano tutte le stanchezze arretrate”. Nel tabellone femminile Jasmine Paolini, più che demoralizzarsi per la sconfitta a sorpresa nel singolare, ha preferito concentrarsi sul doppio femminile. L’Italia chiamò. C’è una immagine bellissima della semifinale contro le ceche Muchova e Noskova. La racchetta di Sara Errani lanciata in aria e poi abbandonata sul campo mentre lei piange, piange e non riesce a smettere, corre ad abbracciare suo fratello Lorenzo, la capitana Tathiana Garbin, e intanto continua a piangere, sporca di terra rossa. È stata lei a servire per la finale. Sul match point ha deciso di battere dal basso, non per scorrettezza ma per emozione, perché non voleva che il suo colpo meno sicuro la tradisse. Il doppio femminile azzurro porta per la prima volta nella storia delle Olimpiadi moderne l’Italia in finale in un torneo di tennis. Era il 2018 e Marco Cecchinato, in semifinale al Roland Garros dopo aver battuto Novak Djokovic disse una frase: “Abbiamo capito che nel tennis c’è spazio anche per noi. Prima non avevamo nemmeno il coraggio di pensarlo. Senza saperlo ci stiamo tutti aiutando a vicenda”. L’impresa del siciliano fu epica e solitaria, ma lasciò un segno, a futura memoria. Yes, we can. È diventato un pensiero ricorrente. La fiducia è contagiosa. Vedi i tuoi compagni di allenamento vincere, viene voglia di vincere anche a te. Non è invidia, è essere squadra. Dopo la semifinale in uno Slam, nel 2019 una finale in un Masters 1000, vinta, a Monte-Carlo. Fabio Fognini è stato il primo campione made in Italy di una nuova epoca. Un’epoca in cui gli azzurri hanno smesso di guardare gli altri trionfare, e basta. Nei mesi del successo monegasco, i più lungimiranti stavano intanto iniziando a guardare il futuro all’orizzonte: un altoatesino che aveva abbandonato gli sci per la racchetta e un toscano che a sedici anni e 10 mesi in Australia aveva stupito il mondo e rincuorato i nostalgici. Jannik Sinner e Lorenzo Musetti, fratelli d’Italia, di un’Italia che si stava ridestando. Nel ranking maschile oggi sono 6 gli italiani in top 50: oltre al numero uno del mondo Sinner, un Matteo Berrettini ritrovato, scivolato a inizio anno fuori dai primi 100 al mondo, terra di nessuno per chi come lui era stato finalista a Wimbledon, e ritornato sorridente, guarito, leggero, consapevole, vincente. È un’Italia di lotta di governo, di potenza e di magie, di lavoro, lavoro e ancora lavoro. Nella superficie di gioco più inaspettata, l’erba di Wimbledon, se n’è avuta la conferma definitiva. Sono loro la meglio gioventù. Ragazzi e ragazze diventati uomini e donne in fretta per inseguire un investimento a fondo perduto. Senza niente in comune se non la fame, la libertà, il coraggio di scegliere cosa volevano diventare. Senza niente in comune se non una famiglia che ha creduto nei loro sogni senza mai condizionarli. È questo che accomuna Jannik Sinner e Jasmine Paolini, entrambi fuori di casa a 15 anni per percorrere una strada che non aveva precedenti e non aveva garanzie. Lo scorso maggio Lorenzo Musetti, che si era ritirato dagli Internazionali d’Italia al primo turno dopo aver perso il primo set, ha deciso di iscriversi al challenger di Torino. I challenger sono i gradini più in basso del professionismo: “Sono finito nella giungla”, aveva detto il ventiduenne a proposito del suo viaggio di andata verso il tennis con la t minuscola che in quel moment non aveva nessuna garanzia di ritorno. Lorenzo invece è tornato, dai campi periferici di un circolo di Torino al Centrale di Wimbledon, la cattedrale. Dal Piemonte Open in poi, negli ultimi 50 giorni l’ex bambino prodigio dei gesti bianchi ha vinto 20 partite e ne ha perse soltanto 5, l’ultima contro Novak Djokovic in semifinale ai Giochi Olimpici. Musetti si è consolato con una storica medaglia di bronzo, battendo nella finalina il canadese Auger Aliassime. La squadra italiana è una squadra di cui fanno parte i campioni del mondo in coppa Davis tra gli uomini e le finaliste nell’equivalente Fed Cup tra le donne. Non c’è un uomo solo al comando, ma un movimento. Non esiste la scuola italiana, esistono gli italiani che fanno scuola. Ognuno a proprio modo.

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