Il 68 di Martina Navratilova: oggi nell'età, per sempre nella testa e nel cuore

Ho incontrato Martina Navratilova per la prima volta a New York nel 1981. E ancora oggi non dimentico la sensazione provata. Ero lì per il torneo juniores, lei non era l’unica grande tennista presente ma di sicuro aveva qualcosa in più rispetto alle altre. Che impressione ho avuto? Mi sono sentita come al luna park! A dire la verità il mio mito è sempre stata Evonne Goolagong, nonostante il mio stile di gioco fosse differente rispetto a quello della campionessa australiana, ma veder giocare la Navratilova dal vivo fece vacillare le mie certezze. Gli idoli restano tali, ma nel corso del tempo se ne possono aggiungere di nuovi. Il talento sconfinato di Martina e la sua innata competitività le hanno permesso di diventare tra le giocatrici più forti della storia. Una delle maggiori esponenti di una scuola, quella ceca, che insegna a giocare e assemblare tutti i colpi. Tradizione che ha prodotto e continua a sfornare tenniste e tennisti di altissimo livello. Martina aveva una facilità di esecuzione straordinaria che le ha permesso, anno dopo anno, di ampliare in maniera incredibile il ventaglio delle variazioni. Ricordo che mi colpì immediatamente per la sua simpatia: chiaramente non sapeva chi fossi, ero una ragazzina, ma fu molto cordiale fin da subito. Come solo i grandi sanno essere. La prima volta che abbiamo giocato contro è stato nel 1985 al Roland Garros, negli ottavi di finale dello Slam parigino. Persi in due set , trovando parecchie difficoltà nel leggere le sue giocate, nonostante la terra battuta non fosse la superficie prediletta di Martina. Le traiettorie dei suoi servizi mancini e gli attacchi in controtempo avevano la capacità di destabilizzare le sue avversarie, me compresa. E interpretare quel suo modo di esprimere il tennis non era per nulla semplice. Tanto è vero che contro di lei ho giocato sette volte e sette volte ho perso. Solamente nel 1988, la stagione del mio best ranking , sono riuscita nell’impresa di portarle via un set, il primo, in un match perso nei quarti di finale di Hilton Head, sulla terra verde. Risultato finale: 4-6, 6-2, 6-3. Nel farle gli auguri per il suo compleanno, con il numero 68 che automaticamente rimanda a concetti di lotta e di rivoluzione, mi vengono in mente le grandi battaglie che Martina ha portato avanti con tutta sé stessa, non solo in campo. Seguendo la scia di un’altra signora del tennis come Billie Jean King, una capostipite in questo senso, ha dato il suo contributo significativo alla creazione della WTA, l’associazione che riunisce le tenniste professioniste di tutto il mondo. È sempre stata molto attiva, inoltre, nel perseguire l’ambizioso obiettivo di garantire al tennis rosa lo stesso appeal di quello maschile. Anche e soprattutto in tema di immagine e montepremi. Molte le innovazioni introdotte da Martina, prese da esempio dalle altre giocatrici, in termini di gestione e organizzazione della professione. È stata la prima, per dire, a contornarsi di una squadra vera e propria: uno sparring partner, un preparatore atletico e persino un nutrizionista. Mettendo l’accento sia sulla preparazione fisica sia sulle questioni legate all’alimentazione. Aspetti che a suo tempo non erano tenuti da conto come accaduto in anni successivi. Le sue battaglie sono andate molto oltre il tennis inteso in senso stretto. In un mondo pieno di pregiudizi la Navratilova ha avuto il coraggio di parlare di sé, diventando un vero e proprio simbolo della lotta per la libertà sessuale - lei che non ha mai nascosto il suo orientamento - e in senso più ampio per i diritti civili. Una donna di classe e di lotta, che ha vissuto un’infanzia per nulla semplice. Dal suicidio del padre scoperto molti anni dopo allo scontro con una Federazione, quella cecoslovacca, che la obbligava a trasferte limitate nel tempo e teneva per sé parte dei guadagni di Martina. Poi la richiesta della green card, il conseguente trasferimento a Dallas e la cittadinanza americana ottenuta all’inizio degli anni Ottanta. Tra le esperienze personali che mi legano a lei, ce n’è una che mi emoziona particolarmente: il suo rientro in patria, per la prima volta dopo tanti anni, in occasione di un incontro di Federation Cup 1986 tra noi, l’Italia, e gli Stati Uniti che lei rappresentava. Una vera e propria bolgia il campo centrale. La gente era con lei, c’era chi seguiva la partita affacciato dal terrazzo di casa. Al suo ingresso le tributarono un’ovazione senza precedenti. La partita fu molto lottata, soprattutto il secondo parziale, ma anche in quell’occasione persi in due set . Alla fine a rete mi abbracciò, nel momento della stretta di mano, e io le confermai la felicità di essere stata testimone di un momento storico che lei, come me ma in maniera diversa, non avrebbe dimenticato per il resto della vita. È sempre stata una donna di grandissima generosità. Basti pensare a quando mi diede un passaggio in aereo, a bordo del charter privato partito da Cap d’Agde nel sud della Francia verso Stoccarda in vista del successivo torneo. Mi presentai alla partenza con la mia umile sacca da tennis mentre lei e il suo staff provavano a imbarcare una ventina di valigie griffate. Ma erano troppe, e l’aereo fece un doppio giro tra Francia e Germania. In quel periodo a Stoccarda capitò di allenarci insieme: lo ricorderò tutta la vita. Dopo i primi dieci minuti avevo già sudato sette camicie. In campo era una grandissima, in partita come in allenamento, mi ha sempre dato parecchi consigli anche dal punto di vista tecnico. Nulla a che vedere, anche da questo punto di vista, con Chris Evert, protagonista insieme a lei di una rivalità da ottanta confronti diretti che ha scritto la storia del tennis. Martina era di un’altra categoria rispetto alle altre anche dal punto di vista fisico. C’è un’immagine che mi è rimasta scolpita nella mente. Io e lei nello spogliatoio poco prima della finale di Eastbourne del 1989. Partita finita in due set per la cronaca, che ormai è anche storia. Ancora ricordo di essere rimasta sconvolta dalla sua muscolatura: addominali e dorsali incredibili, che sul fisico di una donna non avevo mai visto. È stata una numero uno nel tennis ma avrebbe potuto brillare anche in altre discipline sportive: per predisposizione genetica ma pure grazie all’attenzione nel tempo sempre più maniacale verso l’allenamento e l’alimentazione. Elementi che le hanno consentito di avere una longevità sportiva pazzesca. Stagione dopo stagione il nostro rapporto si è rafforzato fino a diventare ottimo. Vogliamo parlare di quando venne a casa mia, a Faenza? Mica facile per me fare da interprete, traducendo dall’inglese, tra lei e i miei genitori. Anche perché, convenevoli a parte, Martina era molto curiosa e voleva sapere tutto di quella palazzina del 1600 in cui all’epoca vivevamo. In quei giorni giocammo un’esibizione da quelle parti, a Forlì, insieme a Chris Evert e Arantxa Sanchez. Da quel momento in poi, dopo aver frequentato casa mia, Martina non si è mai dimenticata di mandare un augurio per Natale. Inviando sempre due lettere: una indirizzata ai miei genitori e una a me, entrambe corredate dalla foto della sua famiglia e dei suoi animali, sempre di più anno dopo anno. Ogni tanto capita ancora di sentirci, ci mandiamo qualche messaggio. È rimasta la donna coraggiosa di sempre. Capace di prendere posizioni nette: in favore di Sinner, per esempio, nella vicenda del doping. Adesso che ha adottato due bambini la sua vita è sempre più un tornado. Le cose vanno molto meglio da quando ha superato la malattia. Elemento, quest’ultimo, che l’ha avvicinata sempre di più alla Evert, anche lei reduce da un periodo di salute altrettanto complicato. Dopo aver monopolizzato il tennis da giocatrici, anche in ragione delle loro differenze stilistiche, Martina e Chris sono ancora sulla scena. E mostrano un rispetto sempre maggiore l’una per l’altra. Mi piace il ruolo da ambasciatrici globali in un mondo, quello del tennis, dove personalità come le loro, stagione dopo stagione, mancano sempre un po’ di più.