Next Gen Atp Finals: alla scoperta dei nuovi Sinner

Fils, Michelsen, Mensik, Shang, Tien, Van Assche, Basavereddy, Fonseca: segnatevi con attenzione questi otto cognomi, perché la sensazione è che, nei prossimi anni, saranno protagonisti, tutti - qualcuno più di altri - a livello ATP. Per il momento, però, a questi otto, relativamente conosciuti, ragazzi terribili, è riservato il palcoscenico esclusivo delle Next Gen ATP Finals, in una scintillante Jeddah, città nella quale la parola d’ordine è modernizzazione. Architettonica, a primo impatto, ma anche e soprattutto culturale, nel tentativo di spingere sempre più l’Arabia Saudita nello sport che conta. D’altronde, che le Next Gen ATP Finals siano il preludio al debutto nel tennis che conta, non ci sono dubbi. Classe del 2017: il finalista Andrey Rublev è stabilmente in top 10 dal 2020. Classe del 2018: Stefanos Tsitsipas, ex numero 3 al mondo e poi vincitore alle ATP Finals, si impone su Alex de Minaur, attualmente fresco di prima partecipazione al Master di fine anno. Classe del 2019 e classe del 2021: a trionfare sono Jannik Sinner e Carlos Alcaraz – e ogni altra parola è superflua. E ancora: tra i partecipanti ritroviamo un campione Slam come Daniil Medvedev, un tre volte finalista Slam come Casper Ruud, l’ex numero 4 al mondo Holger Rune e l’attuale numero 4 al mondo, Taylor Fritz, ma anche il campione di Parigi-Bercy nel 2018 Karen Khachanov e quello di Cincinnati nel 2022, Borna Coric. E poi tanti top 10 o top 20 attuali o ex, come il nostro Lorenzo Musetti, Hubert Hurkacz, Ugo Humbert, Denis Shapovalov, Frances Tiafoe, Sebastian Korda e Jack Draper. Sbirciando i ‘curricula’ già imbottiti di esperienze di molti ‘Next’, il nome che più stuzzica la fantasia trova d’accordo anche il ranking: per esplosività, fisicità, dritto devastante e, perché no, anche un po’ di sana boria di gioventù, Arthur Fils strizza sempre più l’occhio a Jo Wilfried Tsonga, uno che in carriera vanta una finale Slam, agli Australian Open nel 2008, e un best ranking da numero 5 al mondo a febbraio 2012. Quasi tredici anni dopo, Fils, classe 2004, si presenta alle Next Gen da numero 20 ATP e con il bottino di due titoli in stagione, ad Amburgo e a Tokyo, sconfiggendo rispettivamente Zverev e Humbert - e se non avete visto soprattutto la finale di Amburgo, recuperatela, perché è indubbiamente una tra le migliori partite di stagione. Logico quindi pensare che, più che guardare al titolo, Fils è a Jeddah per misurare la propria crescita, con un termometro più severo di quanto non ci si aspetta. Vincere il torneo e vendicare la sconfitta subita nel 2023 contro Medjedovic è un dovere. Uscire prematuramente significherebbe dover prendere coscienza di un paradosso squisitamente firmato tennis: anche a 20 anni si può essere vecchi. Vecchio sicuramente non è Joao Fonseca, brasiliano addirittura classe 2006, il più giovane tra gli otto in gara, ma che ha già dato prova di quanta qualità possiede ‘in potenza”’con i quarti di finale a Rio de Janeiro - importanti soprattutto per la gestione impeccabile del fattore casa - e le belle prestazioni in Coppa Davis a Bologna. Fonseca ha più volte dichiarato di ispirarsi a Sinner, di cui ammira la potenza generata sia con il dritto che con il rovescio. A dire il vero, a vederli muoversi in campo, il paragone al momento sembra un po’ forzato. Fonseca ha più muscolatura di quanta non ne avesse Sinner a 18 anni, perdendone però in elasticità. L’impressione è che, se seguito e costruito con attenzione tattica, Fonseca abbia il talento per distinguersi dai coetanei e che, volendo azzardare un paragone soltanto per solidità da fondocampo, possa evolversi in quello che ci si aspettava diventasse Rune. Per atteggiamento, invece, nessun dubbio: lì il paragone tra Fonseca e Sinner è più che mai calzante. Mai un gesto di stizza, occhi freddi, ma educati, mentalità di chi pensa soltanto a imparare. E se questo imprinting è anche sponsorizzato da Federer, che ha scelto il brasiliano come testimonial di ‘On’ dal giorno zero, impossibile avere dubbi. Impossibile avere dubbi anche su Jakub Mensik, classe 2005, votato ‘newcomer of the year’ ai danni di Juncheng Shang , erede di quella tradizione di pulizia tecnica e tattica tenuta sapientemente segreta dalla Repubblica Ceca fin dai tempi di Lendl e Navratilova e messa a frutto, in tempi recenti, da Kvitova e Berdych, per dirne due. Restringendo il raggio di analisi soltanto al circuito ATP, è evidente quanto Mensik e Berdych siano assimilabili soltanto per base formativa. Lui, Jakub, ha dichiarato di ispirarsi a Novak Djokovic e per l’elasticità messa in mostra soprattutto sul cemento, la suggestione viene effettivamente alimentata. Tra l’altro, nell’unica sfida tra allievo e maestro, a vincere è stato Nole, sì, ma in tre set incredibilmente combattuti, a dimostrazione di come il ceco stia imparando molto, ma molto in fretta. Se esiste una perplessità, è legata soltanto alla fragilità fisica, con Mensik che è stato costretto al ritiro a partita in corso ben tre volte in stagione: a Dubai, a Madrid e nelle qualificazioni di Parigi-Bercy. Gestire il carico di lavoro sarà la sfida per Jakub nel 2025: sfida che, a proposito di paragoni, fu più o meno 20 anni fa, la stessa che definì la prima fase di carriera di Djokovic. Se Mensik dovesse riuscire ad avere anche soltanto la metà del successo del serbo, si può dire che sarà un successo. Da Mensik a Shang, rivali nel premio di ‘newcomer of the year’, accomunati dal tema di una gestione fisica da sistemare e da nulla più. Massiccio e destrorso il ceco, mancino e relativamente minuto il cinese, classe 2005 anche lui, ma a differenza di Mensik, unico insieme a Fils a essere già campione a livello ATP, grazie al titolo vinto a settembre a Chengdu contro Musetti. Il tennis non vive di ‘what if’, ma in questo caso un’eccezione è doverosa perché la crescita di Shang, anche lui debuttante nel circuito maggiore a Rio de Janeiro, come Fonseca, nel 2022, e subito vincente, è stata rallentata da una brutta mononucleosi - citofonare a Robin Soderling per capire quanto devastanti possano essere gli strascichi di questa malattia per un tennista. Agilità ed esplosività, con una ‘mano’ non comune che mette sempre in confusione chi non è abituato a giocare ‘alla rovescia’: non è casuale che, già a 17 anni, Shang avesse addirittura ricevuto l’endorsement di Marcelo Rios, il quale provò ad allenarlo, prima che tra questioni familiari, di management e di peccati di gioventù da attribuire a Jerry, finisse tutto male, anzi malissimo. Il mancinismo si candida a essere tratto distintivo di Shang in un panorama di Next Gen dove soltanto Draper e Shelton hanno messo a frutto i vantaggi di impugnare la racchetta con la sinistra. Da loro Jerry dovrà prendere lezioni di servizio soprattutto, con margini di miglioramento che si prospettano enormi. Margini di miglioramento non ancora messi a frutto da Luca Van Assche, di nuovo alle Next Gen, ma questa volta da comprimario che ha agguantato la qualificazione all’ultimo respiro, dopo essere retrocesso, di nuovo, nella gavetta dei Challenger, rimandato all’esame, severo, che è la seconda stagione nel circuito ATP. Più che per problemi fisici, legati soprattutto alla pubalgia, il muro da scardinare per il francese è legato alla propria evoluzione tattica. Van Assche è un ‘fighter’ come si dice in gergo, ma, sempre per rimanere nel gergo, manca di ‘punch’, ossia di quel fondamentale definitivo che gli permette di ottenere punti veloci, che sia un servizio a 220 km/h o un dritto risolutivo da fondocampo. Colpa soprattutto di un fisico un po’ simile a quello di Shang, con un’altezza inferiore alla media e muscoli in forma ridotta, ma, contrariamente al cinese, il francese non ha ancora messo nel bagaglio tecnico un po’ di varietà e, perché no, anche di intelligenza tattica per tirarsi fuori da situazioni in cui parte sfavorito. Con le dovute differenze di epoca, il modello che Van Assche potrebbe seguire è in casa: con mezzi tecnici inferiori alla media e senza disporre di un tennis di potenza, Gilles Simon raggiunse un best ranking di numero 6 al mondo e portò i big 3 a impazzire nel tentativo di disinnescare i trabocchetti di colui che venne poi definito ‘il professore’. Le Next Gen ATP Finals possono essere il palcoscenico su cui provare queste novità. Infine, come da tradizione nel tennis, non esiste palcoscenico ATP senza una quota USA. A Jeddah ci saranno ben tre statunitensi: Alex Michelsen, Learner Tien e Nishesh Basavereddy. Tra i tre, il nome più conosciuto è il primo: testa di serie numero 2 del torneo, Michelsen è attualmente numero 42 ATP, vanta tre finali nel circuito maggiore, due sull’erba di Newport, una a Winston Salem, sconfitto da Lorenzo Sonego, e, anche senza esprimere un tennis brillante e di strappi, sta costruendo il proprio percorso a fari spenti, ricalcando le orme di quella generazione americana subito precedente: servizio, dritto e via, possibilmente evitando la diagonale di rovescio. Scelta che paga sull’erba e sul cemento veloce, un po’ meno sulla terra rossa – inevitabile, anche considerata la scarsa tradizione statunitense su questa superficie. Se il campo a Jeddah dovesse essere particolarmente veloce, Michelsen è candidato a mettere in mostra il meglio del tennis ‘born in the USA’, sapendo che, per arrivare ai vertici, dovrà prendere a esempio la scuola tecnica e tattica di Isner e Querrey. Su Tien e Basavereddy, invece, regna la curiosità: entrambi hanno costruito la propria qualificazione a livello Challenger e, addirittura, Basavereddy non ha mai giocato una partita a livello ATP. Inevitabile il paragone: a fine 2021 un tale Benjamin Shelton, detto Ben, arrivò a un passo dalla top 100 sbaragliando la concorrenza negli Stati Uniti. Al primo viaggio ‘all’estero’, arrivò nei quarti di finale agli Australian Open. Per dire. Per il momento, però, il viaggio parte da Jeddah e dalle avveniristiche regole a cui, però, ci stiamo abituando. Tetto di età per partecipare, non più 21, ma 20 anni, per diventare sempre più ‘Next’. Cinque set, ma brevi: vince il primo che arriva a quattro game. Vantaggi no, killer point sì, come nel doppio. Spettatori che si muovono liberamente tra un punto e un altro – sembrava eresia, ma agli US Open quest’anno è andata proprio così. E se la pallina rimbalza sulla rete al servizio? Niente scuse, il punto si gioca lo stesso. E guai a dire che tanto queste novità non vedranno la luce lontano da Jeddah: lo shot clock insegna. Aspettando il 2025, non esiste chiusura migliore per un 2024 ‘Next’. O forse, stiamo già gustando l’entrée di una nuova stagione sempre più vicina.

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