Father & Sinner: la scelta di Cahill, più di un coach

Sapere che Cahill lasci Sinner a fine stagione oltre a fare notizia, fa effetto. Sì, perché il coach australiano – che data l’esperienza è meglio definire super coach – a Jannik è solito non mollarlo un solo secondo. Mai in modalità asfissiante, piuttosto in senso premuroso e semi paterno. Uno dei segreti del successo di Sinner, ormai è cosa nota, risiede proprio nel calore praticamente famigliare che tiene insieme il suo team. Con lo stesso Cahill a fare da figura di riferimento, non per niente dai fan di Sinner viene chiamato ‘papà Darren’ – e lui stesso in più di un’occasione ha confessato di gradire – e con Simone Vagnozzi, l’altro allenatore, a dividersi le responsabilità con il collega più senior. Nulla viene lasciato al caso, nemmeno una goccia di sudore che bagnando il campo potrebbe incidere sul grip delle suole del numero uno. Non è una novità, d’altra parte, che l’attenzione amorevole verso i dettagli, a maggior ragione quelli apparentemente più irrisori, faccia la differenza nelle storie d’amore come in quella di successo. Gli orizzonti della vita e del tennis, si sa, finiscono spesso per sovrapporsi meravigliosamente. Un po’ come ‘papà Darren’ e il sempre più grande Jannik. Se Sinner lavora con il sorriso spesso stampato sulla faccia è perché dal giugno del 2022, e di cose ne sono accadute, si è affidato e si fida a un solido sessantenne che il tennis lo conosce per davvero. Uno che da giocatore è entrato nel novero dei migliori trenta della classifica mondiale e da allenatore ha portato o riportato al vertice giocatori del calibro di Lleyton Hewitt e Andre Agassi, diventati sotto la sua guida rispettivamente il tennista più giovane e quello più anziano capaci di occupare la prima posizione del ranking. Ma non solo, perché nel club dei suoi allievi celebri figurano anche Andy Murray, Fernando Verdasco e Simona Halep. Storicamente soprannominato ‘Killer’, Darren ha mostrato nel corso della carriera da coach di non sbagliare un colpo. Anche dal punto di vista dei cavalli su cui puntare, Sinner compreso evidentemente. Da ultimo e per ultimo, almeno stando alle ultime dichiarazioni di Jannik stesso sul conto del super coach. Dichiarazioni che, guardandosi leggermente alle spalle, fanno rimbalzare in mente quelle rilasciate dal diretto interessato a Torino in occasione delle ultime Atp Finals: “Jannik sarà l’ultimo giocatore che allenerò”. Perché vivere con la valigia sempre pronta finisce per stancare, e a logorare sono anche le continue pressioni da filtrare e ammortizzare. Come nel momento della positività di Sinner al Clostebol, quando Cahill si è distinto per spessore umano e professionale facendo da parafulmine e mantenendo la concentrazione sul suo figlioccio tennistico e sugli obiettivi già fissati insieme al resto della squadra. I grandi capitani fanno così: si caricano il gruppo sulle spalle, soprattutto quando tira una cattiva aria, e lo portano fuori dalla tempesta. In silenzio, facendo in modo che a parlare siano i fatti, e senza mai dimenticare di tenere la testa alta. Poi c’è la parte tecnica, anche se di campo si occupa principalmente quel Vagnozzi che più volte Cahill ha incensato parlandone come del miglior allenatore con cui abbia mai avuto occasione di lavorare, oltre alle questioni connesse alla pianificazione del calendario in funzione dei tornei da frequentare. In questo senso le direttive di Cahill sono scritte nella pietra. Dal periodo off season passato prima di fine anno a Dubai, strategicamente a metà strada tra l’Europa di Jannik e l’Australia di Darren, all’idea – guardando avanti – di ammorbidire il passaggio dai tornei sul cemento a quelli su terra battuta, rispetto a quanto fatto nel 2024, prima per prendersi la soddisfazione che a Roma ancora gli manca e poi per rendere al meglio al Roland Garros. A conquistare Cahill fin dai prime pallate è stata la voglia di Sinner, continua e imperterrita, di volersi migliorare costantemente. Tra le doti dell’azzurro, quella che principalmente ha fatto innamorare tennisticamente il coach australiano. Tanto da considerarla alla stregua di un superpotere. A tutto il resto ci ha pensato la mentalità da campione con cui Jannik è venuto al mondo, così profondamente radicata in lui da essere considerata parte del suo corredo genetico. E talmente forte da fargli pensare che la collaborazione con lui possa in effetti essere quella giusta per mettere il punto esclamativo su una carriera da coach di primissimo livello. In effetti, difficile trovare nuovi stimoli dopo un cammino come quello fatto al fianco di Jannik. Più facile, nel caso, pensare di rimanere nel tennis con un ruolo di tipo diverso, magari più stanziale legato alla federazione australiana oppure alle vicende di Coppa Davis. Solo ipotesi, per il momento, destinate magari a essere portate via dal vento. Magari lo stesso che in maniera insolita sta insistendo in questi giorni su Melbourne Park, sede ormai consolidata del torneo che ogni anno apre il giro degli Slam. Ma in tutto questo la stagione è appena cominciata e come dice Sinner è ancora parecchio lunga, chissà che non ci sia anche il tempo di cambiare idea. Vero, ‘papà Darren’?

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Matteo Renzoni