Amanda Anisimova ha preso a pallate la tristezza

Prima di Iga Swiatek, Emma Raducanu e Coco Gauff, il volto nuovo era lei: Amanda Anisimova ha 23 anni, ma, per come la vita le si è accanita contro e per le cicatrici che ha sul cuore, sembra averne almeno 10 in più. Le ferite invecchiano, le gioie ringiovaniscono. Il trofeo a forma di aquila, vinto nel WTA 1000 di Doha dopo aver sconfitto in finale Jelena Ostapenko, ha mandato indietro il tempo. E così, per un attimo, Amanda è tornata ad avere 17 anni, l’età di quando ha raggiunto la prima semifinale Slam in carriera al Roland Garros nel 2019. Sei anni fa, sul Philippe Chatrier, lì dove si legge che “la vittoria appartiene al più tenace”, Anisimova era stata effettivamente la più tenace, tanto da sovrastare la campionessa uscente Simona Halep nei quarti di finale lasciandola inchiodata vincente dopo vincente. Inutile slittare sulla terra rossa, inutile difendersi disperatamente da fondocampo: sentire Amanda liberare il braccio sia con il dritto che con il rovescio era come una sinfonia. E se è vero che i campioni e le campionesse si riconoscono dal suono 'diverso' che la pallina produce scontrandosi con la racchetta, la teenager statunitense sembrava incarnare già le caratteristiche che si addicono alle più forti. D’altronde, a 17 anni, la carriera di Anisimova poteva definirsi – non ironicamente – come longeva. Il primo Slam juniores vinto ad appena 16 anni, agli US Open, sfruttando la maggiore 'esperienza' contro la connazionale Coco Gauff; il primo titolo da professionista, a livello ITF, a Sacramento, conquistato addirittura un mese e mezzo prima, a luglio, senza neanche aver festeggiato il compleanno; la prima vittoria contro una top ten a Indian Wells nel 2018 contro Petra Kvitova; il primo ottavo di finale Slam raggiunto agli Australian Open nel 2019; il primo titolo WTA vinto ad aprile nello stesso anno: mattoncino dopo mattoncino di un muro che, generalmente, si costruisce molto più in là nel tempo. Mattoncino rosso come la terra di Parigi, incastrata sotto le suole di Anisimova che, incredula, con le mani sul volto a coprire il sorriso, lancia al cielo la racchetta dopo aver chiuso la partita con Halep, neanche a dirlo, con un rovescio vincente, l’ultimo di 25 colpi senza ritorno. Chissà come sarebbe stata la carriera di Amanda se avesse sconfitto anche Barty in semifinale, in una partita surreale in cui la statunitense aveva vinto un primo set in cui era stata sotto 0-5, 15-40, ma aveva poi perso il match nonostante il 3-0 di vantaggio nel secondo parziale e il break a favore anche nel terzo set. La domanda non ha una risposta, sia perché il tennis non funziona granché bene con il concetto di sliding door, sia perché, in realtà, il contraccolpo che stravolge il mondo di Anisimova riguarda soltanto parzialmente il tennis. Ad agosto 2019 la statunitense sparisce dai radar: già costretta a rinunciare ai Premier 5 di Toronto e Cincinnati per un problema alla schiena, Amanda dà forfait per gli US Open, ma non per infortunio. La mattina di lunedì 19 agosto, papà Konstantin, appena 52 anni, non si è svegliato più. Infarto fulminante. E, in un attimo, il mondo di una bambina che non ha neanche compiuto 18 anni, è completamente ribaltato, distrutto, completamente in frantumi. Papà Konstantin non era soltanto un papà. Era allenatore, era manager, era punto di riferimento, era centro di gravità di Amanda fin da quando aveva convinto la famiglia a trasferirsi in Florida per usufruire di maggiori possibilità in termini di incontri con i migliori allenatori e di tornei da disputare per crescere tecnicamente e tatticamente. E se manca il perno intorno al quale ruotare, inevitabile che il meccanismo finisca per incepparsi. Il lutto è devastante, la pandemia di Covid-19, scoppiata nove mesi dopo, dà ancora più tempo di pensare. Alla vigilia degli Australian Open 2020, intervistata da Christopher Clarey per il New York Times, Anisimova ancora parla tra le lacrime di un lutto che non può non aver cambiato tutto. “Questa è stata la prova più difficile che ho dovuto affrontare nella vita e non ne parlo mai con nessuno. Andare in campo e giocare è stato il modo di provare a metabolizzare la situazione”. A marzo 2021 la scelta di Anisimova di partecipare a una festa in barca prima di entrare 'in bolla' per il WTA 1000 di Miami sembra già una richiesta di aiuto, un disperato bisogno di rumore che copra i troppi pensieri, di svago che possa liberarla dalle pressioni di un ranking che non sorride più e dalle aspettative di chi si è dimenticato che la carta d’identità dice soltanto 19 anni e che, a 19 anni, non è affatto strano sentire il semplice bisogno di compagnia. Tanto più in un ambiente così competitivo e solitario come il tennis. Il 2022 di Anisimova è un fuoco di paglia. Il titolo vinto nel WTA 250 di Melbourne e la splendida vittoria sulla campionessa uscente Naomi Osaka agli Australian Open sono illusioni. Amanda è sempre più sola. Letteralmente, nel momento in cui, a marzo, Darren Cahill, sì, quel Darren Cahill, interrompe la loro collaborazione professionale travolto dalla nostalgia di casa e di famiglia. Casa che per Anisimova è sempre più fragile. Tutto troppo e, infatti, alla prima partita senza allenatore, la statunitense va avanti 6-2, 5-4, 40-0 e servizio con Fernandez, spreca quattro match point, perde il parziale al tiebreak e, piangendo, senza troppe spiegazioni, abbandona la partita. Tanti bassi e tanta forza di inseguire gli alti in campo, ma i quarti di finale raggiunti a Wimbledon, ironicamente raccogliendo soltanto tre game contro la campionessa uscente Halep – ancora lei – sono un palliativo che non basta. A Cincinnati, di nuovo in quel periodo lì, Anisimova si rompe un dito del piede. La statunitense non ci sta a saltare lo Slam di casa un’altra volta, ma i fantasmi, si sa, a volte non sono controllabili. “Ho giocato perché amo questo sport, anche se porta molto dolore e delusione”, dice Amanda dopo aver perso al debutto contro Putintseva. E non è detto che stia parlando di tennis. Il post pubblicato da Anisimova su Instagram a maggio 2023 in fondo non stupisce nessuno: sfondo in bianco e nero, lei sdraiata sul Centrale di Wimbledon e parole di cui forse aveva bisogno già anni fa. “Sto faticando a gestire la mia salute mentale e soffro di burn-out da agosto 2022. Partecipare ai tornei sta diventando insopportabile e quindi devo dare priorità al mio stare bene e allontanarmi dal tennis per un po’”. Un po’ che potrebbe essere un paio di mesi, un po’ che potrebbe essere anni, un po’ che non si sa quanto tempo possa essere. Qualche settimana dopo, un nuovo post: “Mi manca questa parte di me. Allontanarmi dal tennis mi ha aiutato a capire quanto lavoro, sudore, lacrime e dolore ho provato per questo sport. Detto questo, sono molto orgogliosa di me”. Durante la pausa Anisimova diventa zia, dipinge e vende i propri quadri in beneficenza, va a vedere le 'Smokey Mountains' in Tennessee, conosce la Gran Bretagna lontano da Wimbledon e la Spagna che non è la Caja Magica di Madrid, si gode un 22esimo compleanno come forse mai era riuscita a organizzare. Per intenderci, torna a vivere. Soprattutto, si riprende la vita che inevitabilmente il tennis toglie. Non esiste collega che, in fondo, non prova ammirazione per come Anisimova ha avuto il coraggio di fermarsi: sono tutte presenti con un cuore o con un commento, prima di tutte Osaka, Andreescu e Badosa – tre che hanno sofferto di depressione. E poi, Jabeur e Raducanu, Stephens e Sabalenka, Gauff e Pegula. Alla fine, la racchetta ha un richiamo troppo forte: cinque mesi dopo lo stop, Anisimova pubblica un video su Instagram nel quale annuncia di essere tornata ad allenarsi. A gennaio 2024 la statunitense partecipa agli Australian Open con il ranking protetto. Da lì in poi, la storia forse è meno vorticosa, luminosa e glamour, ma più reale. Un po’ di sconfitte, magari anche tirate, perché il ritmo partita si ritrova con il tempo, e il ranking che cresce pian piano. La finale a Toronto nel 2024 questa volta è un augurio, il titolo a Doha chiude un cerchio di un talento che ha avuto bisogno soltanto di un po’ di tempo. Ma, in fondo, che vuol dire tempo? Da un viaggio lungo sei anni, probabilmente, Anisimova ha imparato che è meglio misurare l’età in sorrisi e non in trofei. Se poi arrivano anche i trofei, tanto meglio.

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Michela Curcio