Joao, l'altro Fonseca: nato per giocare a tennis e idolo dei brasiliani

Una cosa è certa: Joao Fonseca è un tennista che ha tutto. Sia per essere il più forte tra quelli del suo anno, il 2006, sia per appartenere al club dei migliori guardando al periodo tennistico che sarà. Lo dicono in tanti, tra quelli che ne sanno a pacchi, e l’ha certificato lui stesso vincendo a fine dicembre le Next Gen Finals 2024, il torneo dalle regole avveniristiche che stabilisce il migliore tra i ragazzini in circolazione. Il brasiliano tutto timing si è distinto come tennista dalla classifica più bassa tra i sette 'saranno famosi' capaci negli ultimi altrettanti anni di prendersi il trofeo. Non il più giovane ma quasi, meglio di lui in questo senso solamente Sinner nel 2019, terza edizione della manifestazione. Il giovanotto col cappello sempre calcato sulla testa parla poco e ha la voce bassa ma dice cose molto chiare e gioca con la facilità che appartiene ai ragazzi illuminati da una qualche divinità della racchetta. Proseguendo nel ritratto emerge che il tennis lo ama, e guarda un po’, mentre il calcio molto meno. A dispetto di un cognome, Fonseca, che innesca almeno un paio di rimandi diretti al pallone: nel senso di Paulo, allenatore fresco di esonero dal Milan, e Daniel, vecchia gloria super talentuosa di Cagliari, Napoli, Roma e Juventus, solamente per rimanere al nostro campionato. Joao invece guarda solo la palla di velcro giallo, al cuoio non si è mai legato. Succede anche ai ragazzi nati in Brasile: strano ma vero. Pressoché inutili i tentativi di suo fratello di trascinarlo allo stadio a tifare Flamengo, un’autentica fede alle loro latitudini. Inclinazioni sì, ma magari anche questioni di provenienza, la sua, tutt’altro che popolare. Tra le cose che non gli sono mai mancate, in effetti, c’è anche la capacità economica di mantenersi in mezzo a un mondo particolarmente dispendioso come quello del tennis, che prima di avere un ritorno economico vero e proprio prevede un investimento decisamente non adatto a tasche qualsiasi. Quelle di Fonseca sì, per mezzo di una famiglia benestante che fin da piccolo – prime palle colpite intorno ai quattro anni – gli ha consentito di calcare i campi in terra battuta del Country Club, esclusivo circolo della sua città, Rio de Janeiro, frequentato dai suoi genitori in qualità di soci. Christiano, il padre, è un pezzo grosso delle questioni legate alla finanza. Roberta, la madre, proviene invece dal mondo della pallavolo. Entrambi, come accade nei migliori casi di successo, hanno avuto un ruolo fondamentale nell’indirizzare il figlio garantendogli i migliori allenatori, l’attuale coach Guilherme Texeira lo segue dall’età di 12 anni, inserendolo in quell’ambiente che l’ha portato a vivere il tennis come un fatto naturale. Un po’ come il suo modo di colpire la palla: sembra nato apposta! Tanto che a volte gioca e vince senza la necessità di innestare le marce alte, lasciando andare il braccio e trovando soluzioni vincenti a ripetizione. Eccola qui una delle sue caratteristiche più lampanti: Fonseca il tennis lo crea senza aspettare che siano gli altri a prendere in mano l’iniziativa. Gli piace mettersi nella condizione di guidare le operazioni o perlomeno provarci. Tutto grazie a una consapevolezza ormai raggiunta, puntellata fin da piccolo osservando da vicino quelli sul serio forti, prima dagli spalti poi più da vicino come raccattapalle, innamorandosi delle capacità sovraumane di Nadal e della facilità spaziale di Federer, poi confrontandosi con le pallate dei giocatori già fatti nelle vesti di sparring partner. Nei primi anni, quelli della crescita, tutto è girato attorno al suo club e al suo torneo di riferimento, Rio de Janeiro, entrato nel 2014 nella categoria Atp 500. È stato lì che Joao, cresciuto sulle spiagge di Ipanema, ha preso la terra rossa e l’ha trasformata, una volta per tutte, nella sua spiaggia preferita. Ed è bastato poco, a lui come a chi gli stava attorno, per capire quanta voglia avesse di giocare a tennis e quanta determinazione lo accompagnasse nel progetto di diventare bravo come quelli già affermati. Le sue maniere sono buone ma non per questo poco determinate, il brasiliano sa bene che quando si gioca bisogna essere seri. Adesso da maggiorenne ma anche prima, a 17 anni, quando vincere l’Open degli Stati Uniti, quello dei piccoli, gli ha consentito di diventare numero uno del mondo nella categoria juniores, primo brasiliano a farcela, e da lì a guadagnarsi l’attenzione di un Federer che non si è fatto scappare l’opportunità di metterlo sotto contratto tramite la sua agenzia manageriale. Le stesse luci della ribalta, di lì a breve, e siamo nel 2023, lo hanno portano alle Next Gen Finals, quelle dei grandi, nei panni di sparring partner di tre maestri del livello di Sinner, Alcaraz e Medvedev. Per farsi le ossa c’è di peggio. Aggressività, capacità di colpire forte la palla con grande scioltezza, meglio di dritto ma molto bene anche con il rovescio, e precisione dei colpi. Sono solo le prime caratteristiche da mettere in evidenza pensando al suo tennis, inevitabilmente acerbo ma già così consistente. JF, sintetizzando nome e cognome in due lettere, dalle sue parti - e ci mancherebbe – viene già trattato alla stregua di un orgoglio nazionale. Per il suo valore, è chiaro, ma anche per la fame di trovare un numero uno che manca dai tempi di Gustavo ‘Guga’ Kuerten, ormai un quarto di secolo fa. Quando il brasiliano pieno di ricci vinceva il terzo e ultimo Roland Garros della sua collezione, a suon di rovesci monomani, Joao stava per nascere. Tanto per dare una misura del tempo che passa, dei campioni che invecchiano e dei bambini che, in parallelo, diventano uomini e tennisti importanti. Con quel fisico ancora inevitabilmente da strutturare, Fonseca è il prescelto per colmare il vuoto lasciato dalla fine dell’avventura agonistica di Kuerten, e riportare con la sua educata prepotenza il Brasile ai vertici del tennis internazionale. Le prove generali le ha già fatte in Coppa Davis, tornando al settembre scorso, battendo il belga Collignon e l’olandese Van de Zandschulp e non sfigurando contro il futuro campione Berrettini. Una stagione, quella appena conclusa, nella quale Fonseca ha centrato le prime vittorie di livello Atp, che di solito certificano il vero salto di livello. Dove? A Rio de Janeiro, che più in casa non si può, contro Fils al debutto e davanti a Garin nel turno successivo, prima di essere battuto da Navone, poi finalista del torneo, all’altezza dei quarti di finale. Un percorso che gli ha permesso di distinguersi come primo giocatore nato nel 2006, chiaramente non oltre, capace di vincere una partita Atp, e il secondo giocatore più giovane a prendere parte a un quarto di finale di un Atp 500 da quando Zverev, intendendo Sasha, riuscì a fare la stessa cosa ad Amburgo nel 2014. Così, tanto per siglare un record e un quasi record in più legati alle questioni di precocità. Tra i momenti salienti dell’ultimo lungo periodo entrano di diritto anche il primo match vinto in un Masters 1000, a Madrid contro Michelsen, e le dieci partite vinte tutte di fila tra fine e inizio anno, con il Challenger di Canberra – il secondo conquistato in carriera dopo quello di Lexington - a fare da punto esclamativo. Il resto deve ancora venire, e di certo il tempo non gli manca. L’ingresso nei primi cento non è più così lontano, anzi, e uno dei principali propositi per il nuovo anno, ossia l’ingresso nel tabellone principale di uno Slam, l’ha raggiunto al primo colpo a Melbourne. Sognando di diventare importante in Brasile al pari di Kuerten, leggiadro quasi come Federer, tennisticamente immortale in modalità Nadal. Ma senza dimenticare di essere sé stesso, se possibile in una versione via via sempre migliore, facendo in modo che il suo tennis così totale, tra potenza e fantasia, tracci una strada di ispirazione adatta ai tennisti di dopodomani. Quelli che oggi lo ammirano come lui faceva con i giganti di qualche anno fa. Se il tennis è una ruota che gira, adesso Fonseca ha la possibilità concreta di pedalare nella direzione della definitiva affermazione.

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Matteo Renzoni