Le tre vittorie individuali più grandi dello sport italiano, per me

L’innesco l’ha acceso Giampaolo Iurilli nella nostra chat interna, pochi istanti dopo il match-point, quando Sinner e Alcaraz si stavano ancora abbracciando a rete. “Fra le tre vittorie individuali più grandi dello sport italiano” ha scritto, mentre in redazione, nelle case, in vacanza, ovunque davanti a Sky Go stavamo tutti impazzendo. Bisognerebbe saper resistere a queste tentazioni, specie in età matura. Purtroppo io non ho mai imparato. Tempo un minuto per un rapidissimo giro d’orizzonte nella memoria, poi digito febbrilmente “Jacobs, Sinner, Pantani”. La diga scricchiola, per un lungo minuto sembra reggere, poi esplode. “E Tomba?”. “Anche la Pellegrini”. “Siete pazzi, vi state dimenticando di Valentino Rossi”. L’onda di piena si porta tutto a valle. “Siamo quattro volte campioni del mondo di calcio e neanche lo citate”. “E la pallavolo? Già scordato Velasco?”. “Sara Simeoniiiiii!”. Di solito in queste situazioni Federico Ferri, il direttore, dopo un po’ interviene per ricordare con garbo che stiamo utilizzando una chat di lavoro - dove viene organizzato il traffico di collegamenti, interviste, video e così via - per una discussione da bar. Stavolta niente. Silenzio. Sospetto sia al bar pure lui. Tento una moderazione: “Non facciamo elenchi. Siamo partiti con tre vittorie individuali, le squadre sono un’altra cosa. Non si aggiunge, si sostituisce: chi vuol mettere Tomba ne tolga uno fra Jacobs, Sinner e Pantani”. La discussione riparte, ci vuole un po’ perché la professionalità abbia la meglio, ma la ‘colpa’ è tutta di Sinner: il ragazzo di ghiaccio ha acceso troppi fuochi. Mai visto in chat un entusiasmo simile. Il senso di questo racconto è che anche tra professionisti la percezione della grande impresa spalanca le porte al bisogno di discuterne, e al di là di ogni snobismo il livello bar è l’ideale: se già è complicato, per non dire improprio, paragonare i risultati dello stesso sport ottenuti in epoche diverse, farlo mettendo tutte le discipline nello stesso calderone spazio-temporale è totalmente dissennato. Ugualmente, lo facciamo tutti e con grande gusto, perché se ogni giorno si porta il suo affanno lo sport rimane l’ora di ricreazione della vita, e dunque va trattato con leggerezza, prendendosi pure qualche libertà. Esaurita la premessa, che serviva sostanzialmente a ripulire la coscienza, ecco una piccola guida alle mie scelte, partendo dal fatto che ho lasciato passare qualche giorno affinché il trionfo di Jannik sedimentasse, ma anche dopo il periodo di decantazione il trittico del minuto 1 non è cambiato: Jacobs, Sinner, Pantani. Buona parte del discorso parte dal prestigio delle competizioni. Niente potrà mai superare i 100 metri, perché l’istinto di correre il più veloce possibile una distanza breve è l’origine di ogni gioco da bambino, che sia ricco o povero, agile o pesante, asino o istruito. Per questo motivo correre veloce è uno sport in cui tutto il mondo compete, e se emergere con tanta concorrenza è difficile, diventare il numero uno al mondo vincendo il titolo olimpico è una rarità quasi commovente. Non c’è risultato del nostro sport che abbia sorpreso più dei 100 metri di Marcell Jacobs a Tokyo: talmente sorprendente da autorizzare mille malelingue a dubitarne sottovoce , e questo malgrado tutti i controlli abbiano sempre confermato la sua pulizia. C’è voluta l’Olimpiade successiva, non più vincente ma comunque competitiva, perché il chiacchiericcio si diradasse. Ma giova ripeterlo: nacque tutto dall’enormità di una medaglia d’oro dei 100 metri, l’unità base dello sport intero. Il torneo di Wimbledon è la quintessenza della tradizione applicata allo sport. C’è talmente tanta letteratura dentro quei campi verdi di Church Road, dalla massima di Kipling in giù, da permeare l’evento di mille significati, ognuno è libero di leggerci quello che meglio gli suona. È importante annotare come siano tutti bifronti, nel senso che da una parte sono improntati all’eleganza, allo stile e alla classe - i gesti bianchi, che persistono nell’obbligo dell’abbigliamento - e dall’altra dalla ferocia di una competizione in cui il tabellone via via si restringe, dai campi più esterni ci si avvicina al Centrale, il livello dei reali nel Royal box si eleva, e i rimbalzi sull’erba diventano più imprevedibili. Le sette stazioni necessarie per vincere il torneo sono dense di trappole, colpi di scena, botte mostruose di fortuna o sfortuna , insomma una gara di sopravvivenza, ma sempre raffinata. Sinner ha percorso tutte e sette le stazioni senza guardarsi indietro - e sì che di incubi alle spalle se ne è lasciati - e ha guadagnato l’ultimo trofeo mitologico che mancava allo sport italiano. Il terzo dei miei eletti è il Marco Pantani del 1998, all’epoca il settimo ciclista della storia a realizzare la doppietta Giro-Tour nella stessa stagione. L’anno scorso Tadej Pogacar è diventato l’ottavo. Pantani non è stato l’unico italiano a farcela: Fausto Coppi fu addirittura il primo in ordine di tempo, e riuscì a raddoppiare due volte, nel 1949 e nel 1952. Qui però alzo le mani: nella mia graduatoria ho dichiaratamente inserito soltanto atleti che ho visto gareggiare, dall’infanzia a oggi. Coppi e Bartali appartengono quindi a una sfera di sport raccontato o studiato su vecchi ritagli che avrebbe ancor meno senso inserire nel calderone. I miei ricordi iniziano con Eddy Merckx, logicamente il più grande di tutti , proseguono con Hinault , Roche e Indurain per arrivare al nostro carissimo Pirata, l’uomo che si toglieva la bandana e la gettava come un guanto di sfida, scattava in salita ‘per abbreviare l’agonia’, e in quell’anno si lasciò dietro il mondo. Il ciclismo è l’elogio di una fatica a tratti disumana, il Tour de France il suo campo di battaglia più nobile. Come ho scritto nella chat, le tante imprese dello sport italiano ci permettono di andare a gusto nella scelta dei tre preferiti. E posso solo aggiungere che del mio gusto sono molto felice.

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Paolo Condò