Quella giornata insieme a Julio Velasco

Per descrivere quanto sia sottile la differenza fra la vittoria e la sconfitta, una volta Julio Velasco mi raccontò due storie, due palline fermate dal nastro come nella scena-monologo iniziale di “Match point” , e poi cadute dalla parte a lui favorevole. La prima è una storia di sport, il Mondiale di pallavolo del 1982, quello nel quale l’Argentina arrivò terza - miglior risultato della sua storia - grazie al magistero del tecnico coreano Wan Young Sohn e alle idee del suo giovanissimo assistente, Velasco appunto. Per accedere alla semifinale la partita chiave fu quella con la Germania Est, che si trovò in vantaggio 2-1 e 14-7 col servizio a disposizione . “Se i tedeschi avessero sfruttato quel match point, nessuno si sarebbe accorto di noi, né dei giocatori che poi vennero ingaggiati in Italia, né del giovane allenatore che alcuni di loro avrebbero consigliato ai loro dirigenti. Quella palla decise la mia vita”. Un uomo come Julio si sarebbe certamente costruito un’altra chance per emergere, ma il singolo punto decisivo contiene sempre qualcosa di speciale, e immergendomi nel web ci sono arrivato: siccome la ricezione argentina fu imperfetta, Solari ebbe la brillante idea di mandarla di là col secondo tocco, sorprendendo i tedeschi. L’Argentina riprese la battuta, non la mollò più per tutto il set, vinse 3-2 e il mondo prese nota. La seconda non è una storia di sport, ma di fantasmi. “Un mattino di qualche anno prima, in un collegio di Buenos Aires. Siamo in tre ragazzi a insegnare, tutti di sinistra. Gli altri due mi chiedono se voglio scendere con loro a prendere un caffè, ma una telefonata mi blocca. Dopo un’ora non sono ancora rientrati. Vado a cercarli, trovo il racconto sconnesso di chi ha visto: è passato un Falcon verde, la macchina della polizia segreta, li hanno portati via. Non li avrei più rivisti: imprigionati, torturati, desaparecidos. Quel caffè sarebbe costato la vita anche a me”. Anche a queste storie ho pensato, nel seguire con un filo di commozione gli ultimi colpi delle azzurre a Parigi, il preludio al trionfo. Julio Velasco è stato per me la faccia delle Olimpiadi perché anche se fin dalle prime parole - a finale ancora calda - ha voluto sdrammatizzare la medaglia d’oro , noi che lo seguiamo con ammirazione, e ormai anche affetto, aspettavamo che il suo appuntamento olimpico col destino venisse finalmente rispettato. E’ stata una gioia profonda vederlo esultare con Bernardi e Barbolini, guardarlo abbracciare Paola Egonu e Moki De Gennaro, osservarlo nuovamente in un ingorgo di telecamere, microfoni e taccuini. Ci sono persone che meno parlano meglio si sta, e altre come lui che dovrebbero raccontare in loop il loro punto di vista sulla vita. Ho avuto il privilegio di passare con lui un giorno intero. E’ ormai lontano, quel 2 dicembre 1993, ma la data resta un’epifania perché nel mio pantheon Julio Velasco divide con Pep Guardiola il titolo di persona più intelligente che conosco. L’idea era venuta a Candido Cannavò, come quasi tutte quelle che accendevano la Gazzetta dei bei tempi. Deus ex machina della pallavolo italiana da una decina d’anni, prima a Jesi, poi a Modena e infine in Nazionale, Velasco era stato raccontato in tutte le sue sfaccettature dai bravi colleghi che seguivano la pallavolo, Carlo Gobbi e Sandro Filippini. “Cambiamo mano stavolta - disse il direttore in riunione mentre l’Italia stava rientrando dal Giappone, dove aveva vinto la prima edizione della Grand Champions Cup - mandiamo Paolo che ha la testa sempre in Sudamerica”. In effetti avevo passato l’estate di quell’anno nel mio continente prediletto, luglio e agosto a seguire le partite di qualificazione al Mondiale americano dell’anno successivo. E l’Argentina era una passione non soltanto sportiva. Con suprema generosità - in qualsiasi testata giornalistica chi segue gli sport olimpici ne è geloso, specie nei confronti dei ‘divi’ che seguono il calcio - Filippini mi organizzò l’incontro. Così il 2 dicembre, di buon mattino, suonai il campanello di un bell’appartamento nella periferia di Modena. Ero molto curioso, la condizione in cui ci si dovrebbe trovare sempre per fare un buon lavoro. Un benvenuto pieno di calore, un rapido caffè e poi via in auto verso il centro, “perché fra Europeo a settembre e Giappone in novembre sono stato sei mesi fuori e non voglio che la quotidianità delle bollette pesi soltanto su mia moglie”. Prima tappa, la banca. Velasco deve prendere qualcosa dalla cassetta di sicurezza, il giovane funzionario gli chiede in rapida successione se a Tokyo sia stata dura e la sua chiave. A Tokyo è stata dura, e la chiave… beh, se l’è scordata. Non è che il funzionario ha un duplicato? Quello inorridisce in modo molto educato, e dice che no, non ce l’ha. Velasco sospira, e si torna a casa per rimediare all’errore. “Non mi rassegno al mio disordine. Giuro che cerco di migliorarmi. Ma è dura, sono davvero distratto”. Beh, la distrazione è il più normale degli effetti collaterali quando hai una mente che approfondisce tutto, che scava, che mette in relazione le cose e trae un insegnamento ovunque sia possibile. Proseguendo il nostro giro mi indica la piccola bottega di un barbiere: “Lì ho conosciuto Enzo Ferrari. Poche parole di circostanza, ma sufficienti a impressionarmi. Il resto l’ha fatto chi gli radeva la barba ogni mattina, ed era un po’ il suo confidente. Negli anni qualcosa mi ha raccontato”. Credo poco alle coincidenze, si vede che Julio doveva ‘ricevere’ un po’ del sapere del grande vecchio. In quel dicembre del 1993 l’Italia veniva da due trionfi consecutivi, l’Europeo vinto in Finlandia e la Grand Champions Cup in Giappone: 12 vittorie e zero sconfitte, percorso netto con l’Olanda battuta due volte. In quel momento l’oro olimpico era un appuntamento fissato per il ‘96, se mi avessero detto che Julio e l’Italia avrebbero dovuto aspettare 31 anni - e il titolo sarebbe arrivato grazie alle ragazze - non ci avrei creduto. Ma non essendo uno specialista di pallavolo, anzi, sono altri gli argomenti che il passare del tempo non ha scolorito. Il suo rapporto con la madrepatria, per esempio, perché è illuminante. L’emigrazione familiare, che negli argentini è sempre un romanzo. La finestra più grande dell’appartamento di Modena era protetta da una tenda pregiata, ricca di merletti. “La portò mia zia dall’Italia sul bastimento che la condusse a Buenos Aires, e quando ha saputo che io e Nora avremmo percorso il tragitto inverso ce l’ha regalata. E’ una cosa che mi commuove, quando ci penso. L’Argentina? Non ci tornerò a vivere, io non credo all’identità dei popoli: argentini erano quelli che per un mese sequestrarono e torturarono mio fratello, argentino era quello che venne dopo di me in una casa di La Plata, e malgrado una pistola puntata alla tempia negò di conoscere il mio nuovo indirizzo, che invece sapeva. Nei tempi della dittatura facevi con naturalezza delle cose pazzesche, e lì ho capito che l’uomo è in grado di adattarsi a tutto”. Lo scrittore Ernesto Sabato fu il presidente della commissione nazionale d’inchiesta sui crimini della dittatura militare fascista che governò l’Argentina fra il 1976 e il 1983: il lavoro della commissione consistette nell’audizione di centinaia di testimoni, i sopravvissuti a detenzione e torture, e produsse il rapporto “Nunca mas” . Alla fine di quella giornata Velasco mi regalò il più celebre dei romanzi di Sabato, “Sopra eroi e tombe”. Gliene sono ancora grato. Un’opera assoluta, visionaria, spaventosa. Una finestra sull’abisso, non ho mai più letto qualcosa di paragonabile.

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