Ma quello chi è? Gli 'imbucati' che hanno fatto storia nello sport

La sosta per le partite delle nazionali può anche non essere esaltante, a meno che non si sia come Daniel Jarvis, un ragazzone inglese che in occasione di Eire-Inghilterra, giocata il 9 settembre scorso a Dublino, è riuscito ad entrare in campo, vestito con la divisa della nazionale, il cognome sulla schiena e il numero 69, avvicinandosi alle due squadre mentre stavano per partire gli inni. Troppo alto e robusto per non essere visto, Jarvis è stato preso e portato fuori, tenendosi la soddisfazione, magari vacua, di scrivere poco dopo su X "sono ora ufficialmente il calciatore più grasso nella storia dell’Inghiterra!". Jarvis ha potuto portare a termine, o quasi, il suo tentativo di imbucamento in Irlanda perché nel Regno Unito è colpito da daspo, a causa dell’invasione di campo del 2021 al celebre stadio Oval di Londra durante una partita di cricket tra Inghilterra e India: vestitosi, in una toilette, da giocatore indiano, con numero 69 e ‘Jarvo’ sulla schiena, ad un certo punto entrò in campo, tirò una pallina e finì addosso al connazionale Jonny Bairstow, per poi essere preso, portato fuori e, qualche mese dopo, condannato. Jarvis è uno dei tanti praticanti dell’imbucamento, una disciplina dell’io - utile ricordarlo - illegale ma che vissuta in questo modo, come esibizionismo ed egocentrismo prevalentemente innocenti, fa meno danni di altre. E c’è imbucato e imbucato, ovviamente: quelli come Jarvis vogliono essere visti da tutti senza creare particolare scandalo, un po’ come Karl Power, molto celebre a inizio secolo quando si schierò per la foto prepartita con il Manchester United che, a Monaco, si preparava alla partita di ritorno del quarto di finale di Champions League contro il Bayern, mentre il celeberrimo Mark Roberts, che ora ha… abbandonato l’attività per l’avanzare degli anni, si è esibito nudo, o indossando un semplice perizoma, addirittura per 565 volte in campi di calcio, concorsi ippici, gare di cavalli, partite di tennis, Giochi Olimpici, Super Bowl, concorsi di Mister Universo, la corsa dei tori a Pamplona e qualsiasi evento pubblico di rilevanza nazionale o internazionale, entrando già svestito o svestendosi rapidissimamente in campo, grazie ad una sapiente scelta di completi - anche da arbitro di calcio, come alla finale di Coppa Uefa a Siviglia nel 2003 o al Super Bowl XXXVIII di Houston del 2004. Esibizionismo puro, in tutti i i sensi, come quello dei suoi numerosi colleghi o colleghe, detti streaker dal termine che originariamente indicava chi corre velocissimo: indimenticabile l’immagine, scattata al celebre stadio londinese del rugby, Twickenham, il 20 aprile 1974, di un ragazzo australiano, Michael O’Brien, portato via nudo dalla polizia con uno degli agenti che con una bombetta gli copre i genitali. Indimenticabile l’episodio della cerimonia degli Oscar sempre di quel 1974, anno e periodo in cui certe esibizioni stavano prendendo piede: un 34enne, Robert Opel, corse nudo sul palco alle spalle del presentatore David Niven, suscitando lo sconcerto dei presenti, che si trasformò in un’ovazione divertita quando Niven, perfetto esemplare della già declinante categoria dei britannici dall’ironia tagliante, commentò con "non è meraviglioso pensare che l’unica risata che questo signore strapperà alla gente sarà per aver mostrato la sua inadeguatezza fisica?". Pare che in realtà tutto, dall’apparizione improvvisa alla straordinaria battuta, fosse preordinato, ma si trattò di un evento significativo dei tempi. Ad una categoria simile appartiene un vero mito dello sport americano, Morganna Roberts, classe 1947, nota a tutti come Morganna the Kissing Bandit, in poche parole la ‘Ladra di Baci’. Una ragazza con una storia pesante, più volte narrata, nei tanti momenti di celebrità che la portarono a varie ribalte anche televisive: abbandonata dalla madre Jane, allevata dalla nonna Virginia che dopo alcuni anni la affidò ad un collegio religioso, messo da parte il desiderio di farsi suora scappò da Louisville a Baltimore e per qualche tempo dormì per strada, non potendo trovare lavoro in quanto solo tredicenne. Un giorno vide l’annuncio di un locale notturno che cercava una ‘cigarette girl’, una di quelle ragazze che giravano portando con sé una cassetta con scatole di sigarette da vendere ai clienti, ma il titolare le disse che sarebbe stata più efficace come ‘exotic dancer’, nome edulcorato che indica in pratica le spogliarelliste, e Morganna accettò, credendo ingenuamente - sono parole sue - che quel termine indicasse una ballerina che si esibiva in scenari che ricordavano paesi lontani e, appunto esotici. Alla prima uscita sul palco, traballando su tacchi a cui non era abituata, non capì che i ‘via!’ dei luridi presenti erano riferiti al reggiseno e non a lei stessa, che dovette essere accompagnata in lacrime nel camerino. Capita l’antifona, ed essendo stata dotata da Madre Natura di un seno di dimensioni ragguardevoli , fece presto carriera, lavorando peraltro fino a 56 ore alla settimana pur se adolescente, e, da appassionata di baseball, cominciò ad andare a vedere partite, facendo il grande passo una sera di aprile 1970, in una sorta di sfida. In quel periodo, infatti, si esibiva al Jiving Galazie Club di Newport, nel Kentuky, praticamente dall’altra parte del fiume Ohio rispetto a Cincinnati, e quando poteva andava a vedere i Reds. Alcuni dei giocatori, frequentatori del Jiving, la notavano nelle prime file e la salutavano, ma Pete Rose, il grande campione scomparso pochi giorni fa, sembrava ignorarla, forse perché era più di casa tra allibratori e scommettitori che spogliarellista. Una sera, marito e moglie seduti dietro di lei le dissero "ma Pete ci vede bene?". Stimolata dalla considerazione, Morganna saltò in campo e corse a baciare Rose, che non la prese molto bene, salvo scusarsi con un mazzo di fiori il giorno dopo. Presoci gusto, Morganna cominciò a ripetere l’impresa con frequenza sempre maggiore, anche in altri stadi, al punto che prima della World Series del 1972, tra Reds e A’s, fu aumentato il numero di steward per impedire, con concreto successo, l’ennesima invasione. Anche perché Morganna aveva dichiarato di avere nel mirino un giocatore per squadra, Sal Bando e Mike Epstein, "perché hanno il baffone da tricheco". Baffone che peraltro era un semplice pretesto estetico, perché Morganna baciava sulle guance e non altrove, prima di tutto per motivi igienici poi "perché così le loro mogli non si arrabbiano". Straordinaria la definizione che di lei diede Kelly Tripucka, giocatore dei Detroit Pistons: "è stato come abbracciare un materassino gonfiabile". Ingenua di natura, anche se resa smaliziata da vicende di vita e lavoro, Morganna non capiva il motivo dell’accanimento dei forze dell’ordine e dirigenti del baseball nei suoi confronti: "Nella NFL ci sono gli spettacolini all’intervallo, il baseball lo adoro ma al di fuori del gioco non c’è vero divertimento e quello lo porto io", considerazione che peraltro nasceva dal fatto che ogni sua incursione era salutata da sorrisi e risate, visibili anche nelle foto e nei video d’epoca, radunati in uno speciale della ESPN perché Morganna è stata davvero un simbolo di un’epoca, e anche un italiano che cominciasse a fine anni Settanta a interessarsi allo sport americano finiva inevitabilmente, pur nella frammentarietà di informazioni di quei tempi, per notarla. Anche per il fisico prorompente, ovviamente: in considerazione delle sue peculiarità strutturali, nell’avvicinarsi ai giocatori correva con attenzione, quasi sulle uova, sapendo che un passo falso l’avrebbe portata a ribaltarsi in avanti. E a proposito, il suo avvocato riuscì una volta ad evitarle guai sostenendo che una sua invasione di campo non fosse intenzionale ma semplice conseguenza della… forza di gravità: Morganna infatti si era affacciata alla transenna per seguire la traiettoria di una battuta e il peso del seno, quasi 7 chili rispetto al peso corporeo di 51, l’aveva fatta ribaltare sul terreno di gioco. Il giudice cominciò a ridere senza freni e Morganna fu assolta. Ritiratasi dall’attività, con milioni di dollari da parte, ormai a metà anni Novanta, Morganna resta un simbolo parasportivo del periodo d’oro dello sport americano, gli ultimi tre decenni del secolo scorso in cui l’esplosione televisiva amplificò popolarità e creò personaggi. Ora, da quelli e quelle che pagavano il biglietto invadevano il campo per farsi vedere da tutti, magari togliendosi gli abiti, a quelli che si imbucavano mettendoseli, gli abiti, e avevano come principale intenzione quella di NON farsi vedere. Due modi diametralmente opposti di vivere quella che però nei fatti è trasgressione, ovvero il superamento di limiti materiali che si trasfigura, necessariamente, nello scavalcamento di quelli morali o legali. Anche qui la casistica è ricca, principalmente nella patria di tutti gli esibizionismi, gli Stati Uniti d’America. A partire da un personaggio talmente famoso che Don Weiss, responsabile organizzativo dei primi 37 Super Bowl, evitò volutamente di citarlo, in un interessante libro del 2002. Ecco le parole di Weiss: "Ci sono stati imbucati simpatici ma verso un certo personaggio di simpatia ne ho poca. Avrete letto di lui, a volte in termini lusinghieri, avrete letto di come sia riuscito spesso a farsi fotografare accanto al coach che aveva appena vinto il Super Bowl. Ma quello che non viene mai menzionato è il suo passato molto sospetto. Non è certo un santo, io lo conosco bene, tanto che ad un certo punto ho mandato varie sue foto, in travestimenti diversi, ai responsabili della sicurezza di tutte le squadre, perché uno che ci ha causato così tanti mal di testa al Super Bowl potrebbe tranquillamente cercare di imbucarsi anche a partite normali. È sicuramente bravissimo nel fare quello che fa, ma non al punto da meritarsi una menzione". Sembrava un ricercato e per certi versi lo era, Dion Rich, il non-citato da Weiss, nelle foto che il dirigente NFL inviava in giro, distribuendole anche a qualsiasi ingresso, pubblico o meno, del Super Bowl: foto del viso ma anche truccato da infermiere, cameriere, venditore di hot dog, allenatore. Alcuni dei travestimenti che Rich aveva usato per entrare a 35 Super Bowl, 14 Olimpiadi, decine di cerimonie di Oscar o Golden Globe e ovunque avesse voglia di andare a sbafo. Venuto a mancare nel 2022, a 92 anni, era stato militare nella Guerra di Corea, pescatore e barista poi proprietario di locali e al tempo stesso bagarino di lusso, mai sposato e filantropo, oltre evidentemente, secondo Weiss, altro che non venne mai alla luce. Rich fece davvero quello che voleva, per alcuni decenni, e vinse la sua sfida più grande nel febbraio 2002, a New Orleans. Era il primo Super Bowl dopo gli attentati dell’11 settembre, e il livello di sorveglianza e di paranoia era come mai prima: un esempio banale, quando l’autore di questo articolo, a cui era stato consegnato un accredito con il nome sbagliato, tornò al banco stampa a far notare l’errore, negli addetti si creò un panico notevole, dettato dalla paura di aver compiuto altri sbagli simili. Ebbene, sfidato dal giornalista Rick Reilly a superare le misure di sicurezza e imbucarsi così alla sua 33esima finale, Rich ci mise esattamente sei minuti ad entrare, con una faccia di bronzo e una sicurezza degni di un compito del genere. Passo svelto, aria di chi non sente ordini né consigli, esitazione esperta nell’attendere che uno dei controllori si girasse, balletto sulle punte ad evitare un militare poco attento, piedino infilato nella fessura di una porta chiusa dall’interno ma momentaneamente aperta da un inserviente che era uscito, et voilà. Rich aveva da anni accettato, dietro minaccia diretta della NFL , di non entrare più in campo, ma non aveva menzionato lo stadio. In cui, in un passato pre-attentati, si era intrufolato in mille modi diversi, con i travestimenti di cui sopra ma anche, scoperto l’hotel di una delle due finaliste, salendo sul pullman come se nulla fosse, scendendo assieme alla squadra e restando nel gruppone a bordo campo. Alla fine, poi, approfittava del caos per unirsi ai festeggiamenti del team vittorioso, ed è per questo che comparve sulle copertine del settimanale Sports Illustrated mentre portava in trionfo Chuck Noll, coach dei Pittsburgh Steelers, dopo il Super Bowl IX del 12 gennaio 1975 e, ancora più visibile Tom Landry dei Dallas Cowboys dopo il successo del SB XII del 15 gennaio 1978. Dopo qualche anno la NFL ne ebbe abbastanza: sapendo che Rich amava parlare dei suoi trionfi da imbucato, la lega mandò un investigatore privato, che si spacciò per giornalista, ad intervistarlo prima del Super Bowl XXIII, in programma a Miami. Il presunto giornalista, facendo leva sulla vanità dell’interlocutore, lo spinse a raccontare le sue tecniche, i suoi obiettivi e persino il suo indirizzo temporaneo. Dion peraltro riuscì lo stesso a entrare allo stadio, entrando dall’ingresso disabili con sedia a rotelle e accompagnatore, ma nel momento in cui stava per dirigersi verso la linea laterale dei San Francisco 49ers e festeggiare con loro fu preso da un addetto, portato in uno stanzino e minacciato, appunto, di un arresto e lunga detenzione. Stesse tattiche e stessa faccia tosta per entrare agli Oscar e ad altre cerimonie di alto livello e solo a inviti, per il puro gusto di farlo, ed esibizionismo post-factum, ad esempio nelle decine di foto che si fece scattare assieme ai vip che incontrava. A una partita di World Series a Los Angeles, non contento di essere entrato di nascosto, voleva andare pure negli spogliatoi per i festeggiamenti, e chiese ad un giornalista, molto noto, il pass "da regalare ad un bambino malato". Entrò, seguì i festeggiamenti, salì sul podio con allenatore e intervistatore - lo aveva fatto anche al primo Super Bowl, nel 1967 - e incrociò lo sguardo del giornalista di prima, che con sarcasmo gli chiese "come sta il bambino malato?". La sua fama era tale, l’allarme generale per la sua presenza era tale che un giorno, presentatosi ad una cerimonia in onore di Harrison Ford assieme alla sua consulente finanziaria Mariana Aguilar, fu cacciato nonostante avesse i biglietti, perché l’addetto agli ingressi si rifiutò di credere che il grande Dion Rich volesse entrare in maniera regolare. Nel novembre 2022 il suo ultimo colpo a sorpresa, stavolta ad un funerale: il suo, per il quale aveva girato in anticipo un video che mostrato ai presenti, attoniti. Quasi al suo livello fu Barry Bremen, scomparso nel 2011 a 64 anni, una miscela di imbucato esibizionista e riservato: riuscì infatti a travestirsi da arbitro di basket, baseball e football, schierandosi in campo, anche per l’inno, prima di una partita di una finale NBA, di World Series e un Super Bowl, a truccarsi da… cheerleader dei Dallas Cowboys dopo aver perso 10 chili per prepararsi al ruolo, sbattuto peraltro fuori dopo pochi secondi, mentre in occasione dell’All-Star Game MLB 1979 riuscì, grazie alla collaborazione di George Brett, dei Kansas City Royals, a stare in campo un paio di ore di riscaldamento, prima di essere scoperto da un addetto e portato via nel momento in cui cercava di posare per la foto ufficiale. Chiuse la sua ‘carriera’ nel 1986, per i maltrattamenti che a suo dire subì in carcere, dove era stato portato dopo essere stato arrestato nel prepartita dell’All-Star Game 1986, a Houston: anche lì era riuscito a travestirsi da giocatore e, all’esterno, ad andare a ricevere le battute lunghe durante il riscaldamento, prima di essere scoperto e trattato a male parole da Tommy Lasorda, il celebre allenatore dei Los Angeles Dodgers e, nella circostanza, della National League. Un anno prima, Bremen era andato alla cerimonia degli Emmy, a Pasadena, e al momento dell’annuncio del premio come migliore attrice non protagonista a Betty Thomas, della serie tv Hill Street Blues, si era alzato ed era andato sul palco a riceverlo, senza rendersi conto che la Thomas era presente e si era pure lei mossa verso il palco. Le scuse non bastarono, e arrivò la polizia, che lo portò in cella.