Santamaria: Un po’ Jeeg Robot e un po’ Batman. Bad guy in Call my agent, ma non sono così
IntervistaDa Call my agent a Jeeg Robot e Batman: Claudio Santamaria ci racconta il personaggio nella serie Sky e alcuni dei momenti più importanti della sua carriera
Claudio Santamaria si è unito alla famiglia di Call My Agent nella seconda stagione regalando nella terza puntata della serie di Sky un’interpretazione divertente, mostrando una versione di sé molto diversa dall’originale, come ha tenuto a precisare nella nostra chiacchierata. Ha dato vita a tanti personaggi che hanno lasciato il segno nel cinema italiano e non solo (da L’ultimo bacio a Romanzo Criminale, Casino Royale, Lo chiamavano Jeeg Robot) mettendoci tutto se stesso. Anima, corpo, e a volte solo voce. Perchè è anche doppiatore. Una su tutte, quella “animalesca” e sofferente di Batman. È stato anche Rino Gaetano, dando sfoggio della sua bravura persino come cantante. Lo chiamavano Jeeg Robot, per cui ha vinto il David di Donatello, è probabilmente il film che ha un posto speciale nel suo cuore. In questa intervista, Claudio Santamaria ci ha raccontato la sua esperienza a Call my agent ma abbiamo ripercorso con lui anche alcuni dei momenti più importanti della sua carriera. E ci ha rivelato qualche trucco del mestiere.
Raccontaci il tuo personaggio in Call my agent e come è nata questa esperienza.
"È il personaggio più stupido che abbia mai fatto, me stesso. È stato veramente divertente. È una serie che amo molto. Avevo visto una parte di quella francese, non nel momento in cui è uscita ma con un po' di ritardo e secondo me mancava la proiezione di oggi, nel senso che non c'erano social, cosa che invece in questa serie sono molto presenti e quindi la rende più contemporanea, più attuale. Ho amato molto la prima stagione, mi ha divertito tanto, quindi appena me lo hanno proposto ho detto subito sì. Poi il mio personaggio, che sarei io, è veramente molto diverso da come sono davvero. Però ci sono degli aspetti che neanche mi sarei aspettato, nel senso che sono riusciti a scovare delle cose veramente inaspettate. Non so chi le abbia dette, dove gli sceneggiatori trovino queste informazioni. C'è tanta improvvisazione, soprattutto nella parte in cui faccio le prove del bad guy. A un certo punto c’era questa macchina che aveva l'apertura sopra. C'era il proprietario della macchina che ce l'affittava e gli ho chiesto se potevo mettere i piedi sopra la macchina. Quindi mi sono inventato questa cosa. La libertà è quasi totale, nel senso che interpretando te stesso diciamo che qualsiasi cosa esca l'hai detta tu. È bello secondo me mettersi in gioco nel rappresentare le proprie nevrosi, I propri punti forti ma anche quelli deboli".
Ci puoi raccontare qualche aneddoto del Claudio vero? Quello della vita reale nel suo ambiente di lavoro
"Per un film in Brasile ho chiesto di andare a lavorare in una fazenda per capire il lavoro che faceva il mio personaggio, quindi sono stato sbattuto in una fazenda per una settimana. Mi alzavo alle 4, andavo a mungere le vacche con l'altro ragazzo e andavamo a pascolare le vacche a cavallo. Non parlavo ancora il portoghese che ho imparato in quei giorni, comunicavamo a gesti mezzo spagnolo, mezzo italiano e ci capivamo. Queste sono le mie richieste che non sono capricci ma è quello che serve per il personaggio. Avere a disposizione dei materiali, delle situazioni, delle cose che mi possono essere utili per il lavoro. Sul set quello che chiedo è di dormire, magari nei cambi di scena. Se mi addormento e qualcuno e mi sveglia mi incazzo da morire".
E invece un ruolo che non hai preteso, ma insomma hai chiesto vorrei fare e non è stato possibile?
"Bob Marley. No, sto scherzando" (ride). "Non ho mai spinto per fare un ruolo per cui non credevo di essere giusto. Il mio primo film l'ho fatto con Marco Risi, che è L'ultimo Capodanno. Mi chiamò per parlare di Fortapàsc. Abbiamo fatto il provino, ci siamo guardati e abbiamo detto sai che c’è? Lavoreremo insieme la prossima volta, va bene così. Io non posso spingere per qualcosa che non sento".
Hai avuto un colpo di fulmine per un ruolo in cui appena hai letto l'inizio di una sceneggiatura hai detto lo voglio assolutamente fare?
"Lo chiamavano Jeeg Robot (on demand su Sky Cinema, ndr). L'ho letta tutta d’un fiato. Ho chiamato Gabriele Mainetti, super eccitato e gli ho detto dobbiamo fare questo film. Volevo farlo a tutti i costi. Lui mi ha detto ti devo fare il provino. Con Gabriele ci conosciamo dalla scuola di recitazione, quindi ci conosciamo veramente da 30 anni ormai e quindi pur conoscendomi ha voluto fare un provino. Ha fatto provini a tutta Roma, ho incontrato tanti attori che dicevano che avevano fatto il provino per Jeeg. Non si faceva più sentire. Sarà passato un mese forse, non ho più notizie. Nel frattempo incontro Ermano Olmi, che mi prende per il suo film. Gabriele poi mi chiama dopo qualche giorno. Gli dico, grazie per questa chiamata ma dopo così tanto tempo immagino che non faremo insieme questo film. Lui mi ha detto no, ti ho chiamato per dirti che ti ho preso. Silenzio. Lui dice ma non sei contento? Ho capito ma mi hai fatto aspettare tutto questo tempo e nel frattempo è arrivato Olmi e mi ha chiesto di fare il suo film. No ma come, Olmi aveva detto che non faceva più film. Ho insistito così tanto con Gabriele. Ho detto io devo fare questo film, lo puoi fare bene solo con me. Sono stato un po' coatto. Ho detto mi devi aspettare perché a Olmi non posso dire no perché è sempre stato il mio sogno lavorare con lui. Quindi mi ha aspettato e poi abbiamo fatto quel film".
Come ti sei preparato anche dal punto di vista fisico, perché sei diventato un paio di taglie in più. Ne è valsa la pena perché è arrivato il David di Donatello.
"Non mi entrava più niente, praticamente ho dovuto cambiare guardaroba. C'è stata una grossa preparazione fisica. Per Olmi dovendo interpretare un maggiore che sta nelle retrovie, che mangia ed è pasciuto, non c'era problema. Quelli in trincea invece erano tutti magri, scavati e quindi io potevo benissimo essere uno che mangia. Mi sono allenato tre mesi e mezzo con un allenatore personale. Sono arrivato ad alzare 110 kg di panca piana, che magari per un culturista esperto dici, vabbè capirai, però in tre mesi e mezzo ho preso 20 kg, sono arrivato a 100 kg mangiando cinque volte al giorno. Un corpo differente ti porta pensieri diversi. Hai proprio un'altra attitudine fisica e quindi che si porta dietro tutta una serie di modalità di muoverti e di pensare. Se hai un corpo lento hai il pensiero lento, se sei magro, sei scattante, sei più dinamico, anche il cervello è più attivo. Però era giusta questa corazza, Gabriele voleva che io avessi proprio una corazza e che però allo stesso tempo avessi quello che lui dice che mi contraddistingue, che è una mia trasparenza emotiva. Sono stato allo zoo tante volte a osservare gli orsi perché credevo che questo personaggio fosse un orso, uno che si rintana da solo e che mangia dei budini come fossero i barattoli di miele dell'orso. È proprio il desiderio di amare e di essere amato distorto attraverso gli zuccheri e la pornografia. Questa chiusura l'abbiamo anche pensata, ideata attraverso l'uso del linguaggio e della voce nel senso che Gabriele mi ha detto che dovevo scendere di tre ottave di voce. Ti aiuti attraverso un lavoro su un animale perché pensando a quell'animale, sentendoti quell'animale addosso cerchi di trovare quella voce. Cerchi di trovare una voce più scura, più bassa. Non è solo una cosa fisica ma è anche attitudinale nel senso che durante le improvvisazioni anche con Ilenia io dicevo adesso potresti uscire per favore? E Gabriele mi diceva ma uno che viene da Tor Bella Monaca dice così? Dice vattene, capito? Quindi è proprio la scorciatoia del linguaggio. Abbiamo fatto anche quel tipo di lavoro, sono entrato proprio in un'altra forma mentis e poi siamo andati anche a Tor Bella Monaca a incontrare delle persone, dei ragazzi che ci hanno dato un po' di delucidazioni. Per quanto io possa essere un ragazzo di strada, quella strada è proprio un'altra strada, nel senso che ha delle durezze che sono peculiari di quel quartiere. Insomma è stato un lavoro che mi ha coinvolto a 360 gradi, devo dire che è stato veramente uno dei lavori più completi e più soddisfacenti che ho affrontato".
Tu hai anche incontrato il papà di Jeeg Robot, ma anche di Mazinga e Ufo Robot, e cioè Go Nagai.
"Mamma mia, come incontrare Yoda di Guerre Stellari. L'abbiamo conosciuto al Romics, la mostra del fumetto che c'è a Roma. Lo abbiamo omaggiato cantando la canzone di Jeeg Robot in italiano. La versione ballad che ho creato io di notte durante le riprese. L'ho mandata a Gabriele e a lui è venuta dall'idea di metterla nei titoli di coda. L'abbiamo conosciuto. Lui non parla inglese quindi ci traducevano. Sapevamo che avremmo fatto una proiezione di Jeeg a Tokyo e l'abbiamo invitato così, senza nessuna speranza. Lui si è presentato con sua moglie e finita la proiezione è stato il primo a parlare perché c'erano le domande del pubblico. Ha preso il microfono e, in giapponese poi tradotto, ci ha detto mi sono divertito un sacco. Batteva le mani come un bambino alla sua veneranda età di non so quanti anni, è senza tempo, tra 70 e 80. Ha detto mi sono divertito un sacco, quando fate il secondo? Ci ha anche invitato a cena e ci ha portato dei regali, un libro con un disegno personalizzato e una maglietta di Devilman. È stato un incontro incredibile con un uomo dei sogni proprio".
Tornando sull’importanza della voce, hai doppiato Batman (interpretato da Christian Bale). Come sei arrivato a fare quel tipo di voce così profonda e sofferente?
"Questi sono i miei segreti, non è che ti posso dire tutto (ride). Devi stare molto cauto con la gola se no ti va via la voce e non devi sforzare troppo le corde vocali, ma le ho sforzate per quel doppiaggio. Devi aprire molto la gola, questo tecnicamente, abbassare molto. Il direttore del doppiaggio Marco Mete mi diceva ogni mattina, no no ritrova la bestia. Perché è una bestia, è una specie di animale. La sofferenza poi quella è del personaggio perché comunque io seguivo anche quello che mi dava l'attore Christian Bale sullo schermo. È una persona a cui hanno ucciso I genitori, costretta a nascondere la propria identità quindi lui è un supereroe al contrario perché lui è una maschera quando è Bruce Wayne, è Batman veramente. Fa il donnaiolo ma in realtà soffre dentro, è un uomo solo".
È vero che per aiutarti a trovare quella voce hai fatto anche le flessioni?
"Sì’. La parte fisica al doppiaggio si pensa che non esista, in quella lavorazione ce n'è tanta perché lui ha tante azioni fisiche e quindi tu devi entrare fisicamente in quello che vedi, si deve sentire la fisicità di quel personaggio. Perché è un mostro, una bestia, quindi ho fatto flessioni, ma ho fatto di tutto. Quando è sdraiato mezzo morente l'abbiamo fatto su un divano, mi sono sdraiato steso a terra per dare la voce. Mi ricordo durante Munich, la direttrice del doppiaggio Fiamma Izzo mi diceva, secondo me per questa scena devi fare 10 flessioni. Gianfranco Rosi era il supervisore al doppiaggio. Nella scena in cui mi portano via dall'Ambasciata Israeliana c'è tutto un monologo pazzesco. Mentre Eric Bana parla, quelli della sicurezza lo afferrano da dietro e lo portano via. Con Gianfranco ci siamo presi per le mani. Lui mi spingeva e io spingevo lui mentre parlavo. Il doppiaggio è un lavoro che mi piace molto. L'ultimo che ho fatto è Super Mario Bros. Super Mario è l'opposto di Batman come voce. Dovevo stare molto attento perché fare la voce scura quando c'è un po' di abbassamento va bene ma fare Super Mario, che è sempre entusiasta, devi avere la voce pulitissima e perfetta. Infatti giravo sempre con sciarpe e cose per la gola. La trilogia che ho fatto di Lego Movie e Lego Batman è stato il lavoro più divertente che abbia mai fatto al doppiaggio, forse in tutta la mia carriera. Il personaggio di Batman è un cazzaro, è Batman che fa Call My Agent. Fa il rapper. Nel secondo c’è tutto il rapporto con Joker, con Joker che è totalmente innamorato di Batman e vuole essere il suo nemico numero uno. Invece lui gli dice no è Superman il mio nemico. Ma Superman non è un cattivo. Beh diciamo che adesso non ce l'ho un cattivissimo, mi batto con tanti cattivi diversi. Sono dei capolavori quei film, divertentissimi".
È un momento bellissimo per il cinema italiano grazie a Paola Cortellesi e Matteo Garrone. Però tu hai fatto un James Bond visto tutto il mondo (Casino Royale). Ci racconti l'approccio di un attore italiano in questa realtà internazionale?
"Guarda all'inizio avevo molta paura perché quando sono arrivato sul set c'era una fila di camion interminabile. Vedi una macchina che non ha confronto, quello è un transatlantico e noi siamo una 500, siamo proprio due categorie diverse. Però dall'altra parte mi sono tranquillizzato molto perché non è che vieni preso e buttato lì così, ci sono molte prove per ogni cosa e hai molto tempo per girare. In quel tipo di industria è difficile fallire, fallisci se sei davvero un cane. Sono andato a Londra a fare un test con gli stuntmen, dovevano capire se ero in grado di guidare. Perché tutti gli attori dicono sì certo. Il deltaplano? Come no. Sai andare a cavallo con un piede e bendato? Certo, che ci vuole? E quindi loro mi hanno fatto un test di guida con una macchina, un furgone e un camion. Mi facevano dire adesso gira lì, vai lì, mi facevano proprio rischiare di andare a sbattere per vedere la prontezza di riflessi. Poi prova di combattimento per vedere come ti muovi sul combattimento".
Com’è stato il combattimento?
"Abbiamo provato per 15 giorni, io provavo con uno stuntman a Londra, in un aeroporto vicino a Londra, ma 15 giorni soltanto di prove. Facevo un'ora e mezza di prove al giorno, perché di più non assimili, diceva lo stuntman. Daniel Craig invece era a girare alle Bahamas e faceva le prove con uno stuntman che faceva me. Ho chiesto allo stuntman perché facciamo così tante prove e ha risposto perché vedrai che comunque nonostante queste prove vi farete male. Se non facciamo queste prove vi farete molto male, facendo queste prove vi fate meno male. Andiamo sul set e in effetti ci facciamo male perché non c'è più il camion fermo di giorno, con il sole. il camion è montato su una macchina di effetti speciali che lo fa traballare. Non c’è più il sole, è tutto buio. Hai un faro puntato e un ventilatore che ti spara l'aria in faccia quando il vetro si rompe. Quindi è tutto diverso e c'è la tensione della scena. Al primo ciak che giriamo, Daniel deve entrare dal vetro che è sfondato. Lo vedo che arriva mentre io faccio finta di guidare questo camion. Mi deve dare una gomitata e io devo tirare indietro la testa. La prima gomitata l’ho presa piena sul naso, vado indietro e sbatto la testa sul bullone che tiene ferma la cintura di sicurezza. Daniel allora mi dice Welcome to my world (benvenuto nel mio mondo). Sono sei mesi che vado avanti così, stai tranquillo, passerà presto. Mi sono sentito per la prima volta un lavoratore, ho capito l'importanza delle prove nel lavoro dello stuntman e questo me lo sono portato sul set di Jeeg. insistevo sempre con Gabriele Mainetti. Gli ho detto dobbiamo provare tutte le scene con Luca Marinelli e con gli altri attori, le dobbiamo provare centinaia di volte perché se no ci facciamo male. Gabriele mi ha ascoltato quindi abbiamo lavorato tantissimo con gli stuntmen".
Ripensando a quando eri ragazzino, e a che carattere avevi, e vedendoti oggi come uomo, il cinema quanto è stato fondamentale?
"Per me è stato fondamentale il mio lavoro, proprio come scuola. Per quanto io possa avere e abbia sempre avuto un animo anche socievole e solare però ho sempre avuto una timidezza che mi portava ad aprirmi solo quando conoscevo una persona, quando mi trovo a mio agio. Avevo difficoltà ad esprimere dei sentimenti più profondi e quindi la recitazione mi ha aiutato molto. Ho iniziato a 16 anni a fare una scuola di doppiaggio e recitazione, trovata sulle pagine gialle perché non conoscevo nessuno, non sapevo nulla di questo mondo. Mi interessava un po' il doppiaggio, perché sapevo imitare, mi piaceva giocare con la voce, ma senza essere visto. Ho fatto anche lezioni a teatro, questo corso non era solo doppiaggio in sala, si faceva anche teatro, con un insegnante che utilizzava il metodo Stanislavskij. Quindi si partiva dalle improvvisazioni prima di arrivare alla scena e dire le battute. Ho visto che mi piaceva tantissimo e mi divertivo tanto anche a tirare fuori sentimenti ed emozioni che non tiravo fuori normalmente come la rabbia o dolore e il pianto. Stanislavskij diceva una cosa importantissima. Un attore non si può guardare allo specchio, cioè non puoi provare le tue scene allo specchio perché tu non ti puoi vedere mentre agisci, mentre vivi. E questa è una riflessione che faccio sempre quando vedo molti video sui social. Quando faccio un video, cerco sempre di guardare l'obiettivo, e mai me stesso. Invece le persone spesso fanno e postano video di loro stessi mentre si guardano. Capisco che sia difficile perché tu non hai nessuno davanti, quindi chi guardi? Guardi te stesso. Ma questo è un gravissimo problema secondo me anche per chi fa questo mestiere in generale, per la nostra società e per i ragazzi ancora di più perché hanno delle menti ancora in formazione, quindi fragili, delicate. Anche per un attore capita di dare troppa attenzione a se stesso invece che all'altra persona. Il nostro è un mestiere di relazione. L'avvertimento ai giovani attori è guai a guardarvi perché sennò diventa solo un'autocelebrazione. Sono stato abbastanza apocalittico? Sono stato un po’ Giordano Bruno vero?"