Mr. Jones: un nome ordinario per una storia straordinaria

‘Mr. Jones’. Come da noi dire “il signor Rossi”. Solo in NBA, suggeriscono gli infiniti database USA, ce ne sono stati una sessantina . In un solo anno, il 1993, ‘Mr. Jones’ è stato un film e una canzone . È un nome ordinario, comune, quasi banale eppure, se ne si vuole fare una gara di popolarità, ‘Jones’ vince solo la medaglia di legno, perché resta ai piedi del podio dietro a ‘Smith’ , ‘Johnson’ e ‘Williams’. Come a dire: neppure straordinario nella sua ordinarietà. Eppure questi due termini assieme – ordinario e straordinario – raccontano al meglio la storia di uno dei tanti Jones che si è fatto conoscere con un pallone da basket in mano: Carlik Jones. Un’estate olimpica Di lui si è parlato parecchio durante quest’estate olimpica. È stato il playmaker titolare della nazionale del Sud Sudan, una delle storie più incredibili andata in scena sotto i Cinque Cerchi parigini vista la recentissima indipendenza , che lo rende il Paese più ‘giovane’ al mondo, solo tredici anni. Tre partite in tutto, chiuse con 18 punti e 5 rimbalzi di media, ma anche quasi 8 assist a partita – e una di queste gare più significativa delle altre, quella persa 103-86 contro gli ‘Avengers’ USA, la squadra di LeBron, Curry e Durant poi conquistatori dell’oro. Jones ha trattato le grandi superstar NBA come tutti gli altri, senza distinzioni né reverenza dopo che nell’ormai celebre amichevole londinese di metà luglio il n°4 delle ‘Bright Stars’ sud-sudanesi aveva addirittura messo a segno una tripla doppia: 15 punti, 11 assist, 11 rimbalzi. Suo in quell’occasione – dopo il canestro del +1 di LeBron James a 8 secondi dalla fine – anche l’ultimo tiro per battere lo squadrone USA, appoggiato al tabellone ma appena fuori misura. Vicino, vicinissimo al sogno, svanito per un nonnulla. Come quello NBA. Cosa vuol dire ‘cra-nio-si-no-sto-si’ La bellezza di dodici partite in tutto per tre squadre diverse – Dallas , Denver e Chicago . Possono sembrare poche, pochissime. Possono anche sembrare tante. Una carriera ordinaria, o forse no: straordinaria. Contando com’era iniziata non la carriera, ma la vita di Carlik Jones. Mamma Felicia Rosemond infatti si accorge subito che c’è qualcosa che non va nel suo bambino. La sua testa ha una forma strana, irregolare, e in ospedale uno scan lo conferma: craniosinostosi, la diagnosi. È un difetto congenito: il nostro cranio non è formato da un solo osso, ci sono delle bande di tessuto - chiamate suture - che uniscono le diverse ossa che lo compongono. Rimangono flessibili per molti anni dopo la nascita e si chiudono, indurendosi, man mano che il bambino cresce. Una volta chiuse, il cranio non può più espandersi, e alcune suture di Carlik Jones si erano chiuse troppo presto, in due parti, limitando così la capacità del cervello e del cranio di espandersi per raggiungere forma e dimensioni normali. Jones aveva solo due anni, ma le prospettive non sembravano incoraggianti: c’era il rischio di malformazioni permanenti, convulsioni e l’ipotesi di interventi chirurgici all’orizzonte, con la minaccia che il suo cervello potesse non funzionare come un cervello ‘normale’. “Quasi sicuramente, quando crescerà, non potrà svolgere attività fisiche con contatto”, avevano comunque sentenziato i medici. Seguono quasi tre anni avanti e indietro dagli ospedali, “tante preghiere”, ricorda mamma Felicia e almeno un controllo ogni sei mesi, finché – prima che Jones compia 5 anni – la bella notizia: nessuna limitazione ad alcuna attività fisica. Per un bambino come lui, iperattivo, è una liberazione. Gioca a tutto, infatti: baseball, calcio, perfino football americano . E gioca, ovviamente, anche a basket. Snobbato dai grandi college Carlik Jones è nato a Cincinnati e a Cincinnati cresce tifando Bengals , segnando canestri immaginari nel cortile dietro casa di sua nonna a Evanston e allenandosi, passando più tempo possibile con i suoi compagni di squadra: il pranzo da Skyline Chili , il gelato da United Dairy Farmers. Dopo un primo anno alla Purcell High School si trasferisce alla Aiken, dove diventa in fretta la stella della squadra, ma alla fine della sua terza stagione le offerte delle università più importanti continuano a scarseggiare. Per questo sceglie Radford, un college minore, prima ancora di un’annata da senior liceale oltre i 22 punti di media e una gara da 57 che sembra il preludio ai veri momenti di gloria. E invece la sua carriera si ferma, inaspettatamente. Manca la documentazione relativa a un corso di spagnolo frequentato nell’annata 2014-15 a Purcell, e senza quel voto a Radford non possono ammetterlo. Deve fermarsi un anno. Un anno senza giocare. Sembra una maledizione, è il contrario: “a blessing in disguise”, dicono negli Stati Uniti. Lui oggi conferma: “Una delle cose migliori che potesse accadermi”. Perché quell’anno ai box Jones lo usa per migliorare, diventare più grosso, forte, veloce. Il tifo da fuori è la sua pecca principale: anche quando gli sarà concesso di scendere in campo con gli Highlanders nei primi due anni di college tira il 28% da tre punti, percentuali pessime. Ma il lavoro non spaventa Jones. Si chiude in palestra: 300 tiri al giorno, poi 500, poi 750. Durante l’ultima annata a Radford si obbliga a tentarne 1.000 al giorno, e i risultati si vedono: sfiora il 41% dall’arco, chiude l’anno con 20 punti di media oltre a 5 assist e 5 rimbalzi, l’unico in tutta America a poter vantare queste cifre. E trascina i suoi al torneo NCAA, solo per la terza volta nella loro storia. Come? Con il canestro della vittoria allo scadere nella finale del torneo della Big South Conference. Così. Il tiro della vittoria proiettato in chiesa Il video di quel tiro – e l’intervista con ESPN subito seguente – vengono proiettati anche al termine della messa nella chiesa battista di mamma Felicia, davanti a oltre un centinaio di fedeli . “L’hanno davvero fatto vedere in chiesa?”. Neppure ‘Leek’ – come ama farsi chiamare - ci crede, ma quel che è chiaro è che a Jones Radford ora non basta più. Fa richiesta di trasferimento e finisce al primo posto del ranking dei giocatori che vogliono cambiare maglia. Sono 50 le scuole che stavolta lo vogliono, ma lui per l’ultima sua annata NCAA sceglie Louisville. Dove, alla fine di ogni settimana di allenamento, coach Mack premia con la ‘maglia d’oro’ chi si è impegnato di più. Nelle prime quattro settimane, quella maglia finisce sempre sulle spalle di Jones. Che con i Cardinals – è la stagione funestata dal Covid – finisce per giocare solo 19 partite, a quasi 17 di media, mettendone 25 sul campo di Duke e meritandosi l’inclusione nel primo quintetto della conference. Sceglie di dichiararsi per il Draft NBA 2021. Ma non viene scelto da nessuna squadra. Sette partite ai Bulls: ma a Chicago l’incontro decisivo con Luol Deng Ma Carlik Jones non è tipo da farsi abbattere. “Tutto posso in Cristo / che mi dà la forza”. Filippesi, 4:13. Sono le parole che si ripete ogni volta che va in lunetta. È la sua routine: “Tutto posso in Cristo / che mi dà la forza”. Poi tre palleggi. Poi il tiro. Guidato da questa forza, il suo esordio NBA arriva, due giorni prima del Natale 2021. Con la maglia dei Dallas Mavericks, contro Milwaukee. È solo un contratto da 10 giorni, ma è il sogno che si avvera. Ne arriverà un altro, sempre per 10 giorni, stavolta con i Denver Nuggets, prima di un contratto two-way con Chicago, e altre 7 partite NBA. Le ultime della sua carriera, per ora. Ma i Bulls sembrano essere nel suo destino. Con la squadra che fu di Michael Jordan gioca il tempo di un caffè, ma con quelli della G League – i Windy City Bulls – Jones dimostra a tutti il suo valore, e viene votato MVP della lega al termine della stagione 2022-23. Neppure questo premio, però, gli riapre le porte della NBA e allora all’orizzonte spuntano degli altri Bulls, i Golden Bulls di Zhejiang, in Cina. Perché girare il mondo, per inseguire un sogno, non è certo destino che spaventa Jones. Tanto che quando è a Chicago ascolta attentamente la proposta di un ex dei Bulls come Luol Deng, oggi presidente della federazione pallacanestro del Sud Sudan. Le regole FIBA permettono un giocatore naturalizzato per ogni squadra, a patto che abbia ottenuto il nuovo passaporto dopo aver compiuto i 16 anni di età. Ecco perché Joel Embiid, nato a Yaoundé e cittadino del Camerun, ha potuto mettersi al collo la medaglia d’oro con Team USA a Parigi 2024, dopo aver ottenuto la cittadinanza statunitense solo nel 2022, a 28 anni. Ecco perché, prima di lui, Lorenzo Brown, ha vinto l’oro agli Europei 2022 con la Spagna di Sergio Scariolo. Come per Brown, anche nelle vene di Carlik Jones scorre sangue a stelle-e-strisce al 100%, ma giocare da naturalizzato per il Sud Sudan gli apre uno scenario neppure immaginabile, e gli permette di vivere il sogno delle Olimpiadi dopo aver già disputato, da protagonista i Mondiali 2023, chiusi con tre vittorie, il 17° posto finale e un biglietto per Parigi. Carlik ‘Deng’ Jones Di africano lui, nato e cresciuto a Cincinnati, non ha nulla o quasi, e allora i suoi compagni di squadra in nazionale un modo per farlo sentire ‘a casa’ lo hanno trovato: nello spogliatoio delle Bright Stars Jones non è Carlik per nessuno. Lo chiamano Deng Jones, prendendo a prestito un nome di battesimo comunissimo in tutto il Sud Sudan, soprattutto tra i Dinka. Vuol dire ‘pioggia’, e viene spesso dato ai bambini nati durante i mesi piovosi, freddi e invernali. E Carlik ‘Deng’ Jones è nato il 23 dicembre 1997.

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