Sei Stati e un solo Drazen Petrovic: come sarebbero i suoi 60 anni senza quell'incidente

“Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito”. È una vecchia filastrocca, una filastrocca che i bambini di ieri mandavano a memoria in un Paese che oggi non esiste più. Alla Jugoslavia piaceva mostrarsi così al mondo. Siamo diversi, ma stiamo insieme e abitiamo nella stessa casa. E il padrone di casa era Josip Broz. La pallacanestro era strutturata più o meno nello stesso modo. Cambiava solo il finale. “Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Dražen”. Che oggi compirebbe sessant’anni. Chi sarebbe oggi Dražen Petrović? E cosa farebbe? L’allenatore? Il commentatore? Sarebbe diventato il presidente della Federbasket croata o del Cibona? Perché non un general manager nella NBA? Sicuramente avrebbe continuato a studiare il gioco della pallacanestro, cercando di essere il più bravo di tutti, il migliore. Come sempre. Di lui dicono che possedesse quel certo tratto di ossessività nei confronti della pallacanestro che in anni più recenti abbiamo ravvisato in Kobe Bryant. La ricerca continua del miglioramento, l’assenza di cedimenti, una competitività portata all’estremo – e probabilmente anche la difficoltà di riuscire a comprendere e accettare un atteggiamento nei confronti del gioco diverso dal suo. E a quanto si dice oggi quell’atteggiamento era di una limpidezza e di una semplicità uniche: la pallacanestro era la vita. E viceversa, probabilmente. Ma noi siamo venuti a conoscenza di tutto questo solo più tardi, molto più tardi. E saperlo non cambia la sostanza di ciò che pensavamo allora e non cambia più di tanto ciò che pensiamo oggi. Lo ammiravi e lo temevi. Un timore forse mitigato da quel senso di inevitabilità che lo accompagnava. Accadeva la stessa cosa agli avversari di Mike Tyson. Accettavano il loro destino. Un pugno ed era tutto finito. Magari arrivava anche in fretta, nel primo round. Con Dražen era peggio. No, non fisicamente, questo è fin troppo banale. Era peggio perché non gli bastava batterti, voleva annichilirti. Anche irriderti, se possibile. Più simile ad Alì, forse – volava come una farfalla e pungeva come un’ape. Interpretando tutte le parti della corrida; poteva essere banderillero, picador e ovviamente matador. Il toro mai, va da sé. No, non era simpatico. Sì, era un eccelso provocatore. Baldanzoso, sprezzante, pieno di una comprensibile e giustificabile alterigia. Sempre sul palco, pronto per un comizio, capopopolo per vocazione. La cosa paradossale era che finivi quasi per affezionarti a quel modo che era solo suo di farti così male, con grazia. Ondeggiava leggero, ondeggiava e segnava. Un palleggio in mezzo alle gambe, il passo d’incrocio, lo scatto del polso, sempre sotto controllo. La sensazione che il canestro o l’assist rappresentassero il naturale epilogo di ogni suo gesto. Ci aveva presi tutti in ostaggio. Se avesse giocato in serie A – che in quegli anni era la Premier League di oggi -qualcuno a Milano, Bologna o Roma le sue gare da 40, 50 o 60 punti se le sarebbe potute anche godere. Invece no. Ti faceva a pezzi con il Šibenka, il Cibona e il Real Madrid – a Caserta scuotono ancora il capo sospirando increduli, quando pensano a Petrović. E ovviamente si comportava nello stesso modo quando indossava la maglia della Nazionale. Se politicamente la Jugoslavia faceva parte del Movimento dei Paesi non allineati, cestisticamente i plavi di non allineato avevano ben poco. Anzi, erano schierati - e sempre dalla stessa parte. Quella della vittoria. Perché batterli era impossibile. In un certo senso amministrava la giustizia cestistica in modo equanime: per tutti c’era la stessa condanna. La sconfitta. Quasi speravamo che gli americani venissero a prenderselo e lo portassero via, un po’ perché così avremmo smesso di soffrire, ma soprattutto perché volevamo che tutti potessero rendersi conto davvero di quanto fosse forte, di quanto potesse essere persino più forte di loro. In quegli anni, gli anni ’80, quasi ogni cosa intorno a noi profumava d’America - anche se in America nessuno di noi ci aveva mai messo piede - ma Dražen ce l’avevamo solo noi. Sì, noi. Era jugoslavo e non italiano, ma lo avevamo visto nei nostri palazzetti così tante volte, ci aveva spaventato così tante volte, ci aveva battuto così tante volte che non si poteva non sperare che fosse in grado di andare a dare una lezione a tutti quanti anche dall’altra parte del mondo. È vero, quando noi e loro condividevamo lo stesso parquet tra il campo e le tribune a volte scorrevano anche astio e rancore, una sana rivalità sportiva e un malsano irredentismo nazionalista non del tutto sopito. Stare dalla parte di uno slavo era cosa non banale. Sì, c’erano delle differenze - le stesse che possono esserci tra due famiglie che abitano sullo stesso pianerottolo. Il muro che separava l’Italia dalla Jugoslavia era ideale e reale - anche lì, sul confine, tra Gorizia e Nova Gorica ce n’era uno che tagliava in due una città nel cuore dell’Europa, anche se non così celebre e tetro come quello di Berlino. Ma in fondo loro, gli slavi, non erano apparentemente impenetrabili come i sovietici e se non altro geograficamente erano a noi più vicini di cechi e ungheresi. Parlavano una lingua ostile, ma Dražen era nato a Sebenico, la Dalmazia era stata romana prima e veneziana poi e l’Adriatico che c’era lì era lo stesso che trovavi a Pesaro e Rimini. Su quella costa potevi persino andarci in vacanza. Lui era un po’ anche nostro. Per questo quando andò dall’altra parte, insieme a lui partimmo anche noi. Petrović riusciva a fare una cosa non così infrequente al di là dell’oceano e non così frequente dalle nostre parti: piegava il gioco alla sua volontà. Cosa avrebbe potuto impedirgli di farlo anche al Madison Square Garden o al Forum? Nulla, ne eravamo certi. Non subito, purtroppo. Sarebbe stato costretto a rendersene conto - e ce ne saremmo accorti anche noi. Lì nessuno tremava dalla paura al pensiero di affrontarlo, lì nessuno lo conosceva. Era solo un ragazzo dai riccioli neri arrivato da un Paese che pochi americani sarebbero stati capaci di riconoscere osservando un planisfero. Ed era da solo. Era Reinhold Messner che da solo sale sulla vetta dell’Everest, Charles Lindbergh che da solo compie la prima traversata dell’Atlantico, John Beeden che da solo su una barca a remi fa altrettanto con il Pacifico. Era solo, più solo degli altri europei – che erano pochi, anzi pochissimi. Era più solo degli altri perché era il più forte di tutti. Divac era volato a Los Angeles a 21 anni, Schrempf aveva frequentato il liceo e l’università negli Stati Uniti, Marčiulionis per tutti gli anni ’80 aveva giocato in Lituania nel semisconosciuto Statyba – il Rytas di oggi. Nessuno di loro aveva mai dominato l’Europa. L’unico a farlo davvero era stato Petrović. Lui aveva uno status diverso, aveva avuto il coraggio di puntare dritto su Capo Horn per affrontare le onde vere, quelle più alte e cattive. Sapeva di avere il dovere di farlo. Da migliore contro i migliori. Id quo maius cogitari nequit, diceva Sant’Anselmo, ciò di cui non si può pensare nulla di più grande. Se di pallacanestro si fosse occupato, la sua celebre prova l’avrebbe elaborata pensando a Dražen Petrović. Ma allora perché le cose non andavano come sarebbero dovute andare? Per quale motivo faceva così tanta fatica? Come era possibile che non si rendessero conto della sua grandezza? Per questo imparammo a detestare cordialmente Rick Adelman, l’allenatore dei Blazers, che poco lo faceva giocare e molto lo snobbava. Che Petrovic al primo anno nella NBA si ritrovasse alle spalle di Drexler e Porter nella gerarchia e nelle rotazioni di Portland era comprensibile, che finisse per giocare meno minuti di Danny Young lo era un po’ meno. Rivendicava un territorio. Il suo. Voleva cambiare il modo in cui gli americani avevano deciso di disegnarlo. E lo fece, con quel bisogno primigenio di arrivare in cima, quell’approccio fatto di affermazione di sé. Era come se stesse urlando non siete voi a decidere ciò che posso essere, ciò che sono e voglio essere lo decido io. Quel giorno arrivò e quel giorno anche loro si accorsero di lui. E quando accadde, c’eravamo anche noi – quelli che aveva cominciato a prendere a bastonate quando ancora non era maggiorenne. Adesso toccava anche a loro subire la stessa punizione. Duellava con Jordan, sfidava il Dream Team – ora orgogliosamente croato e non più jugoslavo. Finalmente ve ne siete accorti, vero? Lo pensammo tutti, perché noi già lo sapevamo, noi che lo avevamo odiato, noi che avevamo imparato ad amarlo. Un giorno di giugno del 1993 sulla Baviera cominciò a cadere una pioggia fitta e buia. Pioveva anche su Denkendorf, uno di quei luoghi senza significato il cui nome da quel giorno purtroppo nessuno sarebbe stato più in grado di dimenticare, come accade sempre con i nomi di tutti i luoghi senza significato dove accade qualcosa di terribile. Un secondo. L’ultimo della sua vita. Pioveva, ma tutti quei momenti non sarebbero andati perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. Nessuno di noi li avrebbe dimenticati. Noi quei momenti li avevamo vissuti insieme a lui. Noi li ricordiamo tutti.

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