Rottura del crociato, cosa dicono gli esperti: "Ecco perché ci si fa male"

Prendiamo in considerazione un numero. Anzi, due. 10 contro 7. Si tratta dei giocatori che hanno subìto la rottura del legamento crociato. I dieci sono quelli infortunati in questi quattro mesi ; i sette sono dell’anno scorso, cioè in dodici mesi. È un dato grave, gravissimo. Inquietante, sotto certi aspetti. Perché non solo le società, che hanno investito molto, si ritrovano con dei potenziali titolari in meno per quasi tutto un campionato. Ma gli stessi giocatori si vedono una stagione del tutto bloccata, con rischi per la carriera abbastanza evidenti. Giusto per ricordare: in Serie A nelle ultime due settimane si sono infortunati al crociato Bremer e Zapata. In Spagna, lo scorso weekend, è capitata la stessa cosa anche a Carvajal. Non può essere solo una coincidenza. E gli esperti lo confermano. “Il dato è importante, ma non è del tutto connesso al numero di partite che si giocano nell’arco di una stagione”, spiega a Sky Sport Insider Renato Misischi, ex medico del Torino, specializzato in chirurgia proprio del ginocchio. “Mi spiego meglio: più partite portano a più infortuni, ma solo per una questione statistica. Non c’è una diretta correlazione tra i due aspetti. A contare è senza dubbio la preparazione, perché rinforza la muscolatura e riduce il rischio di traumi articolatori. Ma qui a cambiare è proprio la richiesta che viene fatta al giocatore”. Esistono infatti, spiega Misischi, diversi modi per arrivare a un infortunio di questo tipo. “Quelli più frequenti sono due: il primo è da contatto, a seguito di uno scontro con un avversario; il secondo invece quando l’atleta tenta una torsione che risulti troppo forzata sul terreno. È un meccanismo del tutto autonomo che porta alla rottura del crociato. Si tratta di un infortunio immediatamente molto doloroso, che dopo mezz’ora già inizia a calare di intensità. È molto peggio la lesione del legamento collaterale. Il problema sono i tempi di recupero: dai sei agli otto mesi, per poter dire di essere del tutto guariti. Perché si tratta di una parte davvero molto delicata del ginocchio”. Breve parentesi. Gli interventi sono di diverso tipo: esiste il metodo Allograft oppure le ricostruzioni che prevedono l’impiego di parte del tendine rotuleo opuure dei tendini del quadricipite del paziente. Tutte tecniche molto avanzate ed efficaci, che permettono all’atleta di recuperare dall’infortunio, anche se in qualche modo la guarigione totale, al 100%, non arriva. Ci ritorneremo. Ma quindi se non sono le partite, cosa è cambiato? Secondo Misischi è “la richiesta ai calciatori. Questo calcio sta diventando sempre più veloce e fisico, si cerca un’esasperazione del gesto atletico associato a quello tecnico. E possono capitare questi traumi: basta una finta, un piede appoggiato male sul terreno. Per questo non ritengo che siano le troppe partite a influire. Anzi, spesso questi infortuni capitano in allenamento, dove l’intensità è altissima: per i giocatori il livello deve essere sempre alto, e durante la settimana è più facile che avvengano scontri di gioco, dal momento che non si tentano le simulazioni o delle finte particolari. Sono delle partite a tutti gli effetti, gli atleti sono già allenati sotto questo punto di vista”. E concorda anche Luigi Febbrari, fondatore dell’AIPAC e storico preparatore di Napoli e altri club, tra cui le nazionali. “Si organizzano congressi per capire meglio quale sia il problema”, conferma. “A mio parere si sta cercando di mettere un motore di una Ferrari dentro a una 500. L’esasperazione atletica porta a una pressione costante: il calcio è davvero cambiato, c’è una sollecitazione continua per le rincorse one to one. Si tiene poco conto se questa macchina sia pronta o meno per queste competizioni”. Quali le possibili soluzioni? “Io parto da un presupposto: il vecchio calcio aveva un’altra interpretazione della partita e non c’erano infatti questi presupposti. Non è una questione di nostalgia, sia chiaro, ma di metodi. Venendo a mancare la tecnica individuale, come evidenziano molti allenatori, diventa più semplice andare a cercare giocatori che sono certamente super allenati, ma anche molto impostati fisicamente. Di recente, noto come manchi il vero momento del recupero, che in realtà resta allenante. I giocatori vengono seguiti passo passo nella giornata, anche fuori dal campo. Viene fatta molta palestra, ma c’è meno tempo per recuperare”. A proposito della palestra, per Febbrari c’è un altro problema di fondo. “Bisognerebbe rispettare al meglio la biomeccanica degli atleti, prendendo in considerazione i lavori in palestra che abbiano un indice di correlazione molto alto rispetto ai movimenti che il calciatore deve compiere in campo. È necessario infatti stressare proprio quei movimenti affinché il giocatore si abitui ad accelerazioni, decelerazioni, cambi di direzioni brevi con tutte le metodiche conosciute e possibili. In questo modo, riesce a controllare meglio il tutto. Allenamento specifico, cioè prevenzione, e tempi di recupero che tengano in seria considerazione il carico di lavoro subìto dai giocatori: la direzione da prendere credo sia questa”. Anche perché c’è una statistica: il 44% degli atleti, rileva una ricerca condotta da Isokinetic, si fa male al crociato per movimenti ricollegabili a meccanismi tecnici e atletici non da contatto, un altro 44% per movimenti indotti da un contatto . Solo il 12% si fa male per un vero e proprio contrasto, e questo sembra confermare le sensazioni di cui sopra. “Che restano sensazioni”, racconta Rosario D’Onofrio, specializzato nel recupero degli atleti infortunati, membro dello staff medico del Napoli di Mazzarri e ora docente per il Dipartimento di Benessere, Nutrizione e Sport dell’Università telematica Pegaso. “Al momento facciamo fatica a trovare un vero e proprio perché: manca una bibliografia di consensus oggettiva. Di certo esiste un problema nei tempi di recupero, che spesso vengono accelerati per permettere al giocatore di tornare il prima possibile in campo. I chirurghi eseguono ormai operazioni di livello altissimo, ma c’è un rapporto che dice che solo il 55% degli atleti ritorna ai livelli di performance precedenti l’infortunio. Di fatto, se avviene una lesione del crociato a 18 anni, c’è il rischio che a 25 anni l’atleta vada incontro a una artrosi precoce che condizionerà la sua performance, perché più precoce è l’infortunio, più precoce è il degrado dell’ambiente articolare. Resto dell’idea che oltre alla prevenzione, vadano considerati meglio i tempi e le strategie legate al processo di ritorno allo sport. Le dinamiche del calcio sono cambiate, non possiamo non tenerne conto”. Il calcio cambia, la scienza si evolve. Di recente, sono stati avviati degli studi genetici che hanno confermato anche una predisposizione alla rottura del legamento crociato in alcuni atleti. Potrà aiutare, se perseguita, a prevenire infortuni così lunghi, dolorosi e anche pericolosi per la carriera dell’atleta. Resta poi un altro dato da non sottovalutare, quello degli infortuni complessivi. Al momento, tra traumi distorsivi e problemi muscolari, la Serie A conta settantasette giocatori in infermeria. Su un totale di poco più di cinquecento. Di fatto, quasi un quinto del parco calciatori dell’intero campionato è fermo, quando la stagione è cominciata da molto poco. E forse non è casuale che il calciomercato sia stato bloccato da esuberi che poi, a conti fatti, esuberi non sono. Rose extralarge, aumento dei costi ma tanti infortuni. Qualcosa da rivedere, probabilmente, c’è.

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