Storie di Champions: il Villarreal 2006 e quando el Mudo rimase in silenzio

El Mudo non parlava, non era necessario. Lui - Juan Roman Riquelme - lo faceva sul campo con dei passaggi dolci come la melassa, con l'intuizione geniale, col compasso montato sul piede destro. Quel giorno, quello di un aprile lontano, per parlare bastavano solo gli occhi - come diceva Al Pacino in Scarface: loro non mentono mai. Erano quelli scuri, intensi, crepuscolari di chi aveva appena trascinato a un passo dalla finale di Champions League un comune di circa cinquantamila abitanti, per dire, molto più piccolo di molti dei più grandi teatri europei. Poi aveva sbagliato il rigore della speranza, dell'andare oltre l'impossibile. Se acaba el sueño. Finisce il sogno, partito nel 1997: c'era solo Manuel Llaneza e una macchina da scrivere. Il sogno si chiama Villarreal. Due R nel nome della squadra e non in quello della città, che ne ha una sola e un trattino in mezzo: Vila-real, comunità Valenciana, accarezzata dal vento che arriva dal mare delle Baleari. Lo storico direttore generale Manuel Llaneza - insieme ad una vecchia macchina da scrivere - era l'unica cosa che trovò nel 1997 il presidente Fernando Roig, uomo tuttora in carica e deus ex machina che svolta la storia, comprando la squadra. Si presenta al mondo del pallone organizzando una conferenza stampa in un ristorante, l'Avenida 41; trova anche qualche debito, uno stadio da appena tremila posti e un piazzamento medio alto nel campionato di B spagnolo. Oggi lo stadio della Cerámica ospita venticinquemila tifosi, facili calcoli alla mano, significa che, quando è pieno, la città si svuota per metà. La scalata è costante, come nelle più belle e irreali partite di Football Manager. Prima, storica, promozione immediata, nel 1998, posto fisso in Liga e il sogno diventato realtà di affacciarsi al grande calcio europeo, un po' in punta di piedi come un bimbo non abbastanza alto per vedere cosa c'è oltre lo steccato. Nella magica stagione 2005/06 l'uomo al comando - inteso sulla panchina - risponde al nome di Manuel Pellegrini, el ingeniero, perché ingegnere civile lo è per davvero. Coerente coi propri studi, non filosofeggia ma fa calcoli, prende la matita appuntata dietro l'orecchio e scrive la formula matematica per una squadra rivelazione. Quadrata e precisa come la forma delle ceramiche cittadine , gli azulejos, il simbolo di Vila-Real. In quella squadra la punta è Diego Forlan, un rabdomante del gol. C'è un blocco argentino molto forte e c'è un giovane Santi Cazorla, ancora ignaro delle mille e uno peripezie di infortuni che lo trasformeranno in una sorta di calciatore-Frankenstein assemblato in laboratorio. C'è Marcos Senna a dirigere il gioco come un vigile con la paletta: centrocampista ieratico, solenne nel portamento e nelle giocate. C'è pure Alessio Tacchinardi in prestito dalla Juve. C'è tale Rodolfo Arruabarrena - un nome che sembra più cucito su uno stilista o per un cantante d'antan - ma che invece si rivelerà uno dei babàu dell'Inter di quegli anni: sua l'insolita firma che decide i quarti di finale di Champions di quell'anno. E poi, ovviamente, c'è Juan Roman Riquelme. Lo chiamano el Mudo perché lui non parla. È timido e riservato. È scappato dal Barcellona e dall'ostracismo di van Gaal e ora sta facendo grande il piccolo Villarreal, la piccola Vila-Real. "Dovendo andare da un punto A a un punto B, chiunque sceglierebbe un'autostrada a quattro corsie impiegando due ore — diceva di lui Valdano —. Chiunque tranne Riquelme, che ce ne metterebbe sei utilizzando una tortuosa strada panoramica, ma riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi". Uno, Juan Roman Riquelme, che fuori dalla Bombonera ha una statua a grandezza naturale, grande il doppio - tanto per dire - di quella di Maradona. Girone di Champions superato da imbattuti, fuori i Rangers agli ottavi e l'Inter ai quarti, appunto. In semifinale c'è l'Arsenal: la grande linea del tempo ferma a quell'andata londinese l'ultima volta dello storico Highbury in Champions League. La squadra del volpone Wenger è ancora quella degli Invincibles e, francamente, sfidare Thierry Henry in quegli anni è un po' come giocare alla roulette russa con tutti i colpi nel tamburo della pistola. Andata dei Gunners: 1-0, decide Kolo Touré. La Cerámica cerca il miracolo: il ritorno è infuocato. L'ingegnere Pellegrini ha scritto la formula anti-Arsenal, e funziona. Il sottomarino giallo - celebre soprannome preso in prestito e mai più abbandonato dalla cover beatlesiana-spagnola dei Los Mustangs - attacca alla giugulare. Pressa, crea, tira, sfiora pali e traverse. L'ex meteora del Milan Lehmann para tutto. Henry, diafano, praticamente non si vede. Il tempo è avversario crudele ma, a due minuti dalla fine della partita, quel José Mari passato da San Siro, senza lasciare grandi ricordi, si avvita su Clichy in piena area, lanciandosi su uno di quei palloni in cui non crede mai nessuno, se non un attaccante. Va giù e l'arbitro fischia, è rigore. La mappa del tesoro, magicamente, sembra ora avere una via precisa. Il Villarreal vincerà l'Europa League, succederà nel 2021 - riscattando una storia che sembrava uscita dal teatro dell'assurdo, aspettare Godot un po' come aspettare una vittoria, che non arriva mai. Succederà molti anni dopo quel rigore di Riquelme del 2006. L'idolo. La palla messa sul dischetto che parcheggia un camion di tensione nei volti degli spettatori, l’aria che si fa talmente gelida da coprirsi di brina, pur a fine aprile: Riquelme apre un destro incerto, poco angolato e a mezza altezza, Jens Lehmann va dalla parte giusta della porta e della storia. Niente supplementari: è il crudele punto di un'irreale cavalcata europea. El Mudo non dice niente, i suoi tifosi dicono tutto il resto, orgogliosi: gli applausi della gente di Vila-Real rimbombano alle spalle di una città vuota per metà. Alla Cerámica restano le parole che fanno da inno alla squadra: “La ilusió de tot un poble”, l'illusione di tutta una città. A pensarci bene, ha perfettamente senso.

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