Storie di Champions: Basile Boli, l'uomo che fermò Van Basten per l'ultima volta

“Ah, quindi è Lei il Boli di cui ho sentito tanto parlare…”. Questa frase tagliente e cortese pronunciata da Liesbet Van Capellevet, moglie di Marco Van Basten, nell’atto di tendere la mano a margine di una serata di gala nel Principato di Monaco, colpì Basile come una frustata. Gli sembrò un atto di accusa, un soffio capace di sollevare il velo di polvere pietosamente posato dal tempo sul suo senso di colpa. Lo aveva confessato in un’intervista: "Durante quella finale calpestai la caviglia di Marco. Era già malandata. Credo di avergli dato il colpo di grazia". Nessun giornale gli aveva attribuito responsabilità, all’indomani del trionfo del Marsiglia contro il Milan, il 26 maggio del 1993, nella prima finale della nuova Champions League all’Olympastadion di Monaco di Baviera. Del resto Van Basten era uscito sulle sue gambe all’86’, dopo una partita incolore, con l’umore a terra per una sconfitta inattesa e ormai inevitabile. Ma lui sì. Basile Boli, l’eroe di quella sera, aveva conservato nell’anima la terribile sensazione di aver chiuso la carriera del 'Cigno di Utrecht', come un insopportabile tributo all’eterna gioia di aver portato la coppa dalle grandi orecchie per la prima volta in terra di Francia. Lui, il ragazzone di Abidjan emigrato a Parigi a 13 anni seguendo il padre, militare ivoriano dei Tirailleurs sénégalais, corpo di fanteria coloniale dell’esercito francese. Lui, che all’interno della sua corposa falange familiare, poteva contare sull’amorosa attenzione di Roger, fratello maggiore e talentuoso attaccante finito precocemente nei radar di Guy Roux, che dell’Auxerre non era solo allenatore, ma anche padre ispiratore di una filosofia calcistica e comportamentale. Roger fu inamovibile: "All’Auxerre non vengo se non prendete anche mio fratello Basile". Ed eccolo là, a correre e saltare su un vero campo di calcio, l’unica alternativa alla carriera militare che altri suoi fratelli avevano già abbracciato. E pronto a sfidare schemi, pregiudizi, verità precostituite. Dopo 8 anni all’Auxerre senza vincere nulla, se non la convocazione in Nazionale, lo chiamò Bernard Tapie, il ricchissimo e spregiudicato presidente del Marsiglia. Un colloquio surreale: "Basile, il tuo modo di giocare a me non piace per nulla. In più qui a Marsiglia ti odiano tutti. Però il mio capitano mi ha detto che se voglio vincere in Europa devo comprarti". Come si risponde a un invito di questo tenore? Boli non ebbe esitazioni: “D’accordo vengo, presidente”. Lo sconsigliarono tutti, facendogli presente la sua antica simpatia per il Psg, i riflessi razzisti della città che domina la costa, laggiù, sul Mediterraneo, e il curioso oltre che inaccettabile tono di quella richiesta presidenziale. Ma niente. Boli a Marsiglia voleva andare. E ci andò. Fu accolto da scritte vergognose e lo stesso Tapie non disdegnò di definirlo a più riprese, in privato e in pubblico “la scimmia dai piedi quadrati”. Che però alzò il muro della difesa. Che però, con l’aiuto di Papin, perfezionò i fondamentali fermandosi costantemente dopo l’allenamento per calciare migliaia di volte contro un muro. Che però vinse due titoli francesi, nel ’91 e nel ’92. Ma non fu quella l’epifania del suo riscatto. In quella prima finale di Champions si presentò in campo con una fitta insopportabile al ginocchio. Acciaccato. Come Marco. Van Basten era titolare, nel Milan di Capello. Ma era rientrato da poco più di due settimane, dopo mesi di calvario. Quella stagione era cominciata trionfalmente: 12 gol nelle prime 9 giornate, quel poker rifilato al Goteborg impreziosito dalla gemma in rovesciata, il Pallone d’Oro alzato al cielo al centro di uno stadio innamorato e orgoglioso. Ma la sosta invernale lo convinse a fermarsi per 'ripulire' la caviglia con un intervento chirurgico. Gli faceva male da anni, quell’articolazione. Un dolore latente e sottile durante le partite, lancinante e deflagrante il giorno successivo ad ogni match. Tanto da averlo costretto ad enfatizzare quella postura elegante, da danzatore classico, che però per lui significava solo contenimento della sofferenza. Eppure quella stessa sofferenza non ne aveva mai scalfito la classe, la potenza, il genio. Anzi, sembrava che quelle doti divine fossero proprio costruite sul tormento, paradigma della bellezza che poggia le sue fondamenta sul supplizio. Quasi a citare la leopardiana natura matrigna, capace di offrire un’apparenza paradisiaca nel quadro generale, ma priva di scrupoli nell’immagine del particolare. E così il giardino “ridente” e lussurioso al primo generico sguardo, tradisce tutte le afflizioni della natura quando si guardano i singoli fiori che lo compongono: di là insetti a succhiarne la vita, di qui il sole ad avvizzirne le delicate essenze. Ad ogni opera d’arte calcistica, Van Basten subiva il riverbero del male. Lo stop, che avrebbe dovuto essere di 3 settimane, si trasformò in una via crucis che restituì al calcio il suo campione più angelico solo il 9 maggio, ad Ancona. Nuovo esordio ed ennesimo gol. Sarebbe stato l’ultimo di una carriera favolosa ed effimera. A Roma una settimana più tardi Capello si convinse che Marco avrebbe potuto giocare la Finale e così lo mise nell’undici iniziale di una partita che il Milan affrontava da favorito. Papin era in panchina, da grande ex, a guardare anche l’amico Basile. Gullit addirittura in tribuna, a consumare la frattura definitiva col suo allenatore. Marco per la prima volta nella sua vita si sottopose a un’infiltrazione, per narcotizzare la caviglia e le urla del suo dolore. Ma dovette affrontare il disorientamento di giocare senza 'sentirla'. Non percepì nemmeno quel pestone di Boli, forse nemmeno se ne accorse. Basile invece il dolore lo sentiva, forte, intenso. Il ginocchio era disperante, tanto che al 40’ del primo tempo chiese il cambio. Dalla panchina furono chiarissimi "Tapie non vuole che tu esca. Gioca!". Boli rischiò di esplodere per la rabbia, come un vaso colmo di sopportazione che non può contenere le ingiustizie più dolenti. Ma fu Voeller, messaggero dell’Olimpo, a cauterizzarne la ferita: “Basile, tieni duro, fallo per noi. Tutti i tuoi compagni contano su di te, per noi sei fondamentale se vogliamo respingere gli attacchi di una corazzata come il Milan”. L’uragano dell’anima si placò in un secondo, Boli respirò la brezza dell’affetto, abbassò la testa, sospirò. E restò. Non più di 3 minuti più tardi il Marsiglia conquistò un calcio d’angolo, probabilmente generoso. Abedì Pelè gli passò accanto e gli disse: "Stavolta non sul secondo palo, Basile. Vieni sul primo". I due si guardarono a lungo, uno sulla bandierina, l’altro in mezzo alle colonne rossonere. L’esultanza dopo quel colpo di testa è probabilmente l’immagine simbolo dell’imperscrutabile che si diverte a emergere tra le pieghe della realtà. Come l’immagine di Marco che esce dal campo: prima sostituzione subìta con Capello, ultima partita della carriera. Da quel giorno il calvario divenne incubo, fino al ritiro annunciato con poche, gelide parole due anni più tardi. L’alfa che si fonde nell’omega: la prima vittoria di una squadra francese grazie al primo gol di un giocatore nato in Costa d’Avorio nella prima edizione della Champions League. L’ultima apparizione e l’ultima finale di un genio del calcio che a testa bassa lascia il campo dove aveva segnato uno dei gol più belli della storia: Olanda-URSS, Finale degli Europei 1988. E la storia, in quella notte di maggio 1993 si ricordò di Boli, creando e regalandogli il momento eterno. Il Marsiglia fu ricevuto da Francois Mitterand, fiero di rendere omaggio alla prima vittoria transalpina nella più prestigiosa competizione calcistica europea. E quando il presidente morì, nel 1996, Boli fu chiamato a presenziare all’esposizione della salma. Andò a prenderlo un autista che, arrivato all’Eliseo, scese in fretta, aprì lo sportello a Basile e disse solo: “26 maggio 1993. Merci”. "Sì, sono io quel Boli di cui ha sentito tanto parlare. Piacere mio. Suo marito è stato un gigante". Il calore di un sorriso a illuminare la scena e a sciogliere la tensione. Un abbraccio tra due uomini che quella notte incarnarono l’alfa e l’omega. Un incontro che disegna i contorni eterni della storia mostrando la gioia fondata sul dolore e il dolore fondato sulla gioia.