Gary Shaw e il mistero Aston Villa

Ragazzo di Solihull, periferia di Birmingham, tifoso dell’Aston Villa che lo accoglie bambino nel settore giovanile e a diciotto anni lo lancia in prima squadra. Pettinato come i Beatles, capelli biondi che, assicurava il barone Niels Liedholm, aiutano a farsi vedere di più, ma nel caso di Gary, ruolo attaccante, è il suo talento a farsi notare. E’ lui a trascinare l’Aston Villa ai venti mesi più folli nella storia di una squadra. Club storico, tra i fondatori della Football League, la squadra di Birmingham dopo i trionfi tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo aveva smesso non solo di vincere ma pure di essere protagonista. A parte una Fa Cup nel 1957, il resto era una serie di record al contrario: come le 110 reti al passivo per la prima storica retrocessione in seconda divisione del 1936. Al campionato cadetto i supporter dei Villans avrebbero fatto l’abitudine, al punto che quando nel 1975 Ron Saunders dalla panchina riportò i ‘Claret and Blues’ nella massima serie c’erano già buoni motivi per far festa. Dignitosi piazzamenti, poi l’arrivo del bimbo Gary Shaw e il mistero di venti mesi al vertice del football inglese ed europeo. Perché in squadra, a parte il ragazzo di Solihull, ci sono buoni giocatori ma nessun fenomeno. Il migliore è il centrocampista è Gordon Cowans, poi ammirato in Italia anche al Bari. Il centravanti è Peter Withe, arrivato a 29 anni dopo una carriera discreta e nulla più con Nottingham Forest e Newcastle, all’ala c’è Tony Morley, pescato nel Burnley senza aver mai giocato nella massima serie. Capitano Dennis Mortimer, simbolico per la sua fedeltà al club, non certo per la classe. Occhio alla difesa, con in porta Jimmy Rimmer. Tra i pali debutta con l’Inghilterra contro l’Italia: incassa due reti banali nel primo tempo, lo sostituiscono, i bianchi vincono 3-2 e lui non vedrà mai più la nazionale. Non va meglio con i quattro difensori davanti a lui, il più famoso dei quali è un certo Allan Evans, la miseria di 4 presenze con la Scozia. Squadra buona, appunto, per piazzamenti discreti, come il settimo con cui finiscono la stagione 1979-80. Poi, senza spiegazioni tecniche, la banda di simpatici gregari comincia a vincere tutto, a cominciare dal titolo la stagione seguente. Quattordici giocatori appena, le geometrie di Cowans a centrocampo, la leadership di Mortimer, i gol di White capocannoniere del torneo con Steve Archibald del Tottenham, gli assist di Morley che segna pure all’Everton la rete giudicata la più bella del campionato, Rimmer che para tutto e la difesa che lo protegge. Ma, su tutti, Gary Shaw, l’eroe locale, eletto miglior giovane del campionato. Finita? Manco per idea. L’anno dopo c’è la Coppa Campioni e per i bookmaker la strada dei Villans sarà decisamente breve, a maggior ragione dopo che all’improvviso Saunders litiga con la dirigenza e molla la squadra. Affidano la panchina al suo vice, Tony Barton, e in Europa i giocatori si esaltano, specie l’improbabile difesa che in tutto il torneo incassa la miseria di due gol. In finale, allo stadio De Kuip di Rotterdam, di fronte c’è il Bayern Monaco. I pronostici dicono che la coppa è già in Baviera, anche perché dopo pochi minuti Rimmer si infortuna e deve entrare la riserva Nigel Spink, che da titolare giocava al massimo nella partitella del giovedì. Invece quello para tutto e a metà ripresa, su cross del solito Morley, Withe tocca il pallone quel tanto che basta per mandarlo in rete e spedire il trofeo al Villa Park. Qualche mese e pure il Barcellona cade vittima delle simpatiche canaglie di Birmingham nella finale della Supercoppa. Shaw vince il Bravo, prestigioso trofeo messo in palio dal Guerin Sportivo come miglior giovane europeo. Ha 22 anni e una carriera davanti, ma quello che sembra l’inizio, per lui e l’Aston Villa, è già la fine. Dopo venti mesi di risultati pazzeschi la squadra torna nella mediocrità da cui era emersa, splendida meteora di inizio anni ’80. A Gary va pure peggio: in un pomeriggio di un giorno da cani al City Ground, nel match con il Nottingham Forest, subisce un duro tackle da Ian Bowyer. A rialzarlo è lo stesso avversario, ma lui non si regge in piedi: “Ho sentito qualcosa che scattava nel ginocchio”, dirà. Gary esce dalla partita e in pratica dal calcio. L’Aston Villa gli concede altre cinque stagioni, più per riconoscenza che per rendimento. Va al Blackpool, poi in Danimarca e Austria per finire la carriera ad Hong Kong. Tornerà ai Villans come allenatore del settore giovanile, a insegnare ai giovani quei movimenti straordinari che lui aveva avuto troppo poco tempo per mostrare in campo. Era salito prestissimo sulla collina della gloria, prima che il destino lo spingesse a camminare sul lato selvaggio della strada. La canzone di Lou Reed sarebbe la colonna sonora ideale per la triste parabola di Gary, una carriera troppo corta dentro ai venti mesi della misteriosa meteora Aston Villa.

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