Daniel Maldini, Paolo e quel van di famiglia carico di emozioni

Questa non è una storia come tante altre. Perché se porti il cognome Maldini, non può mai esserla. Eppure, Daniel è di ghiaccio. Proprio come suo papà Paolo. Proprio come suo nonno Cesare. Una dinastia di precursori, di quelli che sanno che le emozioni si vivono dentro, ma forse non sempre puoi farle trasmettere fuori. Nel racconto di Italia-Israele, partita di Nations League giocata a Udine, di emozione ce ne era tantissima. Così tanta da poter dire a chi l’ha assistita dal vivo o in televisione una frase che riassume tutto: “Io c’ero”. E c’erano proprio tutti. C’erano i tifosi, che aspettavano di vedere un altro Maldini con la maglia della Nazionale. C’erano i giornalisti, incuriositi sul come raccontare questo momento che in qualche modo diventa storico. E c’erano soprattutto loro: papà Paolo, mamma Adriana e il fratello Christian. Inseparabili. Quasi di un’altra epoca. Perché fa effetto vederli arrivare su un Van che da Milano li ha portati a Udine. Proprio in quella Udine che nell’85 vide esordire Paolo Maldini con la maglia del Milan . Perché fa effetto vederli dopo che già erano venuti a Roma la settimana prima, sempre per sostenere il figlio che però in campo non era sceso. Perché fa effetto, soprattutto, vedere la mamma di Daniel con il cellulare a filmare l’ingresso in campo del figlio. Una cosa che si vede di solito nei campi di periferia. Non in mondovisione, quando sai che l’ingresso in campo verrà ripreso in alta definizione da decine di telecamere. In quell’artigianalità del video si racchiude tutta l’emozione che, in generale, la famiglia Maldini non trasmette. Bastava vedere Paolo per capirlo: occhi di ghiaccio, come sempre. Il cuore si sarà scaldato, ma non l’ha fatto vedere. Non l’ha mai fatto vedere. Non era successo nemmeno a Roma, la settimana prima: la famiglia Maldini era arrivata e al piazzale antistante l’Olimpico c’era chiunque ad accoglierli. Ad accogliere Paolo come la leggenda che è. C’erano alcuni suoi vecchi compagni di Nazionale e c’era anche Gravina: tutti a salutarlo con quel rispetto che si deve a un grande. Ma lui era lì solo per il figlio, una presenza costante ma silenziosa, da padre che sa cosa vuol dire quel momento. Così tanto silenziosa da demandare alla madre tutti i complimenti. Già, la madre. Adriana chiama Daniel ‘pajarito’, che in venezuelano vuol dire ‘passerotto’. Lo fa da sempre e basta vedere il suo Instagram: non c’è compleanno o momento sportivo che non celebri così. Lei è la parte affettuosa , Paolo invece è più freddo, ma non ha mai smesso di consigliare a Daniel di avere quella costanza necessaria per raggiungere i successi. “Il talento, che hai, non basta mai. Devi sempre allenarti al meglio, devi spingere”, il riassunto delle tante conversazioni avute negli anni. Che hanno fatto effetto. E ora eccolo, Daniel. Tre anni dopo il suo primo gol in Serie A con la maglia del Milan contro lo Spezia; due anni dopo quello, incredibile ma vero, con la maglia dello Spezia contro il ‘suo’ Milan, o contro l’Inter. Eccolo dopo una stagione al Monza in cui ha giocato con più regolarità e un inizio di campionato che, sempre in Brianza, lo sta vedendo protagonista. Gli è servito anche per scrollarsi di dosso quel cognome così ingombrante che si porta dietro sin dalla nascita. Come quando era nelle giovanili: se faceva bene lo si dava per scontato, perché era il figlio di Paolo; se faceva male era etichettato come raccomandato sempre perché era il figlio di Paolo. Ora è semplicemente Daniel, figlio di Paolo e nipote di Cesare, che prima di lui hanno indossato la maglia della Nazionale e quella del Milan, la squadra nella quale quest’estate in ritiro non aveva fatto male, ma che non gli garantiva lo spazio di cui aveva bisogno. E in qualche modo anche Spalletti lo ha confermato: “A Daniel serviva continuità, ora deve continuare a crescere”. Sembra quasi un’eco lontana di ciò che papà Paolo gli ha detto in tutto questo tempo. Per lui la cultura del lavoro è tutto, e se non avesse lavorato così tanto, quell’esordio nell’85, proprio in quello stesso stadio di Udine, forse non sarebbe mai avvenuto. Se lo ricordava ancora come se fosse ieri: era stato schierato come terzino destro, in un campo ben lontano dalle condizioni ottime in cui versa ora il Bluenergy Stadium. Altri tempi, ma stessa tempra: emozioni che ti porti dentro e che cerchi di far vedere poco. Anche Daniel ha fatto così: ha dedicato l’esordio alla sua famiglia e “a chi mi vuole bene”. E, di sicuro, a lui vogliono bene Tonali, Donnarumma, Gabbia: i compagni con cui in Nazionale sembra aver legato di più, guarda caso proprio figli di quell’ambiente Milan che gli è rimasto addosso. Ma torniamo a quelle dediche: asciutte, ponderate. Niente di più. Pochi titoli, molto lavoro in campo. E ora sa di non essere più un ragazzo con il cognome pesante, ma il terzo Maldini a poter far parlare di sé in campo. Il fratello Christian, che ora fa l’agente, ha capito da tempo che il mestiere del giocatore non sarebbe stato il suo. E così ha lasciato l’onere e l’onore dell’eredità a Daniel. Il terzo Maldini, appunto. Come quel 3 che a fianco a questo cognome ha sempre significato tanto. E in quel Van delle emozioni che ha portato tutta la famiglia a Udine, c’era tutto questo percorso fatto insieme. Una gioia che per scelta non trasmettono. Ma che si terranno per sempre.