Leeds-Liverpool, Charity Shield 1974: calcio e basta, nel bene e nel male

L’inglese medio dell’agosto 1974 non era pronto a vedere due calciatori che uscivano dal venerabile prato di Wembley a torso nudo, gesticolando e imprecando. Non era pronto ad essere proiettato così rapidamente e bruscamente nella nuova stagione di calcio, che partiva quel 10 agosto proprio come ora, 50 anni dopo. Si chiamava Charity Shield e si chiama ora Community Shield, si giocava per la prima volta a Wembley, il vecchio Wembley, e rappresentava qualcosa di più significativo, pesante ed epocale rispetto a oggi, perché veniva dopo quasi due mesi di oblio pressoché totale. Sì, c’erano stati i Mondiali, ma l’Inghilterra non si era qualificata e la presenza mediatica era stata molto inferiore al solito. Per il resto, come sempre, il calcio una volta terminati i campionati e il torneo interbritannico, quello che comprendeva anche Irlanda del Nord, Galles e Scozia, scompariva dai quotidiani nazionali, per lasciare spazio a tennis, cricket, rugby, ippica, canottaggio, atletica. Gli sport placidi della primavera e dell’estate, che anche quando combattuti allo strenuo lasciavano la percezione di una grazia e di una signorilità di altri tempi espresse, nelle dirette televisive, nei lunghi silenzi, negli applausi composti rotti solo saltuariamente da esultanze inoffensive, tutta roba che confortava la certezze dell’inglese medio. Che esisteva, altroché, e non era un prodotto dello stereotipo ma di una realtà che dopo la Seconda Guerra Mondiale era diventata consolidata e diffusa: se era nato negli anni Trenta, quella guerra l’aveva conosciuta e capita, e se era nato poco dopo l’aveva vissuta nei racconti dei genitori e nelle risposte serie a domande ingenue, ad esempio come mai la cioccolata finisse subito e non se ne potesse avere altra, conseguenza del razionamento alimentare introdotto a inizio conflitto e durato, per alcuni generi alimentari, fino al 1954. Con conseguenze sul morale, sul fisico, sulle prospettive di vita. Le difficoltà di chi aveva vinto la guerra ma pagato un prezzo enorme avevano segnato a lungo due generazioni, ma avevano anche insegnato loro che si poteva sopravvivere a tutto e perpetuato l’idea di una collocazione etica speciale del Regno Unito nel panorama mondiale, una collocazione tanto più necessaria in quanto non ne esisteva più una politica e cominciava a mostrare falle quella economica, con crisi, scioperi e inflazione, termine che fino a quel momento si pensava valesse solo per nazioni sottosviluppate: nelle parole dell’ex Segretario di Stato americano Dan Acheson, “la Gran Bretagna aveva perso un Impero e non aveva ancora trovato un nuovo ruolo”. In realtà c’erano stati gli anni Sessanta della musica, della moda, dei primi movimenti giovanili in cui la musica stessa, la voglia di respirare e la ribellione, in chi quei momenti di stoica resistenza alle privazioni li considerava un peso e non un orgoglio, avevano creato agli occhi del mondo un altro immaginario britannico che quel mondo faticava ad accettare, come dimostrò l’implacabile e memorabile ‘Fumo di Londra’, in cui un provinciale italiano, incarnato da Alberto Sordi, va lassù per cercare una certa Inghilterra e la trova proprio in quella fase di destabilizzante trasformazione. Insomma, un minestrone di ingredienti complessi da riassumere, e che sul piano calcistico avevano trovato sfogo nell’inizio di un decennio di cinismo sul campo e fuori: svanita l’euforia per il successo mondiale del 1966, finito male l’ultimo lampo a Messico '70 con la rimonta subita dai tedeschi, Alf Ramsey aveva perso il posto di Ct a maggio, pochi mesi dopo la mancata qualificazione a Germania '74, nella famosa serata di Wembley in cui il polacco Jan Tomaszewski parò tutto. Gli anni Settanta furono il periodo in cui il calcio inglese espresse in maniera più forte e carnale le sue tendenze, positive e negative: la praticità, a scapito spesso della bellezza, fattore accentuato dall’addio al Manchester United di George Best, l’intensità emotiva di partite innaffiate di continuo da canti e frastuono, l’estetica brutale ma identitaria di stadi che presto sarebbero diventati un esempio negativo ma potevano ancora permettersi di splendere di ruvida luce propria. Era già forte, da anni, la preoccupazione per il fenomeno degli hooligans, e a peggiorare la situazione c’era stata, ad aprile, la retrocessione del Manchester United in seconda divisione: da metà agosto in poi le legioni di suoi tifosi, molti dei quali già tristemente noti, avrebbero imperversato in campi e città non abituate a certe ondate, e presto ci sarebbe stata la prima morte direttamente attribuibile ufficialmente, nel rapporto di polizia, a violenza calcistica, quella di un 17enne, Kevin Olsson, pugnalato a Blackpool dai tifosi del Bolton. E allora il calcio piaceva, e piaceva tanto, ma cominciava anche a preoccupare per i risvolti sociali che in esso si riversavano e che da esso si diffondevano. L’inglese medio era in apprensione, sì, e si consolava con quei placidi sport estivi, incuriosito però per la ripresa della stagione. Charity Shield, appunto per la prima volta a Wembley, inizio alle 15 ma non telecronaca diretta, come è stato spesso erroneamente riportato, ma il collegamento iniziale durante un altro dei rassicuranti caposaldi della tradizione britannica, il contenitore del sabato pomeriggio del primo canale chiamato Grandstand, punto di riferimento come da noi era Sabato Sport. La scaletta del 10 agosto prevedeva appunto un accenno al calcio e al campionato in partenza sette giorni dopo, ippica a varie riprese, golf, cricket, atletica e riassunto finale, mentre la sintesi lunga del Charity Shield sarebbe andata in onda dalle 22.15 sotto l’etichetta Match of the Day, programma già entrato nella tradizione televisiva e sportiva inglese. E non era una partita qualunque, in quel 1974 che non fu un anno qualunque: perché la squadra che aveva vinto il campionato era il Leeds United e quella che aveva vinto la coppa era il Liverpool. Entrambe avevano perso da poco gli allenatori che le avevano condotte a quelle vittorie: Don Revie aveva presto sostituito Ramsey in nazionale mentre all’improvviso, il 12 luglio, Bill Shankly aveva lasciato la panchina dei Reds. Una decisione sconvolgente, una delle poche notizie di stampo calcistico che avesse trovato spazio nei quotidiani nazionali: già tentato di farlo in precedenza, Shankly, 60 anni, aveva mollato dalla sera alla mattina designando di fatto alla successione il suo assistente Bob Paisley, che non ne voleva sapere e aveva addirittura supplicato in ginocchio e a mani giunte il suo boss di cambiare idea. E se la transizione a Liverpool era parsa comunque morbida, a Leeds era successo di tutto, storia nota anche per la trasposizione cinematografica del romanzo sensazionalistico Il maledetto United: a sostituire Revie era infatti stato chiamato solo a fine luglio Brian Clough, suo principale avversario tecnico, dialettico e apparentemente etico, un cambiamento disastroso nei metodi e nei fatti la cui entità piena, però, quel pomeriggio a Wembley non era ancora nota se non a un ristretto gruppo di persone. Fu surreale veder uscire dal tunnel, che a Wembley era situato sotto la ‘curva’ dal lato destro rispetto alla visuale delle telecamere, Clough in testa alla fila di giocatori del Leeds e… Shankly, scuro in volto, a quella del Liverpool. Paisley, che piu tardi avrebbe dolorosamente dovuto chiedergli di non farsi più vedere al campo di allenamento, dove andava per nostalgia e rimorso, aveva infatti concesso al suo ex capo di salutare così i tifosi, e Shankly si accomodò anche in panchina, letteralmente a fianco di Clough. In campo, poi, il Leeds, che dal suo nuovo allenatore, presente in tribuna, era stato accusato di aver giocato e vinto in maniera sporca e disonesta, fece di tutto per dargli ragione, ma il Liverpool non fu da meno. E dire che Paisley, che nella sua ruvidezza estetica e dialettica aveva comunque un notevole fiuto, aveva detto ai suoi più o meno “ci sono Clough in panchina e Revie in tribuna, noi abbiamo Shanks, sicuramente dal punto di vista emotivo questa è una partita che non sarebbe stato opportuno giocare, per cui fate così, prendetela con leggerezza, passatevi la palla e pensate a divertirvi”. Nelle prime battute duro contrasto dell’attaccante Allan Clarke sul difensore avversario Phil Thompson, e nel resto della gara, inframmezzata dal vantaggio del Liverpool e dal pareggio, al 70’, del Leeds, una lunga serie di scontri e litigi, entrate in ritardo o con palese obiettivo nel corpo e nelle gambe e non nel pallone. Ad un certo punto ci fu un pugno di Johnny Giles a Kevin Keegan, uno degli uomini simbolo del Liverpool. Va detto che Keegan, in quel periodo, era particolarmente nervoso: affezionato a Shankly come non lo sarebbe mai stato a Paisley, che infatti tre anni dopo lo lasciò andare all’Amburgo, l’attaccante era stato espulso pochi giorni prima in un’amichevole contro il Kaiserlautern, vittima di una svista dell’arbitro che lo aveva indicato come colpevole in un gruppo di giocatori corsi a difendere uno di loro, Ray Kennedy, che aveva appena subito un fallaccio. Quel giorno, a Wembley, Keegan ribaltò Billy Bremner, piccolo e combattivo capitano del Leeds, su un pallone vagante poi cercò di arrivarci prima di Giles, che lo protesse con il proprio corpo e, girandosi, allungò un destro al volto all’avversario. Scattò un parapiglia, con Keegan che però fece segno all’arbitro Bob Matthewson di avere clemenza con Giles, ma la pace durò poco. Qualche minuto dopo, infatti, lontano dallo sguardo delle telecamere e mentre in una scena grottesca il massaggiatore del Leeds portava fuori a spalla l’infortunato Clarke, Bremner rispose a Keegan con uno spintone, e sarebbe finita subito se lo scozzese non fosse inciampato: vedendoselo lì, l’attaccante del Liverpool lo prese e partì una scazzottata subito interrotta dagli altri giocatori. Matthewson convocò i due, parlottò un attimo e fece loro cenno di uscire dal campo. Keegan però perse ulteriormente la calma e si avventò contro Matthewson, nonostante i due si conoscessero e anzi avessero giocato asssieme a cricket pochi giorni prima. L’arbitro in quella occasione gli aveva rivelato di non vedere l’ora di dirigere una partita tra squadre così importanti, e che sperava di dover intervenire meno possibile. Fu proprio questo il motivo, sul momento inspiegabile, della collera di Keegan: “Se ci avesse cacciato e basta non avrei detto nulla, ma ci trattò come se fossimo due bambini delle elementari ‘Questa è una bella partita ma voi due la state rovinando. Andatevi a fare un bel bagno caldo’”. Fermato dal capitano Emlyn Hughes prima di arrivare a Matthewson, Keegan poi si diresse verso la linea laterale e si tolse nervosamente la maglia che dopo pochi passi buttò per terra, e poco dopo anche Bremner fece lo stesso gesto. Keegan, al rientro negli spogliatoi, trovò il padre, che era sceso dalla tribuna e voleva confortare il figlio: pochi istanti dopo Bremner, quasi in lacrime, si presentò per parlare placidamente con l’avversario e lì Keegan dovette fermare il padre, che era pronto a scagliarsi contro il capitano del Leeds. Non è detto che, nonostante la combattività, Bremner avrebbe vinto, dato che il signor Joseph Keegan, pur se 69enne, era un ex minatore dalle mani pesanti. In campo, intanto, la tensione non era calata. Ci fu uno scontro tra Joe Jordan, l’attaccante scozzese del Leeds, e il portiere del Liverpool Ray Clemence, con l’altro scozzese Gordon McQueen ad arrivare ad aiutare il compagno di squadra e spingere Hughes, e più avanti altri contatti duri, favoriti involontariamente da un elemento curioso: il campo più stretto del solito, e di ben nove metri. Il 31 agosto infatti era in programma la finale europea del Mondiale di speedway, attività che assieme alle corse dei levrieri aveva permesso alla società proprietaria dello stadio di non chiudere i battenti già 50 anni prima, e i lavori per sistemare la pista avevano ‘mangiato’ tutte e due le fasce laterali, riducendo gli spazi e aumentando le probabilità di contatti fisici. Il clima di guerra in campo, assecondato sugli spalti da canti decisamente poco concilianti, contrastò curiosamente con alcune scene durante i calci di rigore: i due portieri, Clemence e David Harvey, uno dei calciatori degli anni Settanta con l’acconciatura più riconoscibile, scherzarono tra di loro tra un tiro e l’altro, anche se fu proprio Harvey, incaricato di tirare il sesto rigore, a calciare alto, e la vittoria arrivò al Liverpool pochi secondi dopo, con la trasformazione di Ian Callaghan, il Player of the Year 1973-74, che pure al momento del tiro scivolò. Il risultato della partita, però, era insignificante, come è giusto che sia per gare del genere, e sarebbe scivolato via senza troppe onde se non fosse stato per quello che era accaduto, che irruppe nelle case inglesi con una forza distruttiva durante la visione di Match of the Day. Non era quella la copertina della stagione che ci si aspettava, dopo oltre due mesi di silenzio, non erano quelle le immagini che l’inglese medio, alla fine di una placida giornata di un’estate godibile , voleva vedere come antipasto alla stagione. Barry Davies, il notissimo telecronista, nel suo commento stroncò il comportamento dei giocatori in campo esprimendo quello che la maggioranza delle persone davanti allo schermo pensava: “Stiamo vedendo il volto inaccettabile del calcio inglese… vedere giocatori che disprezzano così l’autorità dell’arbitro non può essere un bene per questo sport… Comunque la pensino, è lui il giudice”. Mentre andava in onda la partita, Keegan era in un night-club di Doncaster, nel nord, dove la famiglia si era spostata anni prima lasciando la zona di Newcastle: era partito da Wembley poco dopo la fine, deciso a trovare uno stato alcolico che gli permettesse di cancellare quello emotivo. Lì, dopo un po’, lo aveva raggiunto Maurice Setters, l’allenatore del Doncaster Rovers, squadra di cui pochi anni dopo, ma tu guarda, sarebbe diventato tecnico proprio Bremner. “Kevin, sono tre ore che ti cerco in tutti i pub”. “E come mai?”. “Shankly ti cerca, dagli un colpo di telefono”. Era vero: terminato un grottesco giro di campo con il trofeo il boss, come Keegan lo avrebbe sempre chiamato, si era preoccupato per il morale del suo ex giocatore, aveva intuito dove potesse essersi rifugiato ed aveva telefonato a Setters perché lo rintracciasse, lo confortasse e gli chiedesse se era disposto a giocare, di lì a due giorni, nella partita in onore di Billy McNeill, il capitano del Celtic che stava per iniziare la sua ultima stagione. Celtic-Liverpool, quel 12 agosto 1974, fu di fatto l’ultima partita in cui Shankly, scozzese che da giovane aveva avuto la rara caratteristica di non tifare né per i biancoverdi né per i Rangers, sedette in panchina. In tutto questo, l’onda emotiva di quanto successo fu enorme. Perché era successo a Wembley, perché di mezzo c’erano due grandi giocatori e perché si era visto in tv. L’udienza presso la Football Association per la punizione da assegnare ai due reprobi si svolse pochi giorni dopo, a campionato già iniziato e con Keegan in campo alla prima giornata a Luton, e le circostante furono subito sfavorevoli: quello che pensava l’inglese medio lo pensavano anche i vertici federali e non solo, visto che al dibattimento fu mostrata una lettera del Ministero degli Interni in cui un deputato chiedeva la squalifica a vita, per il pessimo esempio dato ai giovani, perché la partita si chiamava ‘Charity’ e il forte contributo benefico dell’incasso era comunque macchiato dai fatti avvenuti. Perché il problema era proprio quello, che il tutto fosse avvenuto a Wembley e si fosse visto in tv. Altro stadio, nessuna telecamera presente e le conseguenze sarebbero state diverse. Nella commissione giudicante c’era anche Matt Busby, lo storico allenatore del Manchester United, che accusò Keegan di sobillare gli hooligan, con il suo comportamento, frase molto significativa dello spirito del tempo e causata anche dalla recentissima morte di quel tifoso del Blackpool. Come ricorda nella sua autobiografia, Keegan, che stimava Bubsy, dovette mordersi la lingua per non rispondergli “pensa prima a quel che succede a casa tua!”, dato che al debutto in Second Division i tifosi dello United, al Brisbane Road di Leyton, avevano subito causato problemi. Keegan si irritò molto anche a sentirsi redarguire da un altro membro della commissione, Vernon Stokes, che lo accusò di avere gettato fango sul calcio, con il suo gesto della maglia: "Parli proprio tu - pensò Kevin - che sei stato sospeso a tempo indeterminato per irregolarità finanziarie, quando eri presidente del Portsmouth”. Ma non c’era verso: sotto certi aspetti, la sentenza era scritta, troppe pressioni, troppo scandalo, troppe paure per l’irruzione estiva del calcio, di quel calcio così affascinante ma anche così malato, di quella decade. Undici giornate di squalifica e 500 sterline di multa, il verdetto, accolto con favore dai media nazionali, ma il tornado emotivo di quei giorni di 50 anni fa, di quel Charity Shield che nel 2024 è ormai Community e si apre con un derby, non era finito: il 12 settembre, dopo soli 44 giorni in carica e otto partite di campionato, di cui una sola vinta, Clough venne licenziato dal Leeds e sostituito, tre settimane dopo, da Jimmy Armfield, che avrebbe poi condotto la squadra alla finale di Coppa dei Campioni, persa a Parigi contro il Bayern Monaco in circostanze controverse. E dire che si sarebbe potuto svolgere tutto in maniera diversa: alla notizia dell’uscita, infatti Revie, aveva consigliato ai dirigenti del club di nominare Giles come suo successore, ma anche Bremner si era candidato, procedura normalissima per il calcio inglese fino a non tantissimi anni fa. La situazione aveva messo in difficoltà i dirigenti: scegliere uno al posto dell’altro avrebbe potuto creare frizioni interne, e fu per questo che la decisione virò su Clough. In un curioso quanto inutile gioco ucronico, immaginando cioé una realtà svoltasi diversamente, Giles o Bremner avrebbero allenato il Leeds, a Wembley si sarebbe presentata una squadra meno nervosa e non destabilizzata dall’arrivo di Clough e forse non ci sarebbero state quelle scorie e quegli scontri, quelle squalifiche, quel senso di disagio, di pericolo, di paura che suscitava quel calcio, quel calcio comunque meraviglioso ed esteticamente inimitabile, senza sponsor sulle maglie, senza fumogeni, senza musica sparata dagli altoparlanti, senza deejay, senza colonne di fuoco all’ingresso delle squadre di campo. Era calcio e basta, nel bene e nel male.