Accadde oggi: magia di Mancini, il gol di tacco al Parma
Serie AIl 17 gennaio 1999 Roberto Mancini segna il suo gol più bello in un Parma-Lazio che è scontro al vertice. Poco prima una sua ingenuità difensiva aveva regalato il gol a Hernan Crespo, mandando su tutte le furie l'amico Mihajlovic. Fortuna che Eriksson gli aveva raccomandato: "Niente colpi di tacco"
“Sul calcio d’angolo di Sinisa ho fatto una finta, ho visto che Benarrivo non mi ha seguito, ho continuato, la palla mi è arrivata sul tacco e l’ho colpita”. La fa semplice, Roberto Mancini, quando a caldo gli viene chiesto di raccontare quello che lui stesso definisce il suo gol più bello. Di sicuro è quello che ancora oggi lo identifica maggiormente come giocatore. Dici Mancio e pensi tacco, sublime follia che richiede tecnica sopraffina e occhi dietro la nuca, solo per dirne due. Il vero artista, poi, ci mette del suo rendendo il gesto fluido, esteticamente bello, in apparenza così semplice da riprodurre.
Quando Parma-Lazio era scontro al vertice
Sul finire degli anni Novanta Parma e Lazio sono due superpotenze in grado di duellare per lo scudetto: Juve, Inter e Milan non fanno poi così paura se nella tua ossatura ci sono Buffon-Cannavaro-Thuram in difesa e Veron-Crespo-Chiesa in attacco o, per venire ai biancocelesti, Nesta, Mihajlovic, Stankovic, Nedved, Vieri, Salas. E Mancini, magnifico 34enne che dispensa ancora lampi di classe.
Con la Fiorentina trascinata da un super-Batistuta, la lotta al vertice della classifica è inedita e appassionante come non mai: i viola e il Parma appaiati in testa a 32 punti, la Lazio a 29 e le milanesi a 27, quando si deve giocare l’ultima giornata del girone di andata. È il 17 gennaio 1999, e Parma-Lazio ha il profumo del big-match che promette spettacolo.
Tacco vietato
Il “tacco di Mancini” viene dipinto al minuto 68, ma la cosa più buffa è che avvenga in un periodo in cui proprio il colpo di tacco era stato espressamente vietato all’artista di Jesi. Almeno a centrocampo. Circa due settimane prima, infatti, alla vigilia della gara contro il Bologna, Eriksson aveva preso in disparte il suo campione preferito e gli aveva illustrato la sua pazza idea, necessaria a far convivere quell’abbondanza di talento: “Roberto, ti sposto a centrocampo. Ma devi cambiare mentalità: niente colpi di tacco o giocate rischiose, perché se perdi palla in quella zona gli avversari sono subito in porta”. Mancini capisce, annuisce e si applica: Bologna (1-0) e Fiorentina (2-0) sono i primi test in cui da attaccante si reinventa regista della squadra. “Ma non crediate che allontanandomi dalla porta rinuncerò a fare gol”, promette ai giornalisti incuriositi dal nuovo ruolo. “Mi tratterrò dalla tentazione di andare sempre avanti, ma quando Sinisa tirerà i suoi calci piazzati, proverò la deviazione”. Sembra quasi la premonizione di chi vede già il futuro.
Il rimbrotto di Sinisa
Tra lui e Sinisa esiste già quel filo diretto che li terrà legati anche una volta intrapresa la carriera da allenatori. Proprio su un lancio di Mihajlovic, neanche due mesi prima, Mancini ha incastonato un diamante nel derby, colpendo di sinistro al volo quella palla che spioveva da centrocampo, quasi senza guardarla. Un sodalizio che si traduce anche in una schiettezza nel rapporto – che sta alla base dell’amicizia e della stima professionale reciproca – di cui il Mancio ha un assaggio proprio in quel Parma-Lazio. Dopo il vantaggio su rigore di Salas, al 51’, la squadra di Malesani si è gettata all’attacco alla ricerca del pari e Mancini – il nuovo Mancini, il centrocampista al quale si chiede di dare una mano anche in fase difensiva – si ritrova nella sua area di rigore quando, 3 minuti dopo, dalla destra sta per atterrare un campanile in apparenza facile da addomesticare, almeno per uno con la sua tecnica. La postura del Mancio - schiena arcuata all'indietro, braccia larghe - è quella di chi si appresta a stoppare di petto con classe per poi rinviare al volo, se non fosse che, un attimo prima che quel pallone gli scenda addosso, sbuca la testa di Enrico Chiesa a deviare verso Hernan Crespo, che con una zampata fa 1-1. Siamo in area di rigore e certe leggerezze non sono ammesse: se Sven Goran Eriksson lo pensa soltanto, sospirando, Sinisa Mihajlovic non le manda a dire e affronta il compagno riprendendolo come si fa con un ragazzino. “Cosa volevi fare?”. “Stoppare di petto e rinviare”. “Allora forse è meglio se vai una ventina di metri più avanti, così non fai danni”.
Una normale magia
Mancini incassa, e aspetta l’occasione buona per dimostrare che nell’altra area è lui a comandare. Quattordici minuti dopo il fattaccio, la Lazio guadagna un calcio d’angolo sul versante sinistro: il piede mancino di Mihajlovic non può che calciarlo a uscire, cosa che solitamente rappresenta una motivo di sollievo per i portieri, ma Mancini ha già visto il futuro. Finta su Benarrivo, piroetta e quel tallone che impatta la palla come se fosse il collo del piede. Stessa sensibilità, uguale potenza: palla sotto l’incrocio dei pali della porta di Buffon. L’esultanza di Mancini è contenuta, lui si limita a stringere il pugnetto come si fa quando ti riesce bene qualcosa a cui avevi pensato; sono gli altri a impazzire per lui. Vieri lo raggiunge trasfigurato in volto e agitando le braccia, incredulo anche per quell’assenza di reazione: lo vorrebbe scrollare per assicurarsi che sia consapevole di ciò che ha appena fatto, e infine glielo urla in faccia. Mihajlovic lo accoglie in un abbraccio fraterno, primo tra tutti, e gli picchietta la mano sulla fronte, massimo complimento concesso e allo stesso tempo dichiarazione di pace dopo il piccolo battibecco.
Anche Eriksson (che a fine gara riassumerà il pensiero di tanti fortunati presenti al Tardini: “Vedere giocare Mancini vale il prezzo del biglietto”) gli perdona la leggerezza e all’89° lo richiama in panchina con il duplice intento di concedergli i meritati applausi e inserire un difensore che, in caso di nuovi spioventi in area, ci metta la testa. Ed è qui che iniziamo a vedere il futuro anche noi, imparando a conoscere il Mancini che sarà: durante il cambio con Fernando Couto, sulla linea laterale, lui non si specchia nei cori d’amore che gli rivolgono i tifosi, ma si rivolge al compagno, gli parla guardandolo negli occhi, gli dà un paio di indicazioni e una pacca d’incoraggiamento. Sembra un allenatore, o forse lo è già.