Non erano raccattapalle, erano raccattasogni

Conosco un ex bambino che non ha dimenticato quella volta che a dieci anni raccolse la palla al bordo del campo di San Siro e la passò a Ruud Gullit. Poi arrivarono tante altre emozioni, anche con la palla tra i piedi, eppure quella, con il cuoio tra le mani alla prima domenica da raccattapalle, resta in una teca del cuore, protetta per sempre. Ci sono momenti che servono alla costruzione dei sogni, gratificazioni che dipanano dubbi sul proprio futuro, premi immateriali che vanno di pari passo con l’impegno profuso per essere un giovane sportivo quando la carriera da professionista resta molto più che incerta: un sogno, appunto. Il raccattapalle, così come lo abbiamo conosciuto, rappresentava questo tipo di esperienza: un piccolo traguardo che a volte può restare l’unico dentro un percorso in cui spesso non si arriva alla fine con le braccia alzate ma si finisce per guardare i trionfi di altri. Perché fra consegnare il pallone a un idolo e sistemarlo su un cono di plastica ci passa un mondo, almeno per un bambino. Sembra un dettaglio di poco conto il cambiamento introdotto dalla prossima stagione, quando i raccattapalle si limiteranno a far quello che la loro definizione presuppone: raccattare palloni. Perché smetteranno di restituirlo ai calciatori di Serie A per le rimesse, riponendoli su trespoli di plastica a bordocampo dove saranno raccolti dagli stessi atleti. Forse è davvero una sfumatura, eppure l’interruzione di quella staffetta virtuale fra generazioni, con quel testimone rotondo che ogni tanto sfuggiva qua e là, ci suggerisce una manciata di riflessioni. Non siamo i primi a introdurre la novità, la Premier come spesso accade ci ha anticipato, ma accade anche dall’altra parte del mondo, in Brasile ad esempio. La logica della decisione è intuitiva, sembra banale persino spiegarla. I raccattapalle appartengono ai settori giovanili delle squadre che giocano in casa e possono rappresentare un vantaggio nel distribuire i palloni con difformità, a seconda dell’andamento e del momento della partita: consegna rapida come un rider di cibo da asporto se la propria squadra deve rimontare, rallentata come un autobus nel traffico del lunedì se in vantaggio. Da questo punto di vista la nuova soluzione sarà efficace ed efficiente: equità e rapidità nelle rimesse, perché la plastica è neutra, impermeabile alle passioni, e non staremo certo a contestare questo principio. Eppure la decisione suona come una resa. Piuttosto che insegnare la lealtà ai ragazzi, pretenderla, perseverare in questa lezione, aspirare che l’equità sia un comportamento condiviso e non una coercizione, ecco trovato l’escamotage sostituendo le mani scivolose di un ragazzino con un cono resistente a qualunque furbata. Ma certi trucchi di prestigio sono sempre una libera iniziativa dei raccattapalle o a volte sono incentivati dalle stesse società che ora attraverso la Lega impongono il cambiamento? Magari dai loro staff tecnici, alla vigilia di partite importanti? I racconti di spogliatoio ci restituiscono anche questa versione. Basterebbe una semplice volontà culturale quindi, dire "Non si fa" ed esigere che sia così, lasciando ancora ai bambini l’emozione di quel tesoro prezioso da consegnare nelle mani dei pirati. E poi, sono davvero così tanti i secondi che si perdono? La differenza tra una rimessa in casa e una in trasferta è così sostanziale e determinante? Non lo sappiamo. La decisione presa dalla Lega per ora non è suffragata da dati. Non è come si dice oggi "data driven", ma frutto dell'impressione, della sensazione, forse della suggestione. A naso ci sembra che passi un’eternità tra il momento in cui la palla esce e quando il raccattapalle di turno la restituisce all’avversario, ma che a dilatare quei pochi secondi sia un semplice stato di ansia è probabile: spesso è più sgradevole il gesto in sé di quanto siano davvero influenti le conseguenze. La nostra ossessione per il tempo però ci fa dire che guadagnare briciole di secondi sia fondamentale, come se il problema di certe partite non sia la qualità più che la quantità di minuti giocati. Per un ragazzotto scaltro che nasconde il pallone e uno emozionato a cui le mani sudate giocano un brutto scherzo, ce ne sono tanti altri che quel piccolo mestiere lo svolgono con serietà o che aspiravano a farlo: il cono di plastica non dirà mai loro grazie. Conosco un altro ex bambino, raccattapalle in pensione, che quei grazie se li ricorda tutti o quasi. Uno in particolare, ascoltato all’Olimpico nei tanti pomeriggi trascorsi lì, perché il premio per essere corretti in campo e nello spogliatoio per tutta la settimana era un posto privilegiato accanto alla linea di gesso la domenica. Quel giorno la Lazio era avanti, la Juventus inseguiva. Mancava poco alla fine, lui raccolse il pallone con lo scrupolo di sempre, né più lento, né più veloce. Poi sentì la voce di un giocatore bianconero dirgli con una gentilezza mai ascoltata prima: "Sbrigati, per favore. Grazie". Era la voce di Andrea Fortunato, che aveva fretta, tanta fretta, forse non solo di giocare. Se quella rimessa laterale è eterna non è certo perché è durata tanto, anzi, fu un istante. Ma il suo ricordo è ancora lì, che rimbalza come una palla a bordocampo nella testa di quel bambino cresciuto, che ogni tanto ripensa a quel ragazzo che non è mai potuto invecchiare.