Conte, i canarini e il mestiere di vincere. Sempre

Con una logica quadrata nella provvisoria classifica della Serie A, la squadra di Antonio Conte è prima davanti alle altre. Per ora è solo l’avviso di un campionato che confonderà i pronostici per la lotta scudetto, non saranno gli assoli degli ultimi due tornei ma Conte offre la solita garanzia, ci sarà anche il Napoli, in lui la promessa è seria, credibile, i fatti sono testimoni tenaci, la biografia è la sua reputazione. È successo ancora e noi ripetiamo parola per parola - sapendo che queste frasi accompagnarono lo scudetto interista del 2021 e che quindi si stendono definitive dove oggi sono solo presentimento: “Conte crea un punto esatto, è un incrocio di perfetta simmetria: lì, in quell’istante e in quel pezzo di strada, si compie la poesia brutale delle sue squadre. L’istinto, la conoscenza, i concetti rigorosi e le pulsioni sentimentali si fondono: il campione ha messo tutto sé stesso nel lavoro, ha fecondato della sua lotta la partita e lo ha fatto con la convinzione incrollabile del gregario. Intanto, dal lato opposto, arrivano i terzini, i mediani, gli operai della squadra elevati attraverso il coraggio alla maniera dei campioni: pronti ormai per giocate difficili, determinanti. In breve, all’incrocio perfetto delle sue volontà, il calcio di Conte trasforma i giocatori, migliorandoli e legandoli in squadre. Succede perché c’è una considerazione egualitaria del gruppo ed essendo impossibile fondarla sulle qualità si sceglie il cammino verso il santuario del sudore. La trasformazione è il concetto fondamentale - con questo Conte fa la differenza”. Ci arriva con il metodo, che diventa la sostanza: regole, fatica, rispetto gerarchico . Dunque, se un ambiente, un popolo sente il bisogno di questa trasformazione, serve Conte. Per questo in primavera era l’uomo più voluto, desiderato dai tifosi connazionali delle tre squadre che sentivano la necessità di cambiare: Juventus, Milan, Napoli. E colpiva, questa affinità: fra le tifoserie che sognavano Conte c’erano quelle che più lo avevano subìto, da avversario, che si erano piegati alle sue squadre, le più accanite rivali. Anche le vittime vedevano in lui la salvezza, anche chi lo ha fatto bersaglio delle più ciniche contestazioni, dei più scurrili sfottò. Perché l’allenatore in questione rassicura i tifosi oggi delusi: domani andrà meglio. Lo ha preso De Laurentiis, un uomo che si misura sugli spigoli ma - infine - non si è mai sottratto agli angoli altrui, scegliendosi i caratteri più forti in circolazione, e vivendo proprio con loro le maggiori soddisfazioni sportive. La sconfitta di Verona - facile dirlo adesso - è stata importante perché ha provocato processi sani: la società ha finito la campagna di rafforzamento, senza più attendere i soldi della cessione mai avvenuta di Osimhen. Dunque Lukaku, McTominay, Gilmour. La squadra ha capito che le cose non sarebbero cambiate d’inerzia o solo per l’avvento di Conte, sic e simpliciter: bisognava causare, determinare la novità, anzi, ricongiungersi al passato, scavalcando l’ultima immonda stagione. Che era lì, presente, e solo ritrovandosi nel metodo di lavoro e di rispetto del nuovo allenatore si poteva uscirne e arrivare a quell’incrocio in cui le squadre di Conte si compiono, e diventano così solide per l’autenticità della materia. L’appassionato allora capisce la partecipazione totale, integrale ai destini che si uniscono, e aggiunge il suo. Sarebbe anche un pezzo prematuro, se non fosse Conte. E non fosse il Napoli, del quale bisognerà mettere tra parentesi l’ultima stagione, l’unica fallita da oltre tre lustri. Perché anche questo va detto, mentre le avversarie stanno mostrandosi all’Europa, lottando ognuna per trovare il proprio posto, e nei campi d’allenamento del Napoli si suda come se non ci fosse un domani, anzi, come se ci fosse solo un giorno possibile all’orizzonte: quello della gloria. Nella rosa del Napoli quasi tutti conoscono lo scudetto. Il gruppo campione 18 mesi fa e sono aggiunti Spinazzola poi Lukaku e Neres . Aggiungiamo che i due attaccanti - il magnifico Kvara e Lukaku - sono stati scelti quali migliori calciatori del torneo, nella stagione dei rispettivi scudetti guadagnati. Questo sunto statistico solo per dire che a Napoli non c’è un gruppo al quale dover spiegare la differenza: hanno vinto. E poi c’è lui, il tecnico che non è mai arrivato peggio che secondo, e solo una stagione, l’ultima del decennio breve della Juventus: lui, con l’Inter, un punto dietro - ma invero i bianconeri con Sarri arrivarono in “folle”, sicuri della vittoria. L’Inter segnò più reti e ne subì meno della Juve e aggiunse al secondo posto anche la finale d’Europa League. Negli altri quattro campionati “conclusi” Antonio Conte ha solo vinto, tre volte con la Juventus e poi lo scudetto con l’Inter, l’anno dopo quel secondo posto, che resta il suo peggior risultato di fine campionato: però. Uno sguardo sui viaggi in Premier, che alcuni fessi usano per diminuire l’impatto di questo tecnico in ogni cosa che fa: l’ultimo scudetto vinto dal Chelsea è con lui, l’unica qualificazione in Champions del Tottenham negli ultimi cinque anni è con lui. Nessuna delle due avventure ha poi sviluppato seconde ambizioni, ma restano quei due risultati, come sempre ottenuti subito perché Conte è rapido nel trovare la sostanza, è la sua urgenza che ne rimanda un’immagine un po’ fanatica, distante dall’uomo ma probabilmente aderente al professionista. C’è un aforisma sul fanatismo che è al tempo stesso spietato e struggente. “I fanatici non sono gli unici convinti di possedere la verità - perché quasi tutti ne sono convinti. Sono solo i più terrorizzati di perderla”. La paura di Conte è perdere questa quotazione. Di misurarsi con un fallimento, perché il suo modo di vivere il calcio non ammette tonalità, non tollera la cultura: vittoria o fallimento. Inutile tentare di fare patti, di entrare nel discorso. In Conte questo concetto è indivisibile, è la sua forza, è la sua faccia. È la sua storia, da quando entrò nello spogliatoio della Juventus e si rivolse a Baggio dandogli del voi: “Per me è un piacere conoscervi”. Roberto si voltò a cercare gli altri, ma era solo davanti a questo ragazzo timido e cerimonioso venuto da Lecce, che anni dopo raccontò: “Ai campioni mi venne istintivo dare del ‘voi’, perché dalle mie parti si usa così. Pensai: qui non duro a lungo, sono di passaggio”. Si sbagliava. Tredici anni da calciatore, tre da allenatore: “Merito del Trap, per le ore spese a migliorarmi il piede sinistro, lo stop a seguire, il tiro. Senza di lui si sarebbero accorti presto che non ero all'altezza e mi avrebbero dato un calcio nel culo”. La paura fu il motore del calciatore, carriera buonissima che lui spesso riduce alla “corsa, contrasto, inserimento sotto porta: niente di più” e si fa torto, perché fu perfino capitano e match winner di molte imprese. Ma se sorvola sulla mezzala che fu è per accrescere la parte che sente più talentuosa, quella da allenatore di un calcio pensoso che sa trasformare in semplice quel modo di attaccare, di spostare gli avversari e crearsi gli spazi dove infilare le idee. Senza mai fermarsi, vuole il sangue dai suoi soldati perché lui stesso è il primo a versarlo. La paura di perdere, dunque. Un giorno, in una bella intervista fece l’inventario: “Ho perso tre finali di Champions contro Milan, Real e Dortmund; una coppa Uefa contro il Parma; la finale ai Mondiali e quella degli Europei. La paura di perdere me la porto addosso”. Non sempre era in campo eppure si tiene strette le sconfitte e allora l’unica salvezza diventa l’ossessione per la vittoria. Una parola che gli è necessaria e cara, che ama: Vittoria ha chiamato la figlia, perché quel suono diventi lo scoppio della felicità più pura. E la sconfitta di conseguenza è solo un agguato alla felicità, alla vita stessa: chi lo conosce assicura che quando perde comincia solitarie e spietate analisi sui suoi errori, quelle che in pubblico evita, scegliendo i colpevoli con opportunismo . Torniamo a quell’incrocio, dove il Napoli è atteso e dove non c’è rischio di perdere tempo vano: arriverà. Allora avremo Lukaku dominante e servile con il match, nella sua capacità di ‘essere’ la partita. E Kvaratskhelia mosso dal solito fervore, dalla forza che solca le partite, e al quale Conte gonfierà le statistiche. Ma soprattutto ci travolgerà la marcia dell’esercito degli ‘elevati’, il solito capolavoro che nelle varie esperienze ha reclutato Giaccherini, Pepe, Lichtsteiner, Moses, Darmian, qualche peone nella Nazionale che batté Belgio e Spagna agli Europei e fu sconfitta solo ai rigori dai tedeschi campioni del mondo. A Napoli i nomi si conoscono già: quando con Spalletti fu vinto il Campionato gente come Rrhamani, Anguissa, Lobotka non sbagliò una partita, fornendo concentrazione, qualità, protagonismo, padronanza del ruolo e coraggio nelle giocate: nelle stagioni precedenti sembravano strascicarsi dietro al livello degli altri, e così nell’ultimo torneo, disorientati dal marasma, diminuiti dall’assenza di un metodo nel quale riconoscersi, proteggersi. Sono come quei canarini che i lavoratori calavano giù, per capire se l’aria era salubre o se invece era intossicata dal grisù, e capire se scendere loro stessi in miniera. Ecco, i canarini stanno benissimo, si può lavorare, l’aria è buona. Sono tornati al 7 in pagella, reggono il campo e ripropongono l’autorevolezza smarrita. Loro sono il racconto più sincero della forza della squadra. Sono questi giocatori che confermano la conquista di una coscienza superiore di sé e del tutto. La prostrazione dei campioni è l’esempio che permette la simbiosi che crea squadre legate dal senso del dovere: queste squadre poi sono difficili da battere, queste ‘verità’ sono impossibili da perdere.