Sei calciatori in cerca di autore: i personaggi di Pirandello nel mondo del calcio

“Per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale”. Questa la motivazione con la quale l’Accademia di Svezia assegnò il Premio Nobel per la letteratura a Luigi Pirandello, l’8 novembre del 1934. Una frase secca e sintetica che nasconde un’opera di scomposizione sociale e psicologica, di riflessione filosofica, di ribaltamento sistematico delle prospettive che trasuda genio e che getta una luce completamente nuova sull’uomo e sulle sue fragilità. Pirandello sorprende, costringe a rinunciare ad ogni costruzione rassicurante e apparentemente logica, asfalta luoghi comuni e certezze accarezzando la visione Scettica dell’universo, ponendosi come erede di quella corrente filosofica che nell’Antica Grecia praticava lo skepsis, il dubbio, affermando la natura inconoscibile della verità. E’ lo scrittore e il drammaturgo delle maschere, del pessimismo permeato di umorismo e del relativismo che sfocia nell’incomunicabilità, pietra angolare di tanta cultura del Novecento con significativi esempi anche nella musica, tanto che le connessioni con la monumentale opera dei Pink Floyd ‘The Wall’ , siano esse dirette o indirette, risultano evidenti. In altre parole, Pirandello fu un genio innovativo, votato alla rottura degli schemi per offrire una visione originale della realtà. E ‘pirandelliano’ è diventato aggettivo multiforme, che definisce certamente gli aspetti paradossali della vita, ma in certa misura anche questa precipua caratteristica, cioè la capacità aprire uno spiraglio su un mondo nuovo. Quale che sia il campo di applicazione. E così nel calcio si potrebbero tranquillamente definire ‘pirandelliani’ tutti quegli allenatori che hanno teorizzato e disegnato sul campo un calcio mai visto, rompendo gli schemi preesistenti: da Michels a Sacchi, da Guardiola a Bielsa per arrivare fino a Gasperini, solo per citarne alcuni. Ma sono migliaia le storie calcistiche che potrebbero trovare ispirazione in qualche capolavoro del Nobel agrigentino, in ogni epoca e in ogni luogo. Vitangelo Moscarda, ovvero il protagonista di ‘Uno, nessuno, centomila’, per molti aspetti sembra specchiarsi oggi nella surreale situazione che vive Leao al Milan. Perché anche il portoghese sembra vivere una crisi d’identità che frantuma certezze e confina in un limbo incomprensibile. Nel romanzo basta un’anonima e banale osservazione della moglie sul suo naso che “pende verso destra” a innescare l’effetto domino nel protagonista, pronto a precipitare nel caos identitario: l’Io scompare di fronte alle tante immagini che gli altri costruiscono di lui, della sua vita, della sua personalità. E Vitangelo non si riconosce più, mettendo in atto una velleitaria reazione nel disperato tentativo di ricomporre negli altri l’immagine che lui ha di sé, anche a costo di rovinarsi. Non ci riuscirà, finendo per isolarsi in un’irriducibile solitudine. Ecco, è a questo destino che deve e può sottrarsi Leao, a prescindere da quale sia stato l’elemento scatenante del suo disorientamento. E’ un campione o un talento intermittente destinato alla mediocrità? E’ un armonico tassello di uno spogliatoio che cresce o un indolente individualista? Di lui si sono costruite molte immagini, diversa una dall’altra, spesso antitetiche una all’altra, malgrado quei lampi di talento che tutti vedono e riconoscono. L’immagine di lui che esce malinconico accennando un sorriso amaro quando i compagni gioiscono per l’assist che Okafor confeziona e consegna a Reijnders contro il Bruges è decisamente ‘pirandelliana’. Leao prigioniero rassegnato di un copione che sembra un romanzo, incapace di trarsi da quella gelida stasi posta tra la gioia per la squadra e l’amarezza per il sé, probabilmente confuso sulla sua stessa identità. “La vera solitudine – parole di Pirandello – è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi”. E il portoghese sembra proprio estraneo a sé stesso, perso in una solitudine abissale, senza apparenti sbocchi. E Fonseca in tutto questo chi è? L’alleato che cerca di sollecitare una sensibilità troppo morbida e informe o l’aguzzino pronto a defenestrarlo in nome della ragion di stato? “Se un nome è in noi, il concetto d’ogni cosa è posta fuori di noi – è la conclusione di ‘Uno, nessuno, centomila’ – senza nome non si ha il concetto e la cosa resta in noi come cieca, non distinta, non definita […] Ma il nome è un’epigrafe funeraria. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude”. Ecco, forse Leao deve affrancarsi dal ‘nome’, da ciò che gli altri si aspettano, dall’immagine che gli viene dipinta addosso e dire, con Vitangelo, “Sono albero, nuvola. Domani libro o vento, il libro che leggo, il vento che bevo”. Leao è talento, ma il talento non può e non deve essere la sua condanna. Ogni persona è un diamante e brilla di mille facce, rendendo impossibile ridurne l’immagine a un unicum indivisibile. Pirandello ci offre ‘Così è se vi pare’, altro capolavoro che andrebbe fatto leggere e rileggere nelle scuole di ogni ordine e grado. E che ribalta continuamente la verità. Non per diffondere gratuita confusione, ma per aprire la mente al cambio di prospettiva che annichilisce i giudizi affrettati e trancianti. Il signor Ponza è dapprima il mostro che impedisce alla suocera, la signora Frola, di vedere la figlia. Poi diventa il samaritano che protegge la suocera dalla sua follia, poiché la figlia è morta e la visione della sua seconda moglie potrebbe aggravarne la situazione. Infine, è lui stesso il folle, nelle parole della suocera, che non riconoscendo più la moglie ha costruito tutta questa assurda storia del secondo matrimonio. Dove sta la verità? Sembra un labirinto in cui, mutatis mutandis, si è persa la Roma insieme ad alcuni suoi protagonisti. I Friedkin sono gli investitori che non lesinano spese per riportare la squadra ai fasti che merita, ma sono anche gli americani distratti che non seguono con passione la società lasciandola allo sbando. E che hanno avuto il merito di coinvolgere De Rossi, la bandiera che eleva il giallorosso a nobile sentimento, e la colpa di sbarazzarsene con spregiudicatezza. Dybala è l’eroe che ha rinunciato all’oro dell’Arabia per i sentimenti che lo legano a Roma, ma per altri è il sottile opportunista che sfrutta la clausola di rinnovo automatico del suo ricco contratto differendo, senza rinunciarvi definitivamente, la sua pensione dorata tra le dune. I tifosi giallorossi sono impazziti per cercare di risolvere un rompicapo fatto di verità cangianti, di slanci d’amore e sospetti di tradimento della loro passione. Ma dov’è la verità? Se anche, come nell’opera teatrale di Pirandello, si potesse interrogare direttamente la sua depositaria, probabilmente avremmo la stessa risposta. Perché la moglie del signor Ponza alla fine si presenta sul palcoscenico, velata di nero, per rispondere alle domande del Prefetto: “Volete la verità? È solo questa: che io sono, sì, la figlia della signora Frola”. E dopo il sospiro di sollievo di tutti gli astanti, finalmente convinti di avere in mano una certezza…. “e la seconda moglie del dottor Ponza”. E infine, di fronte alla rabbiosa reazione del Prefetto, irritato dalla netta sensazione di essere preso in giro la sentenza: “Nossignori. Per me io sono colei che mi si crede”. È così che parla la verità, in Pirandello. Perché non esiste se non nella mente e nel giudizio delle persone, tra loro diverse e difformi. Tali da produrre due, tre, mille verità. Tutte vere, tutte diverse. Un po’ come per Calhanoglu e Lukaku, due giocatori che hanno incarnato colori e passioni, per poi finire nel girone dei ‘traditori’. Il turco non era semplicemente un giocatore del Milan, era l’architrave di una squadra in costruzione con l’ambizione di tornare a vivere le gioie entrate nella storia. In lui si misurava il talento e la gloria dei vecchi eroi e in lui si vedeva la scintilla di futuri nuovi trionfi. Il suo passaggio improvviso e inatteso all’Inter ha infranto il dogma dell’appartenenza e scatenato ira viscerale. Dunque, un mercenario senza riconoscenza, un indifferente ai meccanismi della passione sportiva. Ma la sua prospettiva è diversa: la mancanza di attenzione di fronte alla speranza di rinnovo, la stima percepita dalla società che occupa l’altra metà del cielo di Milano, l’opportunità di approdare in un progetto di simili ambizioni ma come protagonista e non come comprimario. Una sorta di naturale scissione dalla vita precedente e di fusione amorevole con quella futura. La forzatura, insomma, è negli occhi degli altri e la verità è colei che si crede. Idem per Lukaku, totem dell’Inter contiana e assurto al ruolo di Re di Milano in aperta sfida a Ibrahimovic. Il murale del loro celeberrimo faccia a faccia durante un derby di Coppa Italia avrebbe dovuto divenire imperituro simbolo di forza, appartenenza, coraggio e sfida perpetua, vigorosa ma leale, tra mondi contrapposti. E invece, dopo un primo addio che non aveva prodotto nulla, se non qualche reciproca malinconia, e dopo un trionfale ritorno vissuto come il ripristino dell’armonia dell’universo, ecco lo strappo. Lancinante. Lukaku che sparisce, che non risponde, che abbandona il nerazzurro anche concettualmente, aprendo con disinvoltura al possibile approdo alla Juve, se non addirittura al Milan, cioè ai colori che in quel murale erano il suo naturale opposto. Il fatto che poi sia finito alla Roma e di qui al Napoli per ricomporre la diade con Conte, non ha attenuato il senso di insofferenza nei tifosi nerazzurri. Ma anche qui la verità è multiforme, le prospettive si ribaltano a seconda dell’ottica da cui si guarda. E per Big Rom, sia pur rivelata a mezze frasi, la realtà è differente: la predilezione di Inzaghi per Dzeko, la sensazione di doversi fare suddito malgrado l’accoglienza da Re, il ridimensionamento complessivo di un’immagine non più centrale nel gruppo e, probabilmente, qualche insofferenza tattica rispetto alla sua prima vita interista hanno composto un puzzle di disagio che ha portato all’addio definitivo. Dunque, la verità cambia e la follia non abita luoghi precisi e individuabili, per quanto esibita e attribuita a seconda della prospettiva che si sposa. Del resto, il folle è colui che dice sempre la verità sino all’inevitabile marginalizzazione, una forma di libertà che contiene la schiavitù della solitudine come automatica conseguenza. Perché tutto in Pirandello è un’erma bifronte, come l’umorismo che “ride del pianto della faccia opposta”. E allora chi meglio di Balotelli? Mario per certi versi è davvero un simbolo pirandelliano. La sua ‘follia’ gli ha fatto gettare al vento gran parte del talento, la sua pervicace lotta alle maschere lo ha reso incomprensibile e antipatico, la sua verità sventolata spesso con arroganza lo ha marginalizzato, le sue incoerenti bravate sono state consumate sulla base di una pretesa coerenza, spesso sfociata in vittimismo: “Why always me?”. In lui non a caso agisce il tempo ciclico nietzchiano e in lui si muovono le lingue di fuoco di una follia che spesso è arma difensiva. Sembra l’‘Enrico IV’ di Pirandello, prima pazzo davvero, a causa di un trauma che costringe i suoi affetti a sostenerne le folli visioni, poi, una volta guarito, costretto alla decisione di continuare a fingere la pazzia di fronte a tutti i rivolgimenti che nel frattempo hanno stravolto il suo mondo. A Balotelli tutti hanno sempre chiesto di ‘mettere la testa a posto’, ma l’unico modo per ottenere soddisfazione sarebbe quello di obbligarlo a indossare una maschera per difendersi da una verità che cambia e dall’incomunicabilità che colpisce tutti, indifferentemente, in ogni momento. Il Genoa è l’ultima possibilità di redenzione? Può darsi, ma alla fine è quasi irrilevante. Perché chi si augura di vedere finalmente il vero Balotelli probabilmente non si rende conto di averlo già visto, e semplicemente sogna che indossi abiti diversi, quelli che altri hanno scelto per lui. Tutto sommato è anche lui un personaggio in cerca di autore, come tanti altri nel mondo del calcio anche attuale. Personae, maschere in attesa che un autore scriva per loro la commedia da interpretare, ma che nel frattempo vivono in una terra di mezzo in cui la realtà è finzione e viceversa. Douglas Luiz, Taremi, Loftus , Colpani , Le Fèe. Tutti incompiuti ai quali per ora nessuno, quest’anno, è riuscito a scrivere un copione, una sceneggiatura, una trama in grado di innalzarli in modo convincente fino alla luce del palco. Ma in ‘Sei personaggi’ c’è anche l’abbattimento della quarta parete, la fusione irreale tra palco e platea, quasi che le figure di un mondo di apparente fantasia non possano più rinunciare a mettere i loro sentimenti, disagi, speranze nelle mani del pubblico. Non è forse il riflesso di quello che hanno fatto i vari Buffon, Iniesta, Ilicic, Morata quando hanno confessato la loro depressione? Nel testo teatrale di Pirandello i personaggi criticano, a volte con sarcasmo, le scenografie non aderenti a quella che per loro è la realtà. Esattamente come accade quando il mondo del calcio assume le forme di una dimensione ‘altra’ rispetto alla vita degli uomini comuni: e questo scollamento produce sofferenza, crisi, paralisi emotiva. Depressione. Il calcio, insomma, appare spesso come un romanzo di Pirandello. Tanto da averne messo in scena anche alcune trame. Avete presente ‘Il Fu Mattia Pascal’? Beh, nel 1998 arrivò dal Brasile a Bologna tale Eriberto, ventenne freccia del Palmeiras un po’ grezza ma di grandi prospettive, anche se non troppo incline alla disciplina da atleta. Faticò ad imporsi, ma una volta passato al Chievo nelle mani di Delneri divenne incontenibile, al punto che la Lazio di Cragnotti nel 2002 mise sul piatto un bel mucchio di milioni pur di averlo. Ma quell’estate lui sparì, inghiottito dal nulla. E la sua ricomparsa coincise con la confessione: non si chiamava Eriberto, ma Luciano e aveva quasi 4 anni in più rispetto a quelli riportati sui suoi documenti. Aveva accettato che un faccendiere si occupasse di quel crimine perché in stato di necessità: era orfano, lavorava in fabbrica, il calcio era una tentazione irrinunciabile, ma aveva già vent’anni e per renderlo appetibile al Palmeiras occorreva averne meno. E’ Mattia Pascal che diventa Adriano Meis convinto che quell’inganno dia libertà, consenta di recidere il legame con le sofferenze della vita, conceda un nuovo inizio. “Non ce la facevo più a sostenere questa parte, ora mi sento meglio. Ringrazio chi mi è rimasto vicino”, dichiarò Luciano malgrado la squalifica. Quella apparente libertà era diventata prigionia. Anche Meis nel romanzo deve ‘morire’ perché Pascal torni alla vita: “Aveva un cuore, quell'ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell'ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch'era la testa di un'ombra, e non l'ombra d'una testa”. Nel caso di Pirandello era troppo tardi, per Luciano fortunatamente no. Maschera, finzione, crisi, la grande illusione che alimenta le fragilità umane, in Pirandello come nel calcio. Alla fine è proprio per questo che Vinicius e Lautaro dovrebbero ridimensionare la delusione per il Pallone d’Oro assegnato a Rodri. In definitiva la lezione la impartisce ancora Pirandello: quando la notizia del Nobel divenne di dominio pubblico, molti giornalisti e fotografi invasero la sua casa romana. Lui li accolse e si mise pure in posa, ma su un foglio scrisse più volte la stessa parola: “Pagliacciate!”, Ma soprattutto a parlare è il suo discorso, pronunciato a Stoccolma in occasione della consegna del premio: “Per riuscire nelle mie fatiche letterarie ho dovuto frequentare la scuola della vita. Questa scuola, inutile per certe menti brillanti, è l’unica che può aiutare una mente come la mia: attenta, concentrata, paziente, inizialmente del tutto simile a quella di un bambino. Uno scolaro docile, se non con gli insegnanti, di sicuro con la vita. Sentivo il bisogno di credere all’apparenza della vita senza alcuna riserva o dubbio. L’attenzione costante e la sincerità assoluta con cui ho imparato e meditato questa lezione hanno palesato un’umiltà, un amore e un rispetto della vita indispensabili per assorbire delusioni amare, esperienze dolorose, ferite terribili, e tutti gli errori dell’innocenza che donano profondità e valore alle nostre esistenze. Evolvendosi, il mio talento più vero mi ha reso del tutto incapace di vivere, come si conviene a un vero artista capace soltanto di pensieri e sentimenti. Di fatto, nell’illusione di creare me stesso, ho creato solo quello che sentivo e che riuscivo a credere. E ora mi piacerebbe credere che questo premio sia stato conferito non tanto alla perizia dello scrittore, che è sempre irrilevante, quanto alla sincerità umana del mio lavoro”.

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