I Friedkin e la Roma, una storia al contrario

C’era una volta il tutto esaurito. Ed era quello - l’entusiasmo - ed era la partecipazione, la passione di un popolo che distingueva la Roma dal resto, che elevava l’avventura sopra la classifica. Riempire l’Olimpico non è semplice, non è scontato. Farlo al di sopra dei risultati è stato il capolavoro politico di Mourinho, e l’arrivo di De Rossi ha conservato questo popolo, per il legame con Daniele, perché la squadra sembrò subito respirare aria buona, perché i quarti di finale di Europa League contro il Milan raccontarono il miglior momento tecnico, agonistico, tattico della scorsa stagione. C’è oggi uno stadio deluso, una cittadinanza umiliata dalle scelte della proprietà, una tifoseria che abbandona gli spalti mentre la squadra è alla disorientata ricerca di qualcosa che forse nemmeno vuole, perché la negatività è un’attrazione potente, un virus debilitante, nelle gambe, nel morale, nel senso di tutto. C’è davanti agli occhi una comunità ferita che parla da sola e ogni voce è perduta, vana, se nessuno l’ascolta. Così la Roma deve ripartire ma rispetto all’altra volta ha irritato il popolo, ha espatriato Mourinho, ha bruciato De Rossi, ha concesso quote di indipendenza e programmazione ormai difficili da recuperare, se leggiamo che adesso la scelta del tecnico è affidata a una agenzia terza, che raduna molte parti del calcio. Sì: abbiamo letto e sentito questo. Una proprietà delega la parte principale del suo determinarsi, la scelta dell’allenatore che rappresenta lo sguardo sul mondo del calcio, la visione, quello che vuoi fare. L’identità che vuoi trasmettere all’avventura. Una sottrazione di significato che consegue da un’altra assenza di senso, quella di una società scarnificata: l’inquadratura nella zona di comando, durante la straziante partita con il Bologna, puntava un solo volto, e solo quello, circondato da posti vuoti. Florent Ghisolfi, il 39enne provenzale che è in città da pochi mesi e parla "un poco italiano". Circolava questa battuta, insieme ai nomi di Lampard e Terzic per la panchina: metti una proprietà americana, un direttore sportivo francese e un allenatore inglese - ecco, sembra l’inizio di una barzelletta. Questa non è una battaglia protezionista o testaccina. Ci interessa più ricostruire l’ordine che ci pare invertito. Siamo abituati all’Aleph, per cominciare. E infine 'zeta'. Qui, invece, è saltato l’alfabeto. E credere che in campo vada solo una squadra invece che tutta una società, tutto un modo di essere e di fare, di scegliere e decidere, di creare e manutenere, è il più grande inganno che si possa subire o perpetuare. Dan e Ryan Friedkin dovrebbero avere come urgenza quella di ricostruire la società, dopo la separazione con Lina Souloukou, l’amministratrice delegata per circa 15 mesi della Roma, ormai offerta in pasto alle leggende popolari, così come il chiacchiericcio ha avviluppato mezza squadra. In città, ma non solo, è tutta una sovrapposizione di voci, racconti, verità, pettegolezzi, esagerazioni, miti, peccati: questa è semplicemente la debolezza di una società guidata dallo smart working. Dunque, una società spolpata di ruoli, dopo essere già stata sottratta di linguaggio e cultura specifica e al minimo storico di competenza e biografia, si trova a prendere continue decisioni e dunque si affida a procure invece di ricostruirsi e insieme immaginare una tenace visione dei problemi e del futuro, e scegliere poi le persone adatte a realizzare questo progetto. La Roma, in questo momento, è una società contromano alla logica: tutto quello che decide e che fa nasce con questo difetto originario. Magari fra tanti errori poi viene indovinata una scelta giusta, ma comunque sarà presto a repentaglio, mancando una 'forma', un organismo capace di difendere il lavoro quotidiano, di dare equilibrio nelle alterne vicende di questo sport, di mediare i molti umori che lo compongono, e semplicemente di rivendicare l’integrità di questo percorso. E come sarebbe possibile, con un allenatore così scelto, attraversare campionati e coppe, tempeste e vittorie, pensarsi lontano e insieme ? Alla fine, solo questa domanda, e solo quella risposta, riassumerebbero tutto il pezzo. Rifiutato questo palinsesto, appuntata con un chiodo nella parete la priorità ora facciamo anche un viaggetto fra gli allenatori possibili, o rammentati in queste ore, accettando questo procedere perverso delle cose e salutando Ivan Juric, tecnico sincero, poco idealista, che pare incagliato in un modo - e uno solo - e che non è riuscito a superare i suoi schemi, a darsi quel coraggio d’azzardare qualcosa di diverso dalla sua storia e dalle sue idee. Bagaglio che avrebbe dovuto sconsigliare la sua chiamata, non per insufficienza assoluta ma proprio perché il suo sistema era distante dalle caratteristiche dei giocatori. Qui andrebbe avvertito chiunque arriverà a Trigoria: l’organico della Roma è vasto quanto 'tatticamente' confuso e soprattutto incompleto, con accumuli da qualche parte e carenze da altre. Con giocatori non facili da sposare, con decisioni difficili da prendere senza rischiare di lasciare indietro molti atleti, anche importanti. Ma torniamo al tecnico che verrà: abbiamo detto delle voci esotiche, e del lavoro infame che toccherebbe al traduttore. Abbiamo saputo di Roberto Mancini, qualcuno attende Massimiliano Allegri, due personalità forti con la speranza che sappiano - alla maniera di Mourinho - riempire tutto il vuoto che c’è, accentrando su di loro il discorso, e dunque diventando la 'comunicazione' della Roma, lo spunto dirigenziale, il dialogo con il popolo ferito, la sutura stessa della ferita, e con il carisma avere l’argomento convincente per piegare a una direzione quell’organico disordinato suddetto. Due nomi oggettivamente indiscutibili e impegnativi. Noi speriamo in un ritorno di De Rossi, che preferiamo soprattutto per un valore che ci sembra fondamentale: il valore delle scuse. Che va oltre la considerazione sul lavoro di De Rossi, nei nove mesi a Trigoria, che sorpassa l’incoerenza di un investimento triennale rinnegato dopo tre mesi. Una scelta prevalente l’identificazione del tecnico ideale, perché avrebbe la portata 'superiore' di una remissione: parlerebbe alla gente, si scioglierebbe in mezzo alla gente, ne terrebbe in considerazione il sentimento. Non c’è cessione al populismo . Oggi sarebbe un gesto di umiltà della proprietà, un tentativo di ricominciare insieme, di assumersi la colpa della distruzione di quel patrimonio, il più importante: quel 'tutto esaurito'.

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