Longarone, in Giro 50 anni dopo nel Giorno della Memoria

Ciclismo
L'abitato del paesino di Erto: fermo alla tragedia di 50 anni fa
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IL REPORTAGE. Viaggio nei luoghi di una tragedia italiana impossibile da scordare. Ieri la corsa ha reso omaggio alle vittime del Vajont, oggi riparte da Longarone. Il paese spazzato via in una notte

di PAOLO PAGANI
(da Longarone, Belluno)

La tappa del ricordo e della memoria. L’elettricista di Erto, paesuccio miracolato e soltanto leccato dall’ondata killer quel 9 novembre 1963 alle 22.45, 50 anni tondi fa dalla mattanza del Vajont, ce l’ha ancora negli occhi lustri quando parla, muovendo piano il barbone bianco che gli fodera il mento: “Avevo 13 anni, è come fosse ieri. Qui a Erto siamo stati risparmiati per miracolo, l’acqua ha trovato una sponda ai piedi del paese ed è rimbalzata via, a sterminare quelli di sotto. Lo sapevamo, l’aspettavamo. Il Monte Toc cedeva ogni giorno, i geologi dicevano che sarebbe scivolato lentamente nella diga, invece s’è spaccato di netto ed è piombato dentro”. Duecentosettanta milioni di metri cubi di fango e roccia che di colpo, zac, piombano a 100 km l’ora nella diga e poi su cose e case di Longarone.

Il Giro d’Italia l’ha ricordato ieri (“Al buio cercavamo un bastone, una corda per aggrapparci, la gente gridava e spariva” sussurra ancora l’elettricista che c’era…) finendo la tappa a Erto. Stamattina riparte da Longarone, “capitale mondiale del gelato” ti avverte serafico il tabellone all’ingresso dell’abitato, che è rifatto come il Lego. Un omaggio commosso al giorno che ha trasformato per sempre geografia e uomini di questa fetta di Dolomiti friulane. “Non solo era prevedibile, era inevitabile succedesse. Per capire la portata del dramma: ci vorrebbero sette secoli di movimento terra con 100 camion per smaltire una quantità di materiale equivalente alla massa collassata del Monte Toc”, ragiona Franco Polo, che fa da guida paziente e dolente ogni mezzora, tutto il giorno, a chi visita la diga del Vajont.

Una cappella, qualche targa annerita che dice “Luogo sacro” oppure omaggia “A voi travolti dalla morte sul posto di lavoro”, cose così scolpite o imbullonate da 50 anni su tronconi di roccia. Fa impressione la montagna conficcata nell’invaso della diga: è la frana, che cinque decenni dopo, ha le fattezze di un’isola innocente alberata e piantata nel cuore della diga vuota. Lassù la ferita: due km di fronte, 500 metri di larghezza e 250 di altezza, una cicatrice spoglia allagata da una luce serena in questa bella giornata di sole che aspetta il saluto delle bici del Giro. L’onda si impennò per 240 metri e piombò rombando giù a valle con la velocità assassina di una moto, 96 km l’ora, ci spiegano gli autovelox di chi ha studiato la tragedia.

“Il rumore, quel rumore” ricorda commosso un sopravvissuto diventato famosissimo scrivendo, nel frattempo: Mauro Corona, scultore, alpinista in bandana e narratore. “Mi spiace che l’umanità non possa capire, non avendo mai sentito un fracasso di quel genere. Come un camion di ghiaia scaricato con violenza, ma moltiplicato per 300 milioni di metri cubi di ghiaia... E, dopo, i corpi che galleggiavano”. Il Giro non l’ha potuto riprodurre ieri, né tantomeno potrà farlo oggi. Eppure, lasciando sfrigolare i tubolari di corsa su questi asfalti, è come se avesse riletto ad alta voce le parole di Dino Buzzati, Corriere della Sera dell’11 novembre ’63, scolpite su un cartellone a memoria imperitura: “Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna”. Più semplice di così. Grazie, Giro.