L'antico sapore del motorsport a stelle e strisce

Quando entri in un circuito di quelli Usa, sia vecchio o nuovo, il sapore brutale della storia del motorsport ti assale. In parte perché tutti i circuiti sono dislocati nelle zone più remote dove troneggiano quei bandieroni a stelle e strisce che ti sembrano delle lenzuola per giganti. E poi perché sei nell’America più vera, quella delle grandi fabbriche di autovetture, degli sterminati campi di grano e degli impetuosi fiumi che sboccano nei grandi laghi. Insomma, senti il profumo di un’America diversa da quella che noi normalmente conosciamo, quella di Miami, New York, Los Angeles o San Diego. Si tratta della parte povera, o meglio della parte meno ricca, quella che lavora e produce e ha solo tempo per divertirsi in un circuito la domenica con una birra in mano. Pensate che al di là del Superbowl, i tre eventi televisivi di sport più visti da quelle parti sono la 24 Ore di Daytona, la 500 Miglia di Indianapolis e la prima della Nascar, sempre a Daytona. E proprio a Daytona nel 2003, arrivai in pista con Max Papis. Aveva vinto l’anno precedente la gara e quindi si presentava da detentore del titolo. Per fare un po’ di scena aveva noleggiato una costosissima Hammer H1, quella vera dell’esercito, che combatteva nel deserto. Lunghezza 4 metri e 86, larghezza 2 metri 197, capite che entrare nel tunnel di Daytona è stata un’esperienza fantascientifica. Cambio a tre marce, 8 cilindri e 6.2 litri erano le ‘doti’ tecniche di questo mezzo che percorreva 2 km di strada con 1 litro di gasolio, a quel tempo in Usa praticamente introvabile. E proprio per questo motivo, al di là della gara che vide l’equipaggio di Max arrivare in seconda posizione, quando ce ne andammo dal circuito, dopo 24 ore di duro guidare, in direzione Sebring, uscimmo dall’autostrada per fare carburante. C’era un laghetto proprio prima di affrontare la salita che portava al distributore. Beh, era invitante e con un mezzo come quello fare un giretto nell’acqua e salire la ripida costa che portava alla Texaco special price pareva un gioco da ragazzi. In effetti lo era, ma non avevamo fatto i conti con due super poliziotti in moto che non si lasciarono sfuggire l’occasione di fermarci, sequestrarci il mezzo e prometterci una salatissima multa. Siccome tutto il mondo è paese, di Max Papis pilota sapevano velatamente le gesta ‘eroiche’ e non sembravano molto interessati. A differenza del jolly che Max si giocò telefonando al suocero, tal Emerson Fittipaldi, stra-conosciuto e vincitore oltre che di mondiali di F1 della 500 Miglia di Indianapolis e per ben due volte. Il gioco era rischioso; passare il cellulare all’irremovibile police-motard non sembrava essere così semplice. Eppure, la voce di Emerson fu subito riconosciuta e la multa e il sequestro si tramutarono in 10 giorni di lavori socialmente utili e una leggera multa che diventò successivamente beneficenza per la fondazione della polizia di Daytona Beach. Dopo ben quattro ore riprendemmo la strada per Sebring dove Max era chiamato a fare i test per la Chevrolet che avrebbe partecipato a Le Mans. Daytona non ce la dimenticammo tanto facilmente, sia per il risultato in pista sia per quanto accaduto fuori dalla pista. La vera emozione però la subii a Indianapolis. Nel 1999 ci entrai per la prima volta, accompagnato niente meno che da un’icona di questo sport: Mauro Forghieri. Dovevamo commentare la 500 Miglia, per me un qualcosa di vissuto solo da casa o in televisione e mai dal vivo. Sostengo da sempre che un vero appassionato di motori dovrebbe necessariamente vedere nella sua vita la 500 Miglia, la 24 ore di Le Mans, il GP di Montecarlo e forse anche la Nascar a Bristol. Queste gare ti cambiano la vita. Con Forghieri facemmo il giro dei box e anche negli Usa l’ingegnere era conosciutissimo e non faceva un passo se non da protagonista, riconosciuto e osannato. Dopo una mattinata intera a prendere informazioni salimmo sulla torre centrale nella nostra cabina di commento. Passammo un’ora buona a scambiarci notizie e a preparare la gara, quando improvvisamente alzammo la testa a meno 15 minuti dalle solite operazioni del pre-gara, e ci guardammo esterrefatti. Avevamo sotto i nostri occhi lo spettacolo di una marea di teste, cappellini e bandiere, una miriade di gente mai vista prima; Indianapolis aveva ospitato quell’anno il tutto esaurito, oltre 500 mila persone. Quando ci ritornai per la F1 le cose erano radicalmente cambiate. Oltre al senso inverso di percorrenza della curva uno, il pubblico americano non era ancora molto avvezzo a questo genere di competizioni e snobbava un po’ la categoria. Per fare un esempio, fu una delle poche volte che uscimmo a mangiare dopo una partita di calcio tutti assieme, compreso Michael Schumacher che, sebbene conosciuto, non veniva affatto disturbato. Insomma due mondi differenti, sempre molto competitivi, ma completamente diversi tra loro: è l’effetto che fa l’America.

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Biagio Maglienti