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NBA, Mike Brown e il passato: i rapporti difficili con James e Irving

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Dario Vismara

Mike Brown ha allenato LeBron James dal 2005 al 2010 e Kyrie Irving nella stagione 2013-14 (Foto Getty)

Dieci anni dopo la prima volta, Mike Brown torna in panchina alle Finali NBA. Questa volta però da avversario di LeBron James e Kyrie Irving, entrambi allenati nei suoi due passaggi a Cleveland. E non senza screzi...

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Dieci anni nella vita di un uomo sono un tempo lunghissimo. Nella NBA, dove tutto si muove alla velocità della luce, equivale a più di un’era. Dieci anni sono quelli che separano il 2007 dal 2017, ovverosia dal primo viaggio alle Finali NBA di Mike Brown e il suo secondo. Solo che questa volta Brown non siede più sulla panchina dei Cleveland Cavaliers, ma su quella dei Golden State Warriors. E non è più l’allenatore di LeBron James e Kyrie Irving, ma deve trovare in fretta il modo di fermarli abbastanza a lungo e vincere il suo primo titolo NBA, guidando gli Warriors ancora privi del loro capo-allenatore Steve Kerr. Una storia strana, quasi hollywoodiana, in cui un allenatore a lungo criticato nella sua carriera ha finalmente l’occasione di riscattarsi e di redimersi proprio contro la franchigia che per due volte gli ha dato l’opportunità di guidare la squadra e per due volte ha finito per licenziarlo. Anzi, a dirla tutta, contro la franchigia che ancora oggi lo paga, visto che al momento del suo secondo esonero nel 2014 Brown aveva ancora quattro anni e 20 milioni di dollari rimanenti sul suo contratto. Oltre al danno di privarli del back-to-back, anche la beffa di continuare a togliere soldi dal portafogli (peraltro sempre pienissimo) di Dan Gilbert. “Per me è un’opportunità” ha dichiarato Brown in un’intervista con The Undefeated. “Ho una lunga storia con Cleveland, ma per me è una cosa che va oltre quella che è la mia situazione. […] In questo momento non so se avrò delle emozioni particolari nel tornare lì. Cerco solamente di passare un turno alla volta. Ma ovviamente questa situazione è speciale per me, perché sono le Finals”. In una conferenza stampa con i giornalisti di Oakland, Brown ha anche aggiunto: "È un po' ironico come vanno le cose nella vita certe volte. Sembra di essere nel Re Leone: avete presente il Circle of Life?".

Ascesa e crollo con LeBron

Quando Mike Brown venne assunto nel giugno del 2005, LeBron James aveva appena concluso il suo secondo anno nella lega e doveva ancora compiere 20 anni. Anche Brown era un esordiente di 35 anni – il secondo allenatore più giovane della lega dietro Lawrence Frank – ma immediatamente chiamato a sfruttare al meglio le potenzialità di un giocatore già dominante come LeBron. Il “Prescelto” crebbe a tal punto da chiudere al secondo posto per il titolo di MVP della regular season dietro Steve Nash e il loro connubio li portò immediatamente ai playoff, venendo eliminati al secondo turno dai più esperti Detroit Pistons. Un anno dopo sono arrivati insieme alle Finals contro la casa madre, quei San Antonio Spurs che hanno cresciuto Brown come assistente per tre anni, dal 2000 fino al titolo del 2003. Nonostante il “cappotto” subito per mano del mentore Gregg Popovich, la collaborazione tra Brown e James sembrava destinata a produrre un titolo prima o poi. “Andavamo avanti combattendo insieme. Sentivo che io lo stessi aiutando a crescere e lui stesse facendo lo stesso con me” ha ricordato Brown parlando di quel periodo, definito come “grandioso”. Invece fu l’ultima volta che andarono in finale, cogliendo tre eliminazioni in fila nella Eastern Conference (due al secondo turno per mano di Boston, una per mano di Orlando) che portarono al famigerato addio di James nell’estate del 2010 – nonostante un record finale di 272-138, diventando l’allenatore più vincente (66.3% di vittorie, David Blatt ha fatto di poco meglio ma in molte meno partite) della storia della franchigia. “Eravamo forti, LeBron era giovane” ha ricordato Brown. “Ma non avevamo una seconda opzione offensiva che anno dopo anno potesse dargli supporto. E questo ci ha reso difficile fare strada a lungo nei playoff. Però quei ragazzi erano delle persone incredibili e lavoravano tantissimo. Trovavano modi sempre diversi per vincere le partite”. Per vincere le partite di regular season, ma non per vincere i titoli. L’attacco decisamente poco immaginifico di Brown, unita a una certa riluttanza nel giocare una pallacanestro più veloce e aggressiva sui due lati del campo, portò al suo licenziamento – anche come tentativo disperato di convincere James (che, almeno stando a quanto scritto da Shaquille O'Neal nella sua autobiografia, "non lo ascoltava mai"), promettendo che tutto sarebbe cambiato. Non servì a nulla.

Il ritorno a Cleveland

Tre anni dopo, quando il GM Chris Grant lo indicò come successore per la panchina di Byron Scott (ironicamente colui che lo aveva sostituito nel 2010 al tempo del primo licenziamento), il proprietario Dan Gilbert disse che era stato “un errore” lasciare andare Brown, riprendendolo dopo l’esperienza (non felicissima) ai Los Angeles Lakers e facendogli firmare un contratto quinquennale da 25 milioni di dollari con il chiaro intento di tornare ai playoff. Quei Cavs però andarono ben al di sotto delle aspettative dell’ambizioso proprietario, chiudendo con un record di 33-49 tra tentativi falliti (Andrew Bynum e Jarrett Jack), problemi tattici (23° attacco della lega) e convivenze difficili (come quella tra Dion Waiters e Kyrie Irving). “È stato un po’ strano” ricorda ora l’ex coach dei Cavs a proposito del suo secondo passaggio a Cleveland. “Chris Grant mi aveva assunto e ha fatto un lavoro fenomenale nel preparare la squadra per il futuro. Ma tre mesi dopo l’inizio della stagione è stato licenziato, cosa che mi lasciò di stucco. Ovviamente l’organizzazione aveva tutto il diritto di farlo, e a fine stagione ha lasciato andare anche me perché la proprietà e la dirigenza non erano contenti del lavoro che avevamo fatto – anche se avevamo chiuso al nono posto ed eravamo nei playoff fino a tre giorni dalla fine della regular season”.

La richiesta di scambio di Irving

Tra i motivi per cui Brown non è stato confermato nonostante l’enorme contratto firmato solo un anno prima c’è anche il rapporto complicato con Kyrie Irving. Brown, allenatore difensivo per eccellenza, aveva cercato di inculcargli di forza concetti difensivi che al giovane Irving non sono mai realmente interessati, creando una frizione tale da portare Brown a suggerirne la cessione nonostante l’indubbio talento, come rivelato nel libro “Return of the King” di Brian Windhorst e Dave McMenamin. “Kyrie era davvero giovane, ma estremamente talentuoso” ha detto Brown a The Undefeated, senza però cercare di minimizzare la grandezza del suo ex giocatore. “Si vedeva che un giorno avrebbe capito come far funzionare le cose, e una volta che ci è riuscito è diventato praticamente immarcabile. Ha un bagaglio di skills che non ha quasi nessuno in questa lega. Quando hai quella abilità e quella rapidità oltre alle capacità di segnare da ogni distanza, diventi un giocatore di rilievo. Avrebbe dovuto essere in uno dei quintetti All-NBA quest’anno”. Parole sincere o di circostanza alla vigilia di una serie contro il giustiziere delle scorse Finals?

Di nuovo in finale, aspettando Kerr

Dopo il secondo licenziamento Brown ha continuato a vivere a Cleveland, o più precisamente a Westlake, nella parte ovest della città. “Non torno spesso a downtown, ma ho mantenuto un sacco di contatti nella zona. Il mio commercialista e il mio consulente finanziario vivono lì, il mio oculista mi aspetta per una visita durante le Finals, i miei ristoranti preferiti sono lì, anche il posto dove mi faccio fare gli occhiali è a Westlake” ha detto ridendo l’allenatore degli Warriors. Soprattutto, i suoi due figli hanno giocato lì, con Elijah che non se la cava per niente male nella pallacanestro (giocherà a Oregon il prossimo anno) e l’altro figlio Cameron che da linebacker del football americano andrà a rimpolpare le fila di Case Western, sempre nella zona. Chissà se i due figli rivedranno il padre a bordocampo nella Quicken Loans Arena, anche se la possibilità che Steve Kerr sia in condizioni tali da poter allenare lui a bordo campo non è stata del tutto esclusa – anzi, Brown se lo augura: “Tutti lo rivogliamo con noi, perciò affronto la situazione un giorno per volta. Steve è stato fantastico, così come il GM Bob Myers e tutti i giocatori. Con lo staff e i veterani che abbiamo nello spogliatoio, è stato un processo senza grossi scossoni. Ma spero che Steve si senta abbastanza bene per essere in panchina con noi, come è giusto che sia visto che è stato lui a porre le fondamenta di questa squadra”. Per il momento, però, Brown rimane saldamente in sella a una squadra che non ha ancora subito una sconfitta in questi playoff, e si appresta a disputare le terze finali consecutive cercando di “regolare i conti” dopo la cocente sconfitta dello scorso anno. “Sono due ottime squadre, ed entrambe hanno più di un giocatore che può comandare un raddoppio. Più di un giocatore può realmente creare gioco. Più di un giocatore può tirare dalla lunga distanza” ha concluso Brown, aggiungendo un’annotazione tattica fondamentale per lo sviluppo della serie: il controllo del ritmo. “Loro danno molta importanza ai possessi, e sanno che se riescono ad averne più degli avversari, hanno una grande possibilità di vincere grazie al modo in cui tirano e segnano. Noi la pensiamo allo stesso modo: se riusciamo a vincere la guerra dei possessi, abbiamo l’opportunità di segnare più dei nostri avversari. Sarà una cosa importantissima per noi lungo tutta la serie, e lo stesso sarà per loro”. Il palcoscenico è pronto: Mike Brown è pronto ad affrontare il suo passato.