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NBA, la corsa al miglior dirigente dell’anno

NBA

Dario Vismara

Bob Myers, General Manager dei Golden State Warriors (Foto Getty)
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I giocatori e gli allenatori vengono valutati per quanto viene prodotto in campo, ma i dirigenti devono mantenere una visione a 360° su quanto succede nelle proprie franchigie. Ecco chi sono i migliori GM della regular season che va a concludersi

Non è sempre facile indicare quale dirigente abbia fatto il miglior lavoro in una singola stagione. A volte infatti i risultati di una squadra sono semplicemente il frutto di un lavoro impostato anni prima, a volte invece basta una singola firma estiva per cambiare completamente le prospettive di un’intera franchigia. E poi, chi è il miglior dirigente, quello che crea la squadra più forte, quello che dà al suo allenatore il roster più profondo possibile o quello che tira fuori il massimo da ciò che ha a disposizione? O ancora: è meglio quello che va all-in alla ricerca del successo immediato o quello che programma un successo a lungo termine per mantenere la propria squadra sempre al massimo livello? Ci sono trenta modi diversi di approcciare un lavoro sfiancante come quello del capo di una dirigenza NBA: questi sono quelli che maggiormente si sono distinti nella stagione 2016-17, a partire dalla scorsa estate.

Bob Myers, Golden State Warriors

Inutile dire che il suo nome sia in cima a questa classifica nel momento in cui Kevin Durant ha deciso di firmare per i suoi Warriors. Il GM Bob Myers ha già vinto il premio nel 2014-15 quando la sua squadra ha poi conquistato il titolo NBA, ma con l’arrivo di un top-5 come KD ha assicurato alla sua squadra un futuro a medio termine sempre al massimo livello attorno al nucleo formato da Curry, Thompson e Green. Il lavoro di Myers non si è però fermato alle stelle: dal mercato dei free agent è comunque riuscito a trovare giocatori funzionali come i veterani Zaza Pachulia e David West, scommesse come JaVale McGee e Matt Barnes, ma anche giovani come Patrick McCaw o Kevon Looney hanno dato il loro contributo. L’ideale rotazione a otto degli Warriors, quella che poi materialmente si giocherà la maggioranza dei minuti ai playoff, resta la migliore in assoluto, per di più con un monte salari inferiore ai 100 milioni di dollari (solo il 15° della lega). Una situazione destinata a cambiare con i rinnovi al massimo salariale di Curry e Durant, ma comunque un dato impressionante per quella che è senza ombra di dubbio la miglior squadra della lega.

David Griffin, Cleveland Cavaliers

La candidatura di David Griffin sta tutta in una semplice osservazione: basta guardare come era composto il roster dei Cavs al momento del training camp e come è composto oggi alla vigilia dei playoff. Tra le due squadre non c’è paragone: Griffin è riuscito ad aggiungere Kyle Korver, Deron Williams, Derrick Williams e Andrew Bogut (poi andato male dopo 58 secondi, sostituito con Larry Sanders), allungando la rotazione della squadra che, avendo il monte salari più alto della storia della lega, aveva pochissimo margine di manovra per aggiungere giocatori in grado di “tenere il campo”. Inoltre Griffin ha dovuto fare fronte a due situazioni estremamente complicate: da una parte un LeBron James sempre più irrequieto sul mercato (anche se il Re lo ha pubblicamente elogiato), dall’altra un rinnovo di contratto che stenta ad arrivare nonostante l’eccellente lavoro svolto. In tutto questo l’ex assistente di Steve Kerr a Phoenix ha mantenuto una calma invidiabile, continuando a fare il suo senza prestare troppa attenzione al rumore esterno. Meriterebbe un premio anche solo per questo.

Daryl Morey, Houston Rockets

Un anno fa di questi tempi la situazione di Daryl Morey era tutt’altro che idilliaca, considerando che il proprietario Leslie Alexander aveva deciso di mettere pesantemente mano nel suo staff, facendogli capire che il suo posto non era più così al sicuro. Oggi, dopo una regular season da oltre 50 vittorie e un James Harden tornato a giocarsi l’MVP, tutte le sue scelte con il senno di poi sembrano geniali: la scelta di Mike D’Antoni (principale candidato al premio di Allenatore dell’Anno) è stata azzeccata; gli onerosi contratti dati a Ryan Anderson e Eric Gordon sono stati ripagati; le scommesse fatte su Nene, Sam Dekker e Montrezl Harrell sono state ampiamente vinte; la presa durante la stagione di Lou Williams – per di più liberandosi del contratto scomodo di Corey Brewer – può già essere considerata come una vittoria. Per una squadra che ha migliorato di almeno 13 vittorie il proprio record pur mantenendo quasi il 70% dei minuti della scorsa stagione ha trovato i pezzi giusti per crescere internamente, e le scelte dall’alto (oltre alla classica selezione di tiro super efficiente) di sicuro hanno dato una mano ai Rockets in campo.

Masai Ujiri, Toronto Raptors

Il GM nigeriano dei canadesi è l’ultimo vincitore del premio che non risponda ai nomi di Myers o R.C. Buford, e anche in questa stagione ha fatto un eccellente lavoro nel mantenere i Raptors tra le prime squadre della Eastern Conference nonostante i problemi di infortuni. La sua candidatura sta soprattutto nei due scambi che hanno portato a Toronto Serge Ibaka e P.J. Tucker, due giocatori presi relativamente a basso prezzo (anche per i contratti in scadenza) che verranno utilissimi ai playoff, dove potrebbero anche chiudere le partite sul parquet all’interno di quintetti in grado di cambiare su tutti i blocchi. I frutti del lavoro di scouting di Ujiri stanno venendo buoni anche dalla panchina, con i giovani Norman Powell, Lucas Nogueira, Paskal Siakam e Delon Wright in grado di entrare in rotazione nel corso dell’anno. Non vincerà, ma l’ennesima sopra le 50 vittorie (la seconda in fila, dopo le due annate precedenti a quota 48 e 49 successi) merita un elogio.

Dennis Lindsey, Utah Jazz

Da quando l’ex assistente dei San Antonio Spurs ha preso il controllo della dirigenza nel 2012, i Jazz sono cresciuti gradualmente fino a “esplodere” in questa stagione da 50 vittorie alla pari degli L.A. Clippers. Tolti Hayward e Favors, tutti gli altri giocatori della rotazione sono stati scelti dal nuovo GM, tra cui le eccellenti prese di Rudy Gobert con la scelta numero 27 del Draft 2013, quella di Rodney Hood alla 23 un anno dopo e quella di Trey Lyles due anni fa. Nel suo passato ci sono anche due scelte discutibili come quella di Dante Exum alla 5 (ma la giuria è ancora in camera di consiglio) e Trey Burke alla 10 (lui definitivamente scartato), ma l’arrivo di George Hill ha dato una grossa mano alla squadra nonostante i tanti infortuni che hanno afflitto la sua stagione. Grazie ai contributi di veterani come Joe Ingles, Boris Diaw e Joe Johnson, i Jazz hanno una rotazione profonda e competitiva almeno per superare un turno di playoff.

Sam Hinkie, Philadelphia 76ers

No, non vincerà il premio, anche perché non è più impiegato nella NBA da quasi un anno. Eppure i semi piantati dal suo esperimento folle a Philadelphia negli ultimi tre anni si sono iniziati a intravedere solo da questo, con le prestazioni di Joel Embiid e Dario Saric (due dei tre candidati al premio di rookie dell’anno) ma anche con le conferme di suoi prodotti come Robert Covington (uno dei migliori difensori di questa stagione), T.J. McConnell e Richaun Holmes, ampiamente positivi quest’anno chiuso con un record accettabile di 28-53 (di cui 13-18 con Embiid in campo). Soprattutto, sono le scelte ottenute con gli scambi degli anni passati a sembrare più geniali ogni giorno che passa: i Lakers, con le recenti quattro vittorie in fila, hanno più probabilità di cedere la scelta di quest’anno piuttosto che di tenerla nella top-3; i Kings, dopo aver ceduto DeMarcus Cousins, hanno il 12.3% di possibilità di finire in top-3 (e i Sixers hanno la possibilità di scambiare la loro scelta con quella di Sacramento), ma soprattutto nel 2019 – quando molto probabilmente saranno ancora una squadra perdente – cederanno la scelta senza alcuna restrizione. Se i Sixers quest’anno hanno migliorato le loro prospettive, sempre in attesa che si palesi anche Ben Simmons, il merito è anche di Sam Hinkie.