Per l'allenatore di Golden State una vittoria festeggiata da sorrisi di gioia e lacrime di commozione. Per un'annata difficile, complicato, sofferta che però termina nel migliore dei modi: "Non ho mai avuto dubbi che questa squadra potesse funzionare"
OAKLAND — Quando i Golden State Warriors sono festanti sul palco in mezzo al campo, il Larry O’Brien Trophy pronto per essere alzato, e sul jumbotron della Oracle Arena viene inquadrato il volto — visibilmente commosso — di Steve Kerr, il pubblico della Dub Nation (come sono chiamati qui i tifosi degli Warriors) reagisce con uno dei boati più assordanti della serata. Questo titolo NBA è ovviamente del solito Steph Curry, è dell’MVP Kevin Durant, è di un incredibile Klay Thompson, del matto Draymond Green e dell’eterno Andre Iguodala, ma in maniera del tutto speciale è anche (e forse prima ancora) il titolo di Steve Kerr. La stagione più travagliata della sua carriera — e forse della sua vita — finisce con il secondo titolo NBA da capoallenatore (dopo cinque vinti da giocatore), ricompensa meritatissima: “Vincere è sempre fantastico e io ho avuto la fortuna di far parte di tante squadre vincenti ma stasera è un po’ diverso, per via di tutto quello che ho dovuto sopportare”, ammette l’allenatore di Golden State, alle prese con guai fisici tutt’altro che risolti che lo hanno a lungo tenuto lontano dalla panchina durante questi playoff. “Voglio prima di tutto congratularmi con i Cleveland Cavs, un fantastico gruppo di giocatori: l’anno scorso ci hanno spezzato il cuore, questa volta è stato il nostro turno. Siamo ovviamente felici, e lo potete intuire dai miei capelli bagnati…”, scherza, riferendosi alla consueta doccia di champagne appena subita in spogliatoio.
“Mai avuto dubbi che questa squadra potesse funzionare”
Incalzato sul significato speciale della vittoria per il pezzo più pregiato del mercato estivo degli Warriors, Kevin Durant, coach Kerr ha avuto parole grande ammirazione verso il suo n°35 — “KD ha avuto una stagione incredibile, tutti ovviamente sapevano quanto fosse forte dopo averlo visto giocare per gli ultimi 10 anni ma finché non fai l’ultimo passo e vinci un titolo c’è sempre qualcuno che può avere qualcosa da dire. Ora KD non solo ha vinto ma ha assolutamente dominato la serie finale: sono felicissimo per lui — ma come lo sono per tutti, da Patrick McCaw, capace di avere impatto in una gara del genere, a tutti gli altri”. Un gruppo che — assicura Kerr — “non è poi stato così difficile assemblare perché quando ti ritrovi giocatori di talento che sanno segnare, passare e palleggiare e sono estremamente altruisti tra loro è tutto sommato scontato che le cose vadano per il verso giusto. Non ho mai avuto un dubbio che questa squadra potesse funzionare bene assieme”. Così bene da essere capace anche di superare la tensione di un closeout game — “li conosco bene, ne ho disputati 7 in carriera, e c’è sempre molto nervosismo all’inizio” — arrivando a sciogliersi pian piano fino a entrare definitivamente nel flusso della partita: “Lo sapevo che sarebbe stata solo una questione di tempo prima di piazzare un parziale. Ne abbiamo fatto uno notevole nel secondo quarto [21-2, ndr] ed è stato decisivo”. Decisivo come lo stesso Kerr in panchina, guida spirituale oltre che tecnica di un gruppo che col proprio allenatore ha una sintonia e un rapporto speciale: “Il coach ha un cervello pazzesco — afferma nel dopo partita il veteranissimo Andre Iguodala — e come si fa con una cipolla, lui vuole togliere strato dopo strato per arrivare sempre fino al cuore delle cose. È bravissimo a comunicare e sa farlo in maniera diversa con ognuno di noi, perché ognuno di noi non è uguale a nessun altro”. Tranne che in una cosa: nell’essere campioni NBA per la stagione 2016-17.