Masai Ujiri è l’artefice del fenomeno Toronto Raptors, ma ancor prima è un prodotto del suo continente. La sua storia e il suo percorso sono tra i più incredibili di tutta la NBA.
“It’s a global game”: lo slogan che la NBA utilizza per le partite proposte fuori dai noti confini, buon ultima la sfida tra Boston Celtics e Philadelphia 76ers alla O2 Arena di Londra, trae legittimazione dall’effettivo carattere cosmopolita della lega. Avviatosi con l’affermazione dei primi giocatori europei a inizio anni ‘90, il processo di globalizzazione voluto e guidato con mano ferma dall’allora commissioner David Stern ha finito per ramificarsi un po’ ovunque.
Nell’ultimo decennio è caduto anche l’ultimo tabù, quello che voleva le proprietà delle franchigie ultima, insormontabile palizzata contro la commistione con il mondo. Tuttavia alcuni ruoli rimangono ancora oggi territorio quasi esclusivo del made in USA. Laddove gli staff tecnici, ormai aperti al reclutamento di personale proveniente dall’estero, appaiono premessa a uno sviluppo in tal senso anche per il ruolo di head coach, nell’ambito della categoria General Manager l’apertura internazionale sembra procedere piuttosto lentamente.
Oggi come oggi, contando l’ormai dimissionario Rick Cho (originario della Bimania ma trasferitosi negli States all’età di 3anni) a Charlotte, sono tre i posti occupati da dirigenti non statunitensi: Vlade Divac e Arturas Karnisovas vantano una carriera di altissimo livello, fattore che di certo ha pesato nel percorso successivo al ritiro (soprattutto nel caso del serbo, legato a Sacramento dai precedenti in maglia Kings). In entrambi i casi si tratta comunque di rappresentanti di nazioni con una formidabile storia cestistica, eredi di scuole come quelle slava e sovietica che hanno sempre costituito l’eccellenza al di fuori del contesto a stelle e strisce. Nessuno dei due ha però trovato continuità di successo, personale e di squadra, passando dal campo alla scrivania.
Chi invece può tranquillamente asserire il contrario, cioè d’aver invertito una parabola che l’ha visto prima giocatore mediocre e poi dirigente tra i più stimati, è Masai Ujiri. Unico non americano ad aver vinto il premio di Executive of the Year nel 2013, il GM dei Raptors porta sulle spalle una storia personale tutto fuorché banale. La sua è un’avventura di quelle in cui la tanto abusata metafora dell’underdog che a dispetto di mille ostacoli riesce a emergere non sembra forzata. Tanto per cominciare Ujiri, a differenza dei due illustri colleghi, arriva da un paese in cui il basket non è propriamente lo sport nazionale.
Positive Vibration
I bambini nigeriani, al pari di quelli del resto del continente, crescono con un solo, imprescindibile passatempo: il calcio. Anche il giovanissimo Masai trascorre interi pomeriggi a giocare sui campi dissestati di Zaria. L’infanzia del futuro GM dei Raptors è pura cronaca africana, anche se per sua fortuna manca l’elemento povertà: la famiglia Ujiri appartiene infatti a quella media borghesia formatasi grazie alla fiorente industria tessile tra gli anni ‘50 e ‘60 nel nord del paese. Quando l’infanzia cede il passo all’adolescenza, però, il giovane Masai viene folgorato da un connazionale che si afferma sull’altra sponda dell’oceano: anche Hakeem Olajuwon aveva cominciato come calciatore, ma la palla che gli regala notorietà e successo è un’altra, arancione e a spicchi.
Grazie alle vibrazioni positive emanate dall’incanto di “The Dream”, prima al college e poi tra i professionisti, il basket vive un vero e proprio boom che attraversa tutta l’Africa e Masai viene travolto in pieno. Questa passione lo accompagna nelle scelte scolastiche e verrà rafforzata da un incontro decisivo al momento dell’iscrizione universitaria: la Ahmadu Bello, l’ateneo più grande e prestigioso dell’intero paese, ha sede proprio a Zaria e diventa scelta quasi obbligata. Il comparto sportivo annovera anche una sezione dedicata al basket e Masai si presenta con largo anticipo al primo giorno del camp di reclutamento. L’allenatore della squadra, Oliver B. Johnson, rimane impressionato dal trasporto che Masai dimostra per ogni aspetto del gioco: il vincolo sentimentale che nasce tra i due è di quelli che si potrebbero definire come “mentore e pupillo”, e fortifica la determinazione del giovane Masai. L’opera persuasiva del coach è tale che, una volta concluso il percorso accademico, Masai decide di inseguire il sogno di una carriera da giocatore. Per farlo, considerato il livello agonistico locale e continentale, si vede costretto a lasciare l’amata patria.
Una recente sfida giocata sul parquet della Ahmadu Bello University: per comprendere il livello della competizione, si consiglia di osservare il coinvolgimento delle panchine e del tavolo arbitrale.
In quel momento il 23enne Ujiri non può saperlo, ma mentre prepara la valigia per il lungo soggiorno in America sta scrivendo una lettera d’addio. Anche se l’Africa resterà sempre parte integrante del suo carattere, da lì in poi le esigenze lavorative lo terranno lontano dal continente per il resto della sua carriera. Il suo percorso da studente/giocatore prima e da giocatore punto e basta poi passa dal North Dakota e dal Montana, per poi attraversare l’Europa dei campionati meno prestigiosi, concludendosi in Danimarca nel 2002. Ujiri è una guardia dal modesto talento ma dall’inesauribile voglia di mettersi alla prova, smania alimentata da un amore sconfinato per il gioco. Una volta riposti canotta e pantaloncini nel cassetto, l’idea che il suo futuro possa essere lontano dalla palla a spicchi non lo sfiora nemmeno.
Exodus
Esistono poche cose più africane dell’inventarsi qualcosa dal niente, qualità intrinseca per chi è cresciuto nel continente. In qualche maniera, Masai fa in modo di trovarsi alla Summer League di Orlando nel 2002: pur non ricoprendo alcun incarico ufficiale, se non quello che lo vorrebbe accompagnatore di fantomatici prospetti nigeriani, entra in contatto con Gary Brokaw, all’epoca responsabile del comparto scouting dei Magic. Brokaw, impressionato dalla spigliatezza del ragazzo, lo presenta a Doc Rivers e John Gabriel, rispettivamente capo-allenatore e GM della squadra. Tutti convengono sull’opportunità di coinvolgere Ujiri nell’attività di scouting a livello internazionale, non fosse altro perché il suo entusiasmo è una risorsa preziosa.
C’è un solo problema: la franchigia non ha alcuna intenzione di allargare il proprio staff tecnico. A Ujiri, quindi, viene proposto di collaborare sotto l’egida dei Magic ma a titolo completamente gratuito. L’occasione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire e Masai si arrangia come può, mantenendosi con i risparmi della modesta carriera da giocatore e praticando un esodo perpetuo su divani-letto di connazionali e amici sparsi lungo la costa est. Durante uno dei tanti pellegrinaggi sui campi dell’allora D-League incontra Jeff Weltman, giovane dirigente di Denver che lo prende in simpatia e ne tesse le lodi con Kiki VanDeWeghe. L’ex-cecchino di Blazers e Knicks sta portando avanti un rinnovamento radicale nel front office dei Nuggets, reduci da un decennio nefasto: Ujiri diventa ufficialmente scout internazionale per la franchigia e nelle quattro stagioni trascorse in Colorado dimostra di possedere un fiuto non comune nell’orientare le scelte tecniche.
Bryan Colangelo, deus ex machina dei Raptors, lo vuole con sé a Toronto nel ruolo di assistente GM. Ujiri rimane in Canada due anni, prima di tornare a Denver dove ad attenderlo, questa volta nel ruolo di vice presidente, c’è la grana Carmelo Anthony. L’ex-Syracuse, scelto proprio da VanDeWeghe al Draft 2003, è l’uomo simbolo dei Nuggets ma ha un contratto in scadenza a giugno dell’anno successivo e una voglia molto limitata di continuare a giocare in una piazza mediatica che, a suo parere, ne preclude il salto definitivo nel gotha della lega. I contorni dello scambio che subito dopo l’All-Star Game 2011 spedisce ‘Melo a New York in cambio di una batteria di giocatori utili sono piuttosto noti e, in retrospettiva, rappresentano il primo colpo gobbo di Ujiri ai danni dei Knicks.
Quello che la trade machine di Sports Center non può prevedere è che Ujiri farà saltare il banco paventando un fantomatico accordo tra ‘Melo e i Brooklyn Nets, prospettiva che fa uscire di testa i Knicks rendendoli disponibili quasi a tutto.
Le scelte di mercato e i risultati maturati nelle due stagioni successive gli valgono la nomina come miglior dirigente nel maggio 2013, forte di una squadra equilibrata e profondissima in grado di registrare il miglior record nella storia della franchigia con 57 vittorie. È il momento della svolta per il ragazzo da Zaria: subito dopo aver vinto il prestigioso premio, Ujiri accetta l’offerta dei Raptors e torna in Canada, questa volta per sostituire proprio Colangelo nel ruolo di GM. La missione affidatagli è quella di rilanciare una franchigia che vive un momento di stanca.
Waiting in Vain
Il coraggio che sconfina con l’imprudenza e una certa dose di sfrontatezza, anche queste caratteristiche riconducibili alle sue radici, non fanno certo difetto a Ujiri. Lo scambio con cui si è dato l’addio a Carmelo Anthony ne è l’esempio più concreto e, una volta tornato in Canada, il nuovo GM dei Raptors non tarda a replicare, seppur in piccolo, una tattica spregiudicata simile a quella che ha avviato il radicale rinnovamento dei Nuggets. A fare le spese del vigore riformista sono Andrea Bargnani e Rudy Gay, fin lì prime punte della squadra. Gay va a Memphis in cambio di spicci mentre l’ex-Treviso, unica prima scelta assoluta al Draft nella storia dei Raptors, viene spedito a New York in quella che si rivelerà essere la fase 2 di un ben congegnato e mai confessato piano di sabotaggio dei Knicks (per quanto la riuscita del piano risulti facilitata dalla comprovata tendenza all’auto-distruzione della franchigia newyorkese). Al tavolo verde del mercato Ujiri scommette forte, senza la paura di eventuali pentimenti postumi. L’identità tattica viene rimodellata attorno al backcourt formato da Kyle Lowry - anche lui vicino all’addio verso la Grande Mela, prima che i Knicks si tirassero indietro per timore di essere “gabbati” per la terza volta - e DeMar DeRozan, oltre alla presenza nel pitturato del giovane lituano Jonas Valanciunas. I risultati sono subito sorprendentemente buoni e i Raptors finiscono al terzo posto della Eastern Conference: l’eliminazione per mano dei Brooklyn Nets, nondimeno, è solo il primo passo di un rapporto difficile con i playoffs - un rendimento controverso che segna la vana attesa di riscatto almeno fino a quest’anno, capitolo ancora tutto da scrivere.
Redemption Song
La stagione successiva l’eliminazione arriva al primo turno arriva per mano degli Washington Wizards con un secco 4-0, quindi per due volte i ragazzi di Ujiri sbattono contro il loro Chuku. Quello che per gli Igbo, tribù che fino all’arrivo dei coloni europei abitava la terra in cui il GM di Toronto è cresciuto, era la divinità suprema a cui sottomettersi, per i Raptors è LeBron James. E l’ultima, di eliminazione, segna un punto di svolta per Ujiri e per la franchigia tutta: il secco 4-0 subito dai Cavs nella semifinale di conference, ennesima delusione dopo una regular season conclusa con il medesimo record di LBJ e compagni, fa scattare qualcosa. In conferenza stampa post-gara 4 di Ujiri smentisce con forza la teoria secondo cui, in fondo, alla dirigenza di Toronto l’andazzo che li vede rimanere comunque presenza fissa nella post-season, vada tutto sommato bene.
La prima decisione da prendere è quella relativa ai contratti in scadenza di Lowry e Ibaka: la struttura salariale in essere e la relativa attrattiva esercitata dai Raptors sui free agent appetibili non lasciano molta scelta, e per questo Ujiri opta per concedere un ricco triennale ad entrambi. Di spazio per ulteriori acquisizioni non ne resta molto, visto che i due rinnovi, con i loro 154 milioni di dollari, coprono il cap per il triennio successivo allineando le scadenze dei contratti relativi a buona parte del roster. DeMarre Carroll, costosissimo investimento effettuato due anni prima, viene spedito a Brooklyn e, pur di liberarsi dell’oneroso ingaggio dell’ex-Atlanta, Toronto lascia sul tavolo una prima e una seconda scelta al Draft del 2018. P.J. Tucker e Patrick Patterson vengono lasciati liberi di trovare casa altrove, mentre Cory Joseph viene scambiato con Indiana in cambio della firma di C.J. Miles.
Il mercato estivo architettato da Ujiri, in definitiva, potrebbe essere definito gattopardesco: l’impressione iniziale era che i pochi movimenti effettuati non apparissero molto in linea con il proposito di cambiamento sbandierato nella famosa conferenza stampa, che volessero avere un effetto di sconvolgimento ma senza cambiare proprio tutto. Certo, al di là del trio formato da Lowry, DeRozan e Ibaka, il resto del roster conta sette giocatori su undici sotto i 25 anni, e complessivamente solo due hanno superato la soglia dei 30, ma gli equilibri complessivi non sembrano essersi spostati poi molto.
Quello che al momento non è dato comprendere è che il progetto di Ujiri, caso unico nel suo genere, prevede come linea guida un cambio di mentalità piuttosto che di personale. Il rinnovamento coinvolge anche comparti solo in apparenza marginali come quelli dello scouting, dello sviluppo giocatori e dello staff medico. Al centro, tuttavia, rimane l’intenzione di modificare uno stile di gioco produttivo in regular season ma fin lì prevedibile nei momenti decisivi dei playoff. Facile solamente in teoria, questo cambiamento sembra destinato ad andare incontro a enormi difficoltà nella sua applicazione pratica: l’equilibrio richiesto per redimersi e avanzare tra la necessità di mutare la propria identità tattica costruita nel corso degli anni, e l’esigenza di far coesistere un gruppo di veterani che vuole vincere subito con tanti giovani da sviluppare, è da acrobati provetti. Pur camminando su un filo sottile, contro ogni aspettativa, i Raptors sembrano finora essere risusciti nell’impresa.
Oltre ai risultati concreti, è anche il livello di spettacolarità del gioco dei Raptors a essere cresciuto in maniera esponenziale.
Sun is shining
Nel momento in cui scriviamo, quella che va a concludersi è già la miglior regular season di sempre e le previsioni meteo per la primavera annunciano giornate di sole su tutto l’Ontario. Al comando della Eastern Conference, i ragazzi di Casey si giocano con i Golden State Warriors il secondo miglior record della lega alle spalle degli irraggiungibili Houston Rockets. Reduci da due stagioni comunque ottime, chiuse rispettivamente con 56 e 51 vittorie, i canadesi hanno tenuto fede alla promessa di cambiare pelle e i risultati sono arrivati di conseguenza: tutte le statistiche, dal ritmo tenuto (100.06 possessi a partita contro i 97.11 del 2016-17) all’utilizzo del tiro da tre (32.8 i tentativi di media contro i 24.3 della scorsa stagione) fino ai rating offensivi e difensivi (migliorati rispettivamente di 1.5 e 2 punti in media), raccontano di come la nuova versione dei Raptors, più in linea con l’attuale interpretazione del gioco, funzioni a pieno regime.
Il dato più significativo in questo senso è il plus-minus di squadra, passato nel giro di 12 mesi da +4.2 a +8.6. E ancora più stupefacente è il particolare dei singoli giocatori: tra quelli utilizzati stabilmente nelle rotazioni, l’unico a registrare un saldo negativo, peraltro minimo (-0.2) è Norman Powell. E l’ex-UCLA è anche protagonista di un’altra statistica in controtendenza rispetto ai compagni, forse ancora più sbalorditiva: tra gli appartenenti alla cosiddetta second unit, infatti, Powell è l’unico ad aver visto ridursi il minutaggio (16.1 contro i 18 dello scorso anno). Gli altri protagonisti dalla panchina, viceversa, hanno registrato miglioramenti sostanziali a partire da Fred VanVleet (19.8 contro i 7.9 dello scorso anno), Delon Wright (20.9 contro 16.5), Pascal Siakam (20.4 contro 15.6) e Jakob Poeltl (18.3 contro 11.6). La fiducia dimostrata dallo staff tecnico verso i cosiddetti “rincalzi” ha permesso di risparmiare energie, consentendo di diminuire sensibilmente l’utilizzo di uomini chiave come Lowry, passato da 37.4 a 32.1 minuti di media, Ibaka (27.4 rispetto ai 30.7 del 2016-17) e Valanciunas (22.6 contro 25.,8).
La mano di Casey, candidato numero 1 al premio di allenatore dell’anno, è evidente in questo balzo evolutivo, ma il merito strategico d’aver posto le premesse affinché tutto questo potesse succedere ricade senza dubbio sulle spalle di Ujiri. Così come risulta chiaro il fine ultimo a cui il nigeriano mira senza tanti giri di parole: vincere il titolo NBA. E il GM sa benissimo che per arrivare ad alzare il Larry O’Brien Trophy partendo da Est è necessario superare due ostacoli non da poco, ovvero LeBron James, il Chuku di cui sopra, e quindi uno dei super team che spadroneggiano sull’altra costa, che si chiami Golden State o Houston non fa poi molta differenza. Per portare a termine questa missione in precedenza risultata impossibile, oltre a tutti i miglioramenti già in atto, servirà dimostrare una temerarietà fino ad oggi vero punto debole dei Raptors. E in fondo il vero reset culturale auspicato potrebbe essere proprio questo: l’aver estirpato la paura dall’animo di DeRozan e compagni. In questo senso, la prova del nove saranno i playoff, inesorabile banco di prova pronto a sancire il successo o il fallimento del progetto avviato la scorsa estate. Per cautela, Masai pare non aver preso impegni fino a fine giugno: da lì in poi, successo o meno, la sua estate avrà ancora una volta i colori e i profumi delle sue origini.
Africa unite!
Che la carriera e giocoforza la vita di Masai Ujiri sia destinata a continuare da quella parte dell’oceano è un dato di fatto. Allo stesso tempo, tuttavia, il GM dei Raptors non ha mai nascosto di voler mantenere vivo il legame con il suo passato. A dire la verità, c’è stato un momento in cui il ritorno in pianta stabile sul suolo africano si era fatto ipotesi più che concreta: terminata la collaborazione con gli Orlando Magic, Masai è pronto ad accettare la proposta di lavorare per la lega negli uffici nuovi di zecca a Johannesburg. Il nigeriano, già all’epoca conosciuto e apprezzato nell’ambiente, prima di firmare ha un colloquio nell’ufficio di Adam Silver, vice commissioner, con cui germoglia un vero e proprio rapporto d’amicizia. Ed è proprio Silver a convincere il futuro GM a rimanere negli Stati Uniti, perché per uno con quelle capacità si sarebbe presto aperta un’opportunità. La profezia di Silver si materializza nel giro di pochi anni e nel frattempo Masai diventa prima direttore del progetto Basketball Without Borders per l’Africa e poi, non contento, fonda un progetto tutto suo. Ispirato da Nelson Mandela e dai suoi cinque pilastri del cambiamento (sport, leadership, comunità, libertà e futuro) dà il via a Giants Of Africa.
I primi camp hanno luogo in Sud Africa e nella sua Nigeria, ma nel corso degli anni vengono estesi a Rwanda, Kenya, Costa d’Avorio, Senegal e Uganda. Il percorso proposto a bambini e adolescenti non prevede solo laboratori sportivi, quanto lezioni di educazione civica e alfabetizzazione delle fasce meno abbienti di popolazione. L’idea di Ujiri, che non perde occasione per ribadire di sentirsi orgogliosamente “figlio dell’Africa”, è quella di fare da apripista per chi verrà dopo di lui, nella convinzione che anche per chi proviene da quelle situazioni difficili debba essere possibile raggiungere traguardi ambiziosi. E l’obiettivo di dare un segno di discontinuità rispetto all’abusata concezione del continente appare realistico ora come non mai. L’NBA stessa, d’altronde, è pronta a essere conquistata dal camerunense Joel Embiid e da Giannis Antetokounmpo, greco di passaporto ma d’indole africana fino al midollo nell’attitudine mostrata con la palla in mano e nel rapporto coi media, recente protagonista di una puntata dello storico show 60 Minutes.
L’esperienza di Giants Of Africa è poi diventata un meraviglioso documentario in cui è possibile respirare l’atmosfera del progetto realizzato sul campo. Quello di Ujiri è un impegno gravoos, tant’è vero che lui stesso ha recentemente considerato l’ipotesi di defilarsi dal ruolo organizzativo. A dissuaderlo, insistendo sulla straordinaria importanza del compito svolto, questa volta è stato R.C. Buford, collega dei San Antonio Spurs e compagno di lunghe chiacchierate. Seppur a fatica, quindi, l’ex-delfino di VanDeWeghe e Colangelo porta avanti il suo impegno e la sua visone con una lucidità che lo ha già reso punto di riferimento, in Africa e non solo.
Get Up, Stand Up
Proprio come non ha paura di sfidare LeBron e i superteam dell’ovest, fuori dal parquet Ujiri non ha mai tentennato quando si è trattato di esporsi a favore delle cause in cui crede. Dal supporto alla comunità LGBT fino al convinto appoggio alle lotte contro le discriminazioni di genere (il front office dei Raptors vanta una cospicua presenza femminile, anomala rispetto al resto della lega) passando per la replica poco diplomatica data al presidente Donald Trump dopo la gaffe sulle “shithole countries”, sono diverse le occasioni in cui il GM di Toronto ha messo in mostra una robusta coscienza sociale. E, come nel suo stile, Ujiri non si è limitato a dichiarazioni pubbliche d’intenti: il suo agire ha avuto fin dall’inizio un piglio concreto. Ne è prova il lancio del programma “Welcome Toronto”, nato per finanziare la costruzione di palestre e campi da gioco in una delle zone meno fortunate della città come i Remix Projects.
Grazie anche al supporto di Drake, nuovo simbolo dei Raptors, nel giro di pochi mesi sono stati raccolti oltre 3 milioni di dollari che hanno consentito di avviare le opere non solo nell’area cittadina, ma addirittura di ampliarne il raggio d’azione verso Chicago. Che si tratti del cuore rurale dell’Africa o dei quartieri difficili della città che ha ormai eletto a seconda dimora, insomma, la priorità è sempre quella di prendersi cura di bambini e adolescenti, aiutandoli a costruire il loro domani nel miglior modo possibile. E questa attenzione verso gli altri, questa generosità nell’offrire possibilità alle persone che ha intorno è forse davvero il suo tratto distintivo. A ben vedere, infatti, i risultati raggiunti gli consentirebbero di esercitare un potere pressoché assoluto sulla franchigia, ma a fare la differenza è il modo in cui Ujiri utilizza questa posizione di predominio: non per trarne vantaggio personale, bensì per allargare la rete di relazioni e rapporti. Con questo tipo di premesse, il lungo percorso che l’ha portato dal nord della Nigeria alle soglie dell’elite NBA sembra ben lontano dall’essere giunto al termine. Ad ogni modo, una cosa è sicura: la sua carriera di dirigente è ormai decollata, ma i piedi di Ujiri rimangono ben piantati sulla terra natìa.