Please select your default edition
Your default site has been set

NBA, Enes Kanter attacca di nuovo la Turchia: "Erdogan non mi fa paura, non starò zitto"

NBA

Il nuovo giocatore dei Celtics ha raccontato in un articolo pubblicato dal Boston Globe le continue pressioni, le minacce e le offese ricevute in questi mesi: “Più cresce la pressione attorno a me, più alzerò la voce”

TURCHIA, KANTER "SCOMPARE" DAI SOCIAL UFFICIALI NBA

In un momento così complicato per la NBA nella gestione dei rapporti con potenze e regimi stranieri (ogni riferimento alla Cina non è puramente casuale), torna a parlare anche Enes Kanter - da anni ormai in prima linea nella battaglia contro il presidente turco Erdogan. Il nuovo giocatore dei Boston Celtics, senza passaporto e costretto da mesi a restare negli USA per evitare problemi con la polizia del suo Paese che gli dà la caccia dopo averlo inserito nella lista dei terroristi da perseguitare, ha scelto di affidare le sue parole al Boston Globe. Un articolo scritto in prima persona e firmato dal n° 11 biancoverde, in cui raccontare una realtà non semplice da affrontare e in cui con continue pressioni cercano invano di mettere all’angolo la sua protesta: “Come posso restare in silenzio? Ci sono decine di migliaia di persone in prigione in Turchia, tra cui professori, dottori, giudici, avvocati, giornalisti e attivisti. Sono rinchiusi soltanto perché hanno detto di non essere d’accordo con Erdogan. Centinaia di bambini stanno crescendo all’interno di celle strette e anguste al fianco delle loro madri. Democrazia vuol dire avere il coraggio e la libertà di parlare, non dover essere rinchiusi in galera per questo”. Parole che arrivano in un momento di forte tensione a livello internazionale: la Turchia infatti è impegnata nell’invasione del nord della Siria - zona a prevalenza curda che Erdogan vuole conquistare e usare per la gestione dei flussi migratori dal Medio Oriente. Una decisione unilaterale che ha portato alle proteste dell’intera comunità internazionale, a partire dall’Unione Europea, dalla Russia e dagli Stati Uniti. Al tempo stesso però gli USA hanno deciso di ritirare il proprio contingente militare da quell’area, lasciando così spazio all’avanza dei soldati turchi. Decisioni controverse e una tensione nei rapporti internazionali che potrebbe aumentare con il passare dei giorni.

Le offese fuori dalla moschea a Boston

Uno degli episodi citati da Kanter nel pezzo è relativo alla sua permanenza in Massachusetts, la nuova casa dove è giunto al termine della positiva parentesi sul parquet a Portland. “Andare a pregare in moschea il venerdì non è semplice - spiega - spesso mi ritrovo accerchiato da persone che mi urlano contro “Sei un traditore”, come accaduto qualche giorno fa. Erano dei sostenitori di Erdogan e non è stato un incidente isolato nel suo genere. Lo scorso mese infatti alcuni ministri turchi hanno tenuto un incontro pubblico con la comunità presente a New York, in cui hanno spiegato i tentativi di zittirmi e di cancellare gli eventi che sto organizzando negli USA. I ministri hanno iniziato ad aizzare la folla contro di me e uno dei partecipanti ha indicato il nome della moschea che frequento a Boston. Per quello non mi sono sorpreso quando ho trovato quella gente lì ad aspettarmi. Il consolato inoltre continua in tutti i modi a convincere le autorità statunitensi a mettermi un bavaglio, a fermare la mia opera di dissenso. Più cresce la pressione su di me però, più alzo la voce. Le minacce non sono un deterrente per me, stanno sprecando il loro tempo”. 

Kanter e l’impegno nella comunità USA: “Il basket è la mia via di fuga”

Una situazione pesante, complicata da gestire per un ragazzo che dovrebbe pensare soltanto alla pallacanestro e non preoccuparsi delle persone che lo seguono per strada. “Sono grato dell’opportunità che mi è stata data di poter vivere negli USA - prosegue - questa nazione mi ha dato tantissimo, sin da quando sono sbarcato qui da ragazzo. Per questo mi sento in dovere di dover restituire qualcosa alla comunità. Per tutta l’estate ho girato in lungo e in largo: 50 camp di pallacanestro in 30 stati federali, provando a trasmettere messaggi positivi ai ragazzi. Il basket è la mia via di fuga, il posto in cui tutti continuano a essere gentili e riconoscenti nei miei confronti. Devo ringraziare tutti, compresi i politici, i giornalisti, gli attivisti e i tifosi che mi danno forza in questo periodo complicato. Mi spingono ad andare avanti, mi danno una carica in più anche quando scendo in campo. Ho la fortuna di essere sotto i riflettori e di sfruttare questa piattaforma per promuovere i diritti umani, la democrazia e la libertà personale. È una cosa molto più importante del pallacanestro. Essere il portavoce di questi ideali per un turco vuol dire rischiare la prigione e la violenza da parte dei militari. Mi hanno chiamato terrorista, hanno chiesto all’Interpol di arrestarmi. Starei marcendo in galera se fossi tornato in Turchia. Restare lontano dalla mia famiglia è un sacrificio enorme, una sfida complicata da vincere. Ma le cose buone non ti vengono mai regalate, non sono mai semplici da conquistare. Mai”.