L'ex MVP NBA in maglia Bulls è tornato nella sua Chicago in occasione del weekend delle stelle (nonostante un infortunio gli impedisca di partecipare allo Skills Challenge). E la point guard dei Pistons sale in cattedra in un'università locale per aggiungere la sua voce "al dibattito sulla sanità mentale"
Non farà (ufficialmente) parte dell’All-Star Weekend – annullata la sua prevista partecipazione allo Skills Challenge per via di un guaio fisico – ma non è pensabile una tre giorni NBA nella sua Chicago senza Derrick Rose. Soprattutto ora che in maglia Pistons sembra tornato neppure troppo lontano dai livelli di eccellenza del passato (oltre 18 punti a sera con quasi 6 assist ma soprattutto il 49% al tiro, miglior dato di carriera). E allora l’ex MVP NBA a Chicago ci è andato comunque (“Sembra da pazzi, ma volevo gustarmi il freddo della mia città, e stare vicino a mio figlio ovviamente, far sentire la mia presenza in città”): sarà chiamato a presentare il libro scritto insieme allo storico giornalista locale Sam Smith (“I’ll show you”) ma soprattutto è salito sul palco della University of Chicago-Illinois per “normalizzare il dibattito attorno al tema della sanità mentale, soprattutto all’interno delle comunità di colore”. Perché la psiche di Derrick Rose – è lui il primo oggi ad ammetterlo – è delicate, forse anche labile, frutto di traumi infantili che la point guard ex Bulls ha finalmente accettato di raccontare: “Da ragazzino a casa mia, e in generale nel mio quartiere, succedevano cose che mi hanno lasciato una sorta di stress post-traumatico [come quello che spesso colpisce i soldati al ritorno da esperienze di guerra, ndr]. Magari io ero al piano di sotto e sopra sentivo dei rumori che mi spaventavano, perché pensavo che qualcuno stesse aggredendo mio cugino oppure questa ragazza che era solita farsi coinvolgere in ogni rissa – e io temevo che qualcuno arrivasse a vendicarsi. Ancora oggi appena sento dei rumori in casa sono terrorizzato, soprattutto di notte”.
Il periodo buio: l’idea di lasciare la lega, la rottura con Chicago
La stessa sincerità espressa da Rose relativamente ad alcuni aspetti personali della sua vita ha contraddistinto anche alcune dichiarazioni sul weekend delle stelle che prende il via stanotte: “Più delle varie attività, che altro non sono che propaganda, io mi godo la città”, ha detto il nativo di Chicago. Per poi però chiarire: “Non fraintendetemi: far parte dell’All-Star Weekend è un grande onore, un obiettivo di cui andare fieri, ma nel grande schema delle cose queste cose finiscono per essere solo propaganda. Io mi sono fatto da solo, e questo mi permette forse meglio di capire cosa voglio davvero e che tipo di persona sto diventando”. Una persona – confessa Rose – che nel passaggio tra Knicks e Cavs (nel 2016) ha avuto “la tentazione di mollare tutto”, finendo poi per compromettere anche per un breve periodo il suo rapporto con la città di Chicago. “Ora per fortuna è tutto risolto, ma le mie vibrazioni per un periodo non erano quelle giuste e allora finivo per farmi condizionare da tutto quello che sentivo e vedevo di negativo attorno a me o su di me: un approccio negativo, che maturando sono riuscito a modificare, cambiando come persona”.
L’anonimato e la libertà negata
Per questo la lezione che Derrick Rose oggi si sente di dare è questa: “Attenti a quello che pensate di volere e desiderare, perché poi si può non essere pronti per le conseguenze”. In particolare il giocatore dei Pistons rimpiange un anonimato che insegue come condizione ideale, impossibile nella sua quotidianità: “Non posso andare da nessuna parte, e io odio dover vivere confinato da certi limiti. Quando vado in vacanza e vedo un dentista, una persona qualsiasi, godersi in totale relax quel momento, sono geloso di questa condizione perché so nel mio profondo di desiderare quel tipo di libertà – ma so anche di non poterla avere”.