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NBA, intervista a Pau Gasol: "Un grande onore l'ingresso nella Hall of Fame"

NBA

Dario Costa

©Getty

In vista della sua imminente introduzione nella Basketball Hall of Fame di Springfield, il due volte campione NBA ha provato a ripercorrere le tappe della sua lunga carriera. Tra ricordi e aneddoti, Gasol ha raccontato la sua visione del basket di ieri, oggi e domani

Non che ci fossero molti dubbi, anzi non ce n’erano proprio: dal 5 ottobre del 2021, ovvero dal giorno in cui ha annunciato ufficialmente il suo ritiro, era scontato che il nome Pau Gasol sarebbe stato inserito nella Basketball Hall of Fame. Anche perché Gasol è uno dei rari casi in cui, anche isolando e scegliendo solo uno dei suoi due percorsi cestistici, quello in NBA e quello con la nazionale, il giocatore avrebbe comunque vantato tutti i requisiti per l’ingresso tra i grandi della storia. Trofei di squadra e premi individuali riempiono una bacheca che ha davvero pochi eguali e, ancor di più, nell’arco di una carriera durata quasi un quarto di secolo, per quanto ha ottenuto sul campo e per come l’ha ottenuto, Gasol si è guadagnato un rispetto pressoché unanime su entrambe le sponde dell’oceano. La cerimonia in programma il prossimo 12 agosto, dove lo spagnolo verrà introdotto da un’altra leggenda europea dalla straordinaria carriera in NBA come Toni Kukoc, è solo l’ultimo suggello, di certo il più prestigioso, per un autentico gigante del basket. In occasione del suo ingresso a Springfield, Gasol ha provato a riflettere sul suo cammino in Europa e negli Stati Uniti e sul basket di ieri, di oggi e di domani.

 

Quali sensazioni hai in vista della tua introduzione nella Basketball Hall of Fame e quanto ti manca il tuo amico Kobe Bryant in un momento così importante (Gasol indossa una t-shirt celebrativa “Kobe 24” durante l’intervista N.d.A.)?

 

"Mi manca molto, ovviamente. Quanto alla Hall of Fame sono veramente felice e orgoglioso di entrarci, ma per il momento forse ancora non me ne rendo conto. Abbiamo giusto fatto qualche prova per la cerimonia ufficiale, le emozioni vere arriveranno nei prossimi giorni, credo".

 

Oggi la presenza di giocatori non americani in NBA è forte e tante delle stelle più affermate, da Doncic ad Antetokounmpo passando per Jokic, arrivano dall’Europa. Molti di loro, Jokic in testa, hanno sottolineato come l’approccio alla professione di giocatore rimanga comunque un elemento che differenzia europei e americani. Qual è il tuo punto di vista sulla questione?

 

"C’è effettivamente una differenza sostanziale, che potremmo riassumere così: gli americani vivono per lavorare, noi europei lavoriamo per vivere. È un atteggiamento che si ritrova anche nello sport e ovviamente nel basket. Nella mia esperienza i giocatori europei danno più importanza al tempo da trascorrere in famiglia, per esempio, anche se credo che in generale negli ultimi anni tutti stiano rivedendo la loro scala di valori. Mi sembra che ultimamente si stia andando in una direzione più vicina alla concezione europea del rapporto tra lavoro e vita, e credo sia la direzione giusta. Le differenze, poi, si fanno sempre più sottili: non importa da dove vieni o dove sei cresciuto, ciò che importa sono le idee che porti avanti e la loro forza".

 

Torniamo indietro nel tempo: Barcellona, 1992. Le Olimpiadi nel tuo giardino di casa e il Dream Team che sconvolge il mondo, del basket e non solo. Pensi che quell’evento abbia in qualche modo influenzato la tua scelta di diventare un giocatore di basket?

 

"All’epoca avevo 12 anni, quindi la mia percezione di quanto stava accadendo era vaga. Di certo, però, sapere che tutti quei campioni leggendari erano lì, a breve distanza da casa mia, mi ha ispirato. Non ero presente a nessuna delle partite giocate dal Dream Team, ma il fatto che fossero giocate a Barcellona è stato straordinario. Se quelle Olimpiadi si fossero giocate altrove, per me non sarebbe stato lo stesso, questo è sicuro".

 

Rispetto a quando sei entrato tu in NBA (nel 2001 N.d.A.), il gioco è molto cambiato. Ai lunghi viene chiesto di fare cose diverse rispetto a quelle a cui erano abituati quelli della tua generazione. Come ti troveresti in questo nuovo contesto e credi che il ruolo dei lunhgi possa cambiare ancora in futuro?

 

"Credo che andrei alla grande (sorride N.d.A.)! Il mio repertorio è sempre stato molto vario, ad esempio ero un buon passatore e sapevo tirare fronte a canestro. Certo, per le esigenze del tempo ho dovuto prima di tutto sviluppare il gioco in post basso, ma sono sicuro che non avrei problemi ad adattarmi al gioco di oggi. Per il resto credo che si tratti sempre di cicli, quindi è probabile che un domani tutto cambierà ancora. Sicuramente mi farebbe piacere vedere più lunghi tra i protagonisti della NBA".

 

Che consiglio daresti a Victor Wembanyama?

 

"Lavora sodo. Questa è sempre la prima cosa: lavorare sodo. Lui ha la fortuna di essere capitato nel posto giusto, dove sarà circondato dalle persone giuste. Certo, subirà anche molta pressione perché ci sono grandi aspettative su di lui. Ma la pressione e le aspettative significano una cosa sola: che sei speciale".

 

Hai un background familiare molto particolare, tua madre era medico e tuo padre infermiere. Tu e tuo fratello Marc, fuori dal campo, siete sempre stati molto attivi nel sociale con varie iniziative, dimostrando che i vostri genitori vi hanno trasmesso la predisposizione ad aiutare gli altri, a prendervene cura. Pensi che quel tipo di predisposizione abbia influenzato anche il tuo stile di gioco in campo, notoriamente improntato all’altruismo e al gioco di squadra?

 

"È probabile, voglio dire: in fondo ciò che sei come persona si riflette anche nelle cose che fai e quindi anche nel modo in cui giochi. L’influenza dei genitori è sicuramene un fattore per tutti, atleti compresi. E poi, per quanto mi riguarda, ho capito in fretta che il basket era uno sport di squadra e che giocare di squadra mi avrebbe garantito maggiori possibilità di vincere e di avere successo. Se ho imparato una cosa nel corso della mia carriera, è che a distinguere i buoni giocatori dai campioni è proprio l’abilità di migliorare i compagni di squadra, di far sentire tutti coinvolti e di aiutarli a esprimere al massimo le loro potenzialità".

 

A quasi due anni dal tuo ritiro, come vedi il futuro di Pau Gasol?

 

"Sono ancora in una fase esplorativa. Ho diversi impegni nel mio ruolo di ambasciatore, sia per la FIBA che per la NBA, e questi impegni occupano gran parte del mio tempo. Ho dei discorsi avviati con diverse squadre, ma al momento non ho ancora individuato quale potrebbe essere il ruolo giusto per me in quei contesti. Se dovessi trovarlo, però, sarei pronto a tornare nel mondo del basket".

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