Il nome di Andrew Bogut richiama subito alla memoria Golden State, con il titolo vinto nel 2015 a rappresentare l’apice di una carriera in realtà molto più lunga e articolata. Prima scelta assoluta al Draft del 2005, il centro australiano ha scritto anche pagine importanti con la maglia della nazionale. Per Sky Sport ha provato a ripercorrere alcune tappe del suo percorso sul parquet e a dire la sua sull'evoluzione del gioco e della NBA in particolare
Per molti, forse per la maggior parte di appassionati e tifosi, Andrew Bogut è il centro dei Golden State Warriors campioni NBA 2015, l’unico vero lungo a poter restare in campo al fianco di Steph Curry, Klay Thompson e soci. La carriera del centro australiano, prima scelta assoluta al Draft del 2005, va però oltre l’avventura sulla Baia e alterna una lunga esperienza con cinque squadre diverse in NBA e con la maglia della nazionale, di cui è stato un perno fin da giovanissimo. Ai microfoni di Sky Sport, Bogut ha ripercorso alcune tappe del lungo percorso che da Melbourne l’ha portato alla vetta più alta del basket professionistico, provando a dire la sua anche sull’evoluzione del ruolo dei lunghi nel gioco contemporaneo.
Torniamo indietro al 2003, ovvero a quando da MVP della manifestazione hai guidato l’Australia alla sua prima e unica vittoria ai Mondiali FIBA Under 19. Qual è la tua prospettiva sul percorso fatto dalla pallacanestro australiana in questi due decenni e come vedi il futuro del basket ‘down under’?
“Sono stati vent’anni incredibili per la pallacanestro del mio paese. Prima di me l’unico giocatore ad aver avuto successo, anche in NBA, era stato Luc Longley. Quando sono stato scelto in cima al Draft è stato incredibile, da lì in poi un numero sempre maggiore di giocatori australiani ha cominciato ad arrivare in NBA, penso per esempio a David Andersen e Patty Mills. E quando io ero ormai diventato un veterano, avevamo nove o dieci australiani nella lega, che è un risultato incredibile per una nazione di venticinque milioni di abitanti e così lontana dagli Stati Uniti. E oggi, addirittura, non serve più nemmeno andare per forza al college: Joe Ingles è passato prima dall’Europa, Dante Exum ha fatto la spola tra NBA ed Europa, Josh Giddey è partito dal campionato australiano. Ora il rischio sta nel dare tutto questo per scontato, io credo invece che a livello di giovanili occorra continuare a lavorare sempre in maniera più efficace e, chissà, magari arrivare un giorno ad avere anche venti australiani in NBA”.
Andiamo un po’ avanti nel tempo, al 2015, quando ovviamente hai vinto il titolo con i Golden State Warriors. Tu sei stato un pezzo fondamentale di quel sistema di gioco così unico adottato dagli Warriors e da allora molte cose sono cambiate, ma l’unico centro davvero in grado di adattarsi a quel sistema dopo di te è stato Kevon Looney. Altri giocatori, anche molto talentuosi come DeMarcus Cousins e James Wiseman, non ce l’hanno fatta. Perché secondo te?
Non dimentichiamo il mio amico Zaza [Pachulia], che ha fatto un ottimo lavoro nei suoi anni a Golden State! Per giocare in quel sistema devi essere capace di fare due cose: trattare la palla e passarla. Oltre a quello devi avere un QI cestistico decente che ti permetta di leggere quanto sta succedendo in campo, e in difesa ti devi adattare a giocare con fenomeni come Draymond Green. Non è cosa da tutti, se hai bisogno di avere la palla tra le mani e disporre di molti tiri, come forse nel caso di un giovane agli esordi come Wiseman, diventa più difficile. Per me si trattava di prendere dieci rimbalzi, piazzare un paio di stoppate e distribuire cinque o sei assist, magari segnando qualche canestro quando Steph [Curry] o Klay [Thompson] venivano raddoppiati, e io ero felice così. Se fossi arrivato a Golden State quando ero anche io giovane come Wiseman, forse avrei fatto la stessa fatica, ma l’esperienza maturata nei dieci anni precedenti mi ha aiutato nell’accettare quel tipo di ruolo.
Il vero segreto del successo degli Warriors
Sempre restando agli Warriors, c’è un termine che coach Steve Kerr usa spesso per definire ciò che veramente conta per la sua squadra e questo termine è ‘connettività’, ovvero la capacità di un giocatore di ‘connettersi’ con i compagni. Cosa pensi di questo aspetto e come si è tradotto il concetto di ‘connettività’ durante la tua esperienza sulla Baia?
“Quella squadra era prima di tutto formata da gente giusta, ragazzi scelti al Draft, altri arrivati con gli scambi, un po’ per merito della dirigenza e un po’ per pura fortuna. D’altronde non puoi mai davvero dire di conoscere una persona finché non ci condividi un posto sul bus della squadra alle due di notte, o su un volo alle sei di mattina che precede giusto di qualche ora la partita. È in situazioni come quelle che emerge la vera natura delle persone. E tutti in quella squadra, da Steph a Andre [Iguodala] a Klay, ma penso anche a Draymond ovviamente o Festus Ezeli e Harrison Barnes, persone davvero speciali con cui era bello trascorrere del tempo anche fuori dal campo. Ed è fuori dal campo che impari a conoscere la persona e non solo il giocatore, è durante le cene o i pranzi che vieni a scoprire che un tuo compagno ha un passato difficile o ha vissuto una tragedia, e lì si crea quella ‘connettività’ a cui fa riferimento coach Kerr. Se hai quella, se già avanti rispetto all’85% del resto delle squadre”.
Oggi come oggi la NBA sta vivendo una sorta di riscoperta del ruolo dei lunghi, ovviamente con gli MVP come Nikola Jokic e Joel Embiid, ma anche con giovani talenti come Victor Wembanyama e Chet Holmgre. Cos pensi di questa riscoperta e come credi sia cambiato il ruolo del lungo dai tuoi tempi a oggi?
“Devi segnare da tre! [ride, N.d.A.] Voglio dire, c’è ancora spazio per lunghi come me, Kevon Looney o Ivica Zubac per esempio, ma se vuoi giocare più dei venti, forse venticinque minuti che giocano loro devi saper segnare da fuori. Le analisi statistiche portano lì: occorre aprire il campo e i nomi che hai fatto tu sanno tutti essere pericolosi da dietro la linea dei tre punti. Anche in difesa il ruolo del centro è cambiato molto, ora si vive di continui cambi, cosa che ai miei tempi era una rarità. È altrettanto vero che la NBA era e rimane una ‘copycat league’, si tende a copiare ciò che ha funzionato per le ultime squadre che hanno vinto il titolo. Grazie al successo dei Nuggets e di Jokic ora stiamo vedendo che alcune squadre utilizzano di più situazioni di post-up, come i Sixers con Embiid o gli Spurs con Wembanyama per esempio. Se i Nuggets vinceranno ancora, è probabile che quella tendenza si accentuerà ancor di più”.