Le Olimpiadi di Durant. Ma nessuno parla di Durant

Chi si ricorda Greg Oden? Metà anni Dieci, a livello liceale, negli Stati Uniti, il suo è il nome più gettonato. Gioca nell’Indiana, culla del basket per eccellenza, e lì lo paragonano già a Bill Russell, l’uomo che ha vinto 11 titoli NBA in 13 anni con i Boston Celtics. "The next big thing" e "big" qui va letto in tutti i sensi, anche letterale: Oden, ancora minorenne, è già 2.13 e pesa 127 chili. Un gigante. D’area. Come quelli di cui il basket del terzo millennio sembra sempre di più poter fare a meno. Ma Oden è un’altra cosa: impossibile scommettere contro di lui. E difatti la pensano così anche i Portland Trail Blazers. Draft 2007. Dopo una sola annata a Ohio State la corsa alla prima scelta assoluta è tra lui e un certo ragazzino smilzo cresciuto attorno alla Capitale passato anche lui al college per un solo anno, a Texas. Si chiama Kevin Durant. Ma Portland — che nel 1984 con la scelta n°2 aveva già scelto un altro gigante, Sam Bowie , al posto di Michael Jordan — sceglie Oden. Durant va alla n°2 e finisce a Seattle, per gli allora Supersonics. Un numero e una posizione che torneranno a tormentarlo per un’intera carriera. Una carriera che a Parigi, quest’estate, ha visto uno dei suoi punti più alti. Kevin Durant è diventato l’unico atleta capace di vincere 4 ori olimpici nella pallacanestro maschile: Londra, 2012, Rio de Janeiro 2016, Tokyo 2020 e ora Parigi 2024. Non solo. È diventato anche il miglior realizzatore nella storia di USA Basketball: lo era già prima del via tra gli uomini, adesso ha superato anche Lisa Leslie, eroina a stelle strisce del recente passato. Ha vinto e ha convinto, decisivo nella gara più importante e difficile di queste Olimpiadi per Team USA, la semifinale contro la Serbia . Tanto da convincere il suo ex allenatore Steve Kerr a promuoverlo a titolare nella gara per l’oro contro la Francia, dopo essere stato usato da sesto uomo di lusso per tutto il torneo. Perché contro Jokic e compagni i suoi 9 punti contano, e tanto: i primi due arrivati solo a 10 secondi dalla fine del terzo quarto, gli altri sette tutti nell’ultimo periodo. Non sono stati 36 come quelli di Steph Curry, non è andato in tripla doppia come LeBron James, ma la sua firma l’ha messa, eccome. Una carriera all’ombra di LeBron James Già, LeBron. Durant entra nella NBA quattro anni dopo il fenomeno di Akron, Ohio, ma le loro carriere gioco forza si intrecciano a ripetizione. Mai come nel biennio 2016-2018. Ma qui bisogna fare un piccolo salto indietro nel tempo. I Seattle Supersonics — dopo la stagione da matricola di Durant — vengono trasferiti nell’Oklahoma e diventano i Thunder. KD, insieme a Russell Westbrook e James Harden, li trascina addirittura in finale, nel 2012. Perdono contro i Miami Heat di LeBron James, che quell’anno viene anche votato MVP NBA, davanti proprio a Durant. Succederà ancora l’anno successivo, così come era già successo nel 2010: LeBron vince, KD arriva secondo. Solo l’anno dopo ancora, nel 2014, le posizioni si invertono: a fine stagione è Kevin Durant a ricevere il premio di miglior giocatore NBA, mentre James gli arriva dietro. Non gli accadrà spesso, nella sua carriera, di surclassare LeBron, ma altre due volte almeno sì. E così si torna a quel biennio, tra il 2016 e il 2018. LeBron da Miami è tornato a Cleveland, portando in Ohio uno storico titolo NBA vincendo gara 7 sul campo di una squadra che sembrava imbattibile, i Golden State Warriors da 73 vittorie e 9 sconfitte in stagione regolare . Ma quella sconfitta in gara 7 convince i californiani che per consacrarsi dinastia serve un altro pezzo ancora, e quel pezzo è proprio Kevin Durant, che con i suoi Thunder gli Warriors proprio non riesce a batterli. E allora si unisce a loro, scatenando un pandemonio. Il trasferimento fa discutere, tanto: Durant — per usare la terminologia cara al wrestling — smette di essere un "face" e diventa un "heel" . Antipatico, quindi. Ma vincente. Perché in maglia Warriors non solo si mette in tasca il titolo NBA nel 2017 e nel 2018 e non solo viene votato in entrambi i casi l’MVP delle finali, ma sia in una serie che nell’altra piazza le due giocate decisive, due triple sempre in gara 3 e sempre nell’ultimo minuto . È — con ogni probabilità — l’apice della sua carriera NBA, ma Durant è tanto talento sconfinato quanto anima irrequieta. Così dagli Warriors decide di andarsene, così come aveva fatto dai Thunder, prima di aggiungere altre due tappe ai Brooklyn Nets e ai Phoenix Suns. Non è detto che l’Arizona sia l’ultima fermata del suo viaggio, ed è qui che torna ad assumere un’importanza centrale il suo ruolo dentro Team USA. Una maglia per tutta la carriera: quella di Team USA Quella casa che Kevin Durant non ha forse mai trovato in NBA, l’ha trovata in nazionale. Dove, prima di mettersi al collo 4 ori olimpici, aveva già vinto la medaglia più pregiata anche ai Mondiali del 2010 in Turchia, letteralmente dominati . Solo quest’anno a Parigi, dove ha accettato il ruolo di sesto uomo disegnato per lui dal suo ex coach a Golden State, non è stato il top scorer della selezione a stelle e strisce, com’era invece stato a Londra, a Rio e a Tokyo (pur chiudendo questi Giochi con quasi 14 punti di media e tirando con il 54% dal campo e il 52% dall’arco, prima di dichiarare: "È la miglior squadra di cui ho mai fatto parte. Non mi capiterà mai più di giocare accanto a tutti questi campioni". In quattro Olimpiadi ha segnato 518 punti totali, primo assoluto nella storia di USA Basketball e anche quest’anno i suoi canestri non sono mancati. Dai 23 punti rifilati alla Serbia all’esordio, fino ai 15 della finalissima contro la Francia. Perché è questo che Kevin Durant fa meglio di tutto, e di tutti. Segnare. È un'inarrestabile macchina da canestri, che combina centimetri , mobilità e una pulizia stilistica senza pari, che spesso fa apparire semplici canestri quasi impossibili. Più di lui, infatti, nella storia della NBA hanno segnato solo una manciata di campioni: LeBron James , Kareem Abdul-Jabbar, Karl Malone, Kobe Bryant, Michael Jordan, Dirk Nowitzki e Wilt Chamberlain. Punto. Il nome di Kevin Durant è con quello di questi fenomeni, ma la percezione è diversa. I motivi pure, sono diversi, ma pochi — forse nessuno — attengono alla pallacanestro in quanto tale. Quanto è dolce in campo, nei movimenti e nella meccanica di tiro, tanto è spigoloso fuori. Dicono sia umorale. Che abbia troppo spesso atteggiamenti passivo-aggressivi. Sono celebri i suoi litigi sui social, contro tutto e tutti, utenti sconosciuti, normali appassionati, forse qualche troll. Lui risponde a chiunque, provando — in maniera forse ingenua — a ricordare che l’unica cosa che conta è il gioco, e non le chiacchiere dei leoni da testiera. Un gioco che per Durant è quasi sacro, a cui ha dedicato tutto e dal quale è stato ripagato. In abbondanza, ma forse non del tutto.