Curry, Kerr, lo United Center e il fantasma di Jordan: quanta NBA per Kamala Harris

Calato il sipario sulla convention del partito democratico USA a Chicago, si può iniziare a tirare le somme. No, non quelle politiche, fatte di exit poll e previsioni. Ma quelle – se si vuole chiamarle così – sportive. Perché nella grande kermesse Dem che ha incoronato Kamala Harris come candidata presidente è entrato anche lo sport, più di tutti il basket NBA, e non poteva essere altrimenti. Per il luogo in cui si è svolta la convention, prima di tutto, lo United Center, ancora oggi la casa dei Chicago Bulls. Dici Bulls, dici Michael Jordan, forse uno dei modelli ancora oggi più insuperabili di America che vince . Lui, Jordan, che dello United Center all’inizio disse “Non sarà mai il mio palazzetto”, perché i primi tre titoli NBA della sua carriera li vinse sul parquet del vecchio Chicago Stadium e la nuova arena la guardava quindi con sospetto, e il giusto distacco. Finì per vincerci altri tre titoli NBA – 1996, 1997 e 1998 – consacrandosi come uno dei più grandi interpreti della storia del gioco. Se a New York lo Yankee Stadium era considerato “the house that Ruth built”, la casa costruita da Ruth, lo United Center deve la sua esistenza ai voli sopra il ferro di Michael Jordan, l’attrazione che tutti volevano vedere . Paolo Giordano, su “Il Corriere della Sera”, inizia così il suo reportage sull’ultimo giorno della convention democratica: “Non ero mai stato a Chicago. Eppure è da Chicago che ho ricevuto il mio primo pezzo d’America. Avevo nove o dieci anni quando mio padre partecipò a un convegno medico e mi portò come souvenir un gagliardetto dei Chicago Bulls. Non giocavo a pallacanestro, non ne sapevo granché, ma erano gli anni di Michael Jordan e almeno questo lo sapevano tutti. Il gagliardetto era di una plastica lucida e aveva un odore specifico, di vernice. Chiesi a mio padre di appenderlo sopra la porta e lì è rimasto per anni. Non so cosa ne è stato né quando ho deciso di sbarazzarmene. Ma un po’ mi dispiace. Era l’America nella mia stanza, molti anni prima di vederla di persona”. Oggi quell’America dagli spalti dello United Center non fa più il tifo per Michael Jordan ma per Kamala Harris, una che nel suo ufficio alla Casa Bianca ha sempre tenuto esposta una maglia NBA, quella dei Golden State Warriors con il n°49 e una scritta sulle spalle che crea un facile gioco di parole tra la sigla MVP e l’acronimo di Vice-President. Quella scritta la incorona “Madame VP” e sta lì proprio dove dovrebbe stare il suo cognome, Harris, che però ha trovato e trova ancora spazio su altre canotte NBA. Diciotto infatti gli Harris che nella storia hanno giocato e giocano nella lega - uno appena ritiratosi, un altro forse il più forte di tutti, da quest’anno a Detroit, compagno del nostro Simone Fontecchio – e tre anche nella WNBA, la lega femminile . E non è un caso che appena prima del via dei giochi olimpici di Parigi, Kamala Harris, in Nevada per un tour elettorale, abbia fatto una breve apparizione al training camp di Team USA a Las Vegas, augurando il tradizionale “in bocca al lupo” allo squadrone di superstar NBA in missione per l’oro. Oro regolarmente conquistato non senza qualche patema, ma in tempi difficili - di conflitti e divisioni interne, di estremismi e polarizzazioni - vedere la bandiera a stelle e strisce sventolare vincente sulle note di “Star Spangled Banner” è simbolo di un trionfo sportivo ma anche messaggio che riunisce un Paese, e un Paese vincente. Guidata da Steve Kerr in panchina e da Steph Curry in campo , la selezione USA ha risvegliato quel sentimento patriottico sul quale Harris e i suoi insistono con convinzione nella corsa alla Casa Bianca, predicando un’unità che l’approccio divisivo di Donald Trump sembra voler distruggere. Kerr e Curry, abbiamo detto. Non a caso. Entrambi attuali simboli della squadra – i Golden State Warriors - per cui fa il tifo quella che si candida a essere la prima presidente donna degli Stati Uniti d’America; ma - nel caso di Kerr - anche qualcosa di più. Prima di diventare allenatore super vincente , Kerr è stato giocatore, un biondino dalle doti atletiche limitate ma dal tiro micidiale. E lo United Center di Chicago lo conosce bene, perché al fianco di Michael Jordan ci ha vinto tre dei suoi cinque titoli NBA . È Steve Kerr, maglia n°25 sulle spalle, che in gara-6 delle finali NBA 1997 contro gli Utah Jazz segna il canestro dalla vittoria a 5 secondi dalla fine raccogliendo un assist proprio di Michael Jordan, e dando così ai Chicago Bulls il loro quinto titolo NBA del decennio. È Steve Kerr l’uomo che il rispetto di Michael Jordan, il più feroce agonista che lo sport abbia mai conosciuto, se l’è guadagnato con una leggendaria zuffa in allenamento finita a pugni in faccia. Mai un passo indietro – anzi, uno in avanti. Come quello che oggi – vicino ai 59 anni – Kerr ha scelto di fare accettando l’invito di Harris a parlare dal palco della convention democratica di Chicago, nel “suo” United Center. “In quegli anni c’erano vibrazioni incredibili, in questo palazzetto. E oggi qui ritrovo lo stesso winning spirit, lo spirito vincente”, dice Kerr. Che accetta i rischi di esporsi perché – dice – “da allenatore” credo “in un certo tipo di leadership”, e ne elenca le caratteristiche: “dignità, onestà, amore verso il prossimo”. Poi, ovviamente, parla dei trionfi di Parigi, 24 giocatrici e giocatori, donne e uomini, premiati con l’oro, “la miglior metafora di quello che deve tornare a essere questo Paese”, capace di vincere se torna a far gruppo, unito. Quell’unità che nell’ultimo giorno di convention è anche la parola d’ordine che fa risuonare all’interno dello United Center Steph Curry, con un messaggio video proiettato sul jumbotron che lo vede sorridente con l’oro di Parigi al collo. “È questo tipo di unità, in campo e fuori, che ci ha ricordato come, assieme, possiamo raggiungere qualsiasi obiettivo”. Una medaglia olimpica. O, forse, perfino la Casa Bianca.