Perché è importante conoscere la storia di Maya Moore

Immaginatevi LeBron James che dice, di un altro sportivo: “Una leggenda assoluta”. Potrebbe parlare di Messi, forse . Acqua. Magari di Tom Brady . Acqua. Michael Jordan? Bill Russell? Fuochino, perché lo sport è quello. Ma per passare da fuochino a fuoco occorre un altro scarto ancora, contro-intuitivo: lasciare i parquet e salire sul ring. E arrivare a Muhammad Ali. Non perché sia “The Greatest” lo sportivo oggetto di tutta l’ammirazione possibile da parte di LeBron James, ma perché la storia di Ali è quella forse più simile a quella di Maya Moore. Perché è lei – Maya Moore – che LeBron James incorona con il titolo di “leggenda assoluta”. E ci mancherebbe altro, verrebbe da aggiungere. Ha vinto tutto, dal liceo alla WNBA, in America e nel mondo Le perplessità, a un primo impatto, sono inevitabili. Come si fa a paragonare Muhammad Ali, uno sportivo – anzi, un uomo – che ha fatto la storia a una giocatrice di pallacanestro americana certo non così conosciuta? Muhammad Ali – un soprannome come “The Greatest” mica te lo regalano – è stato il più grande di tutti, è stato campione del mondo, ha lottato sul ring e forse ancora di più fuori, contro il razzismo, contro il sistema, contro le ingiustizie. Sconfitto solo da una malattia, il Parkinson, ma non prima di averci regalato quell’ultima immagine, il suo braccio che trema e la fiaccola olimpica di Atlanta 1996 che si accende e illumina il cielo. Da Roma 1960 ad Atlanta 1996, e in mezzo tante di quelle cinture di campione del mondo da perdere il conto - WBC, WBC, qualsiasi sigla vogliate. E Maya Moore? Un primo paragone lo si può avanzare proprio guardando ai suoi titoli sportivi, e partendo da quelli. Miglior giocatrice d’America già ai tempi del liceo, riceve lo stesso riconoscimento due volte anche a livello collegiale, dove guida l’università di Connecticut a un bis di titoli NCAA, nel 2009 e nel 2010. Poi fa il suo ingresso nella WNBA, ed è subito matricola dell’anno. Viene votata sei volte All-Star ma, soprattutto, con la maglia delle Minnesota Lynx è capace di vincere tutto. È inarrestabile in attacco , ma è decisiva anche in difesa . La sua carriera nella lega dura otto stagioni, in quattro di queste – dal 2011 al 2017 – vince il titolo WNBA. È votata miglior giocatrice delle finali nel 2013 e miglior giocatrice di tutta la lega nel 2014. Disputa due Mondiali con la maglia di Team USA: li vince entrambi . Partecipa a due Olimpiadi: si mette al collo due medaglie d’oro . Ora, forse, il paragone con Muhammad Ali inizia ad aver senso. Ma è solo l’inizio. Il 6 febbraio 2019 cambia tutto Nel febbraio 2019 Maya Moore non ha neppure 30 anni e si può dire sia all’apice della sua carriera. La stagione più recente, la sua ottava nella lega, l’ha chiusa con 18 punti e più di 5 rimbalzi di media, con anche 1.7 recuperi a partita . È una superstar affermata, è il nome di riferimento nel mondo della pallacanestro femminile USA. È lei che ha raccolto a pieno titolo il testimone consegnatole dalle leggende di ieri, Sheryl Swoopes e Lisa Leslie, Lauren Jackson e Candace Parker. E poi, il 6 febbraio 2019, con una lettera aperta pubblicata sul sito The Players Tribune, Maya Moore schiaccia il tasto “STOP”. L’anno prossimo non giocherò a pallacanestro da professionista. Ci sono tanti modi diversi di misurare il successo […] e io misuro il mio chiedendomi: “Sto realizzando davvero lo scopo per cui vivo?” Maya Moore dice al mondo che la pallacanestro non è più la sua priorità. Ne indica altre due: la famiglia. La fede. E così volta pagina. Non è un addio. Non ancora. Si ferma per un anno. Che diventa presto un altro ancora: niente pallacanestro neppure nel 2020 . Poi nel 2021 – nella sua premiata serie di documentari “30 for 30” – ESPN fa uscire “Breakaway”, e il quadro inizia a delinearsi un po’ più chiaramente, i pezzi del puzzle iniziano a incastrarsi, si inizia a vedere quella che gli americani chiamano la big picture. “Win for Justice”: un nuovo tipo di vittoria Già nel 2016, infatti – una stagione che le sue Lynx avevano chiuso vedendo svanire il titolo solo in finale, dopo aver vinto quello del 2015 e prima di vincere ancora nel 2017 – Maya Moore ha fondato “Win for Justice”. Si tratta di un’organizzazione che vuole contrastare il poter eccessivo dei pubblici ministeri nelle aule di giustizia americane e portare maggior equilibrio all’interno del sistema di giustizia penale statunitense. Un caso, in particolare, diventa il simbolo del suo impegno. Nel 1997, in Missouri, un giovane ragazzo afroamericano di 16 anni, Jonathan Irons, viene arrestato e condannato – da una giuria di soli bianchi - a 50 anni di reclusione per il suo ruolo in una sparatoria, senza vittime e, soprattutto, senza nessuna evidenza fisica a supporto di una sentenza così pesante per quello che è a tutti gli effetti un reato di “furto con scasso e aggressione”. È già in carcere da dieci anni quando Moore lo incontra per la prima volta, grazie a un suo parente che con Irons condivideva la passione per il canto in un coro di chiesa. Col permesso della madre di lui, Moore e Irons iniziano a scriversi, lunghe lettere cui si aggiungono presto lunghe telefonate, quando le regole carcerarie lo permettono. Tra loro nasce una relazione, che col tempo diventa amore. E l’amore – come nelle favole, e questa per alcuni versi ci assomiglia – travolge tutto. Quella lettera datata 6 febbraio 2019 è la diga che si rompe, e l’ondata di fatti che ne segue scorre veloce, impetuosa: a marzo 2020 cadono le accuse contro Irons; il 1 luglio viene rilasciato, libero dopo 23 anni di ingiusta detenzione; nove giorni dopo Moore e Irons si sposano, come lei rivela solo a settembre in un’apparizione televisiva a “Good Morning America”, uno dei programmi simbolo di ABC; nel febbraio 2022 arriva anche il loro primo figlio . Solo un anno dopo, è il gennaio 2023, Maya Moore torna in tv, ancora ospite di “Good Morning America”, stavolta per annunciare il suo ritiro definitivo dalla pallacanestro. “Ho smesso di giocare quattro anni fa – racconta – ma ora voglio rendere ufficiale il mio ritiro”. Il perché del paragone con Muhammad Ali Anche la carriera di Muhammad Ali, come quella di Maya Moore, vede uno stop improvviso. Imposto, però. Non scelto. Dal marzo 1967 all’ottobre 1970 il più forte pugile al mondo non combatte un singolo incontro. Si è sottratto alla leva militare : come conseguenza gli viene revocata la licenza a combattere e ritirato il passaporto. Quello di Ali - la sua presa di posizione politica - è un gesto importante, addirittura nobile, certamente storico e giustamente celebrato. Come andrebbe celebrato quello di Maya Moore, una campionessa che all’apice della sua carriera sceglie di rinunciare a fama, riflettori, soldi e vittorie per impegnarsi in una causa che dà un nuovo senso alla sua vita. Non c’è qualcuno che la ferma. È lei che decide di fermarsi. Se non si trovano altri esempi del genere, nel panorama sportivo mondiale, è semplicemente perché non ce ne sono. “Sto realizzando davvero lo scopo per cui vivo?”. Lo si può chiamare scopo, o vocazione, causa, forse anche sfida, per restare in ambito sportivo. E Maya Moore, le sfide, non le affronta soltanto: Maya Moore, lo dice la sua carriera e la sua vita, le sfide è abituata a vincerle. Come ha vinto quella per Irons, come vuol vincere quelle ancora aperte, oggi anche con suo marito al fianco. Guardando al futuro, ma senza dimenticare il passato – che ogni tanto ritorna. Come pochi giorni fa, quando le Minnesota Lynx hanno scelto di ritirare la sua maglia n°23 in occasione della partita interna contro le Indiana Fever del nuovo fenomeno WNBA, Caitlin Clark. Perché lo sport va avanti, produce sempre nuovi campioni, guarda sempre al prossimo fenomeno. Ma fermarsi ogni tanto fa bene. Ce lo ha insegnato Maya Moore.