L’anno in cui Derrick Rose è stato il più forte del mondo

C’è stato un momento in cui Derrick Rose veniva rappresentato come l’ultimo baluardo del bene contro le forze del male. Era la stagione 2010-11 e il mondo della pallacanestro stava ancora facendo i conti con ‘The Decision’, il momento in cui LeBron James decise di unirsi a Dwyane Wade e Chris Bosh ai Miami Heat per creare un nuovo ‘super team’. Una decisione che tantissimi non apprezzarono, facendo nascere immediatamente un folto numero di ‘haters’ che non vedevano l’ora di vedere i nuovi e arroganti ‘Big Three’ perdere sonoramente. Derrick Rose era il loro salvatore, anche se non tutti ne erano convinti che potesse diventarlo. Quando nell’autunno del 2010, alla vigilia dell’inizio della stagione, chiese in conferenza stampa “Perché non posso essere io l’MVP di questa lega?” venne preso per pazzo. Certo, nei suoi primi due anni ai Chicago Bulls aveva fatto meraviglie: aveva stravinto il premio di rookie dell’anno, aveva ben figurato in una memorabile serie di playoff contro i Boston Celtics di Pierce, Allen e Garnett, e alla sua seconda stagione era stato convocato per l’All-Star Game, il primo a riuscirci con la maglia dei Bulls dai tempi di Michael Jordan più di dieci anni prima. Ma l’MVP? In una lega in cui c’erano ancora LeBron, Kevin Durant, Kobe Bryant, Dwight Howard, Wade, Carmelo Anthony e Dirk Nowitzki tutti nel loro prime? Le sue parole sembravano quantomeno premature. Invece aveva ragione lui. Con l’arrivo in panchina di Tom Thibodeau, fino a quel momento solo un assistente di cui si parlava un gran bene ma tutto da registrare come capo allenatore, Chicago passò dall’essere una squadra da 50% di vittorie a un’annata da 62-20, come non accadeva dall’ultimo titolo del 1998 con MJ. Finì con il miglior record della lega e al centro di tutto c’era indiscutibilmente Rose, nominato MVP della regular season con 113 primi posti su 121 — il più giovane di sempre nella storia della NBA a soli 22 anni. Bisognava essere presenti per poter capire l’esplosività con cui Rose ha interpretato la posizione di point guard. Prima di lui non si era mai visto un giocatore così atletico e potente con il pallone tra le mani, effettuando cambi di direzione con una velocità supersonica e detonando in area per schiacciate mozzafiato, oppure contorcendo ogni centimetro del suo corpo per evitare i difensori e concludere al ferro con entrambe le mani. Quell’anno non c’era niente che si potesse fare per impedirgli di raggiungere il pitturato, e grazie a un tiro da tre punti nettamente migliorato, trascinò il farraginoso attacco dei Bulls praticamente da solo, mentre gli schemi di Thibodeau e la sapienza di Joakim Noah facevano il resto in difesa. Lo show si trasferì anche ai playoff: 75 punti complessivi nelle prime due partite per indirizzare la serie contro Indiana verso un comodo 4-1; quasi 30 punti e 10 assist di media nelle sei gare necessarie per eliminare gli Atlanta Hawks ; e infine la resa dei conti in finale di Conference contro gli ‘Heatles’. Chicago vinse gara-1 guidata dai 28 punti di Rose, ma forse era un po’ troppo chiedergli di battere James, Wade e Bosh nell’assoluto prime della loro carriera, facendo i conti con l’inefficienza del suo gioco e con la difesa di un LeBron in missione per dimostrare a tutti di essere ancora il miglior giocatore del mondo. Nonostante la delusione per la sconfitta, il futuro sembrava comunque roseo per lui e per i Bulls. Era ormai riconosciuto da tutti come uno dei volti di riferimento della lega e la sua storia personale — nato e cresciuto in uno dei peggiori sobborghi di Chicago, venendo scelto alla numero 1 del Draft dalla squadra della sua città che aveva solo l’1.7% di possibilità di vincere la Lottery — lo aveva reso facile preda del marketing, firmando un contratto di 14 anni con il marchio di abbigliamento che lo aveva accompagnato fino a quel momento e creando un marchio personale che, nelle più rosee aspettative, doveva rivaleggiare quello di Air Jordan. Oggi sappiamo che non è andata così, ma fa capire quanto fosse grande e riconosciuto il nome di Rose all’epoca, e quanto ci si aspettasse da lui dopo quell’inattesa stagione da Most Valuable Player. Nella stagione accorciata dal lockout, i Bulls si ripresentarono con una versione persino migliore della squadra dell’anno precedente, selezionando una giovane ala da Marquette di nome Jimmy Butler e aggiungendo il veterano Rip Hamilton al nucleo capace di vincere 62 partite nel 2011. Una squadra così forte e ben allenata da riuscire a fare a meno anche di Rose, che tradito da qualche acciacco fu costretto a saltare 27 partite su 66 per infortunio, di cui 17 delle ultime 23, con i Bulls capaci comunque di concludere al primo posto nella Eastern Conference con 50 vittorie. Col senno di poi, i segnali che qualcosa non stesse funzionando nel suo corpo così assurdamente atletico ed esplosivo c’erano già, ma nessuno voleva sprecare la miglior opportunità di vincere il titolo dopo un decennio abbondante in cui la franchigia, dopo essere diventata iconica in tutto il mondo negli anni Novanta, era finita nell’anonimato di metà classifica. All’esordio ai playoff del 2012 la sua carriera e la sua vita sono cambiate. I Bulls erano avanti di 20 a 4 minuti e mezzo dalla fine sui Philadelphia 76ers, testa di serie numero 8 non particolarmente pericolosa. Gli ospiti però erano rientrati fino al -12 e coach Thibodeau, sempre molto restio a togliere i suoi titolari anche a punteggio apparentemente acquisito, tenne in campo tutti a partire proprio da Rose, in odore di tripla doppia con 23 punti, 9 rimbalzi e 9 assist fino a quel momento. Effettuando uno dei tanti cambi di direzione che lo avevano fatto diventare uno dei giocatori più amati della lega, a 1 minuto e 22 secondi dalla fine il legamento crociato anteriore del suo ginocchio sinistro cedette di schianto, lasciandolo a terra mentre si toccava la gamba. È un’immagine che ancora oggi tormenta tutti i tifosi dei Bulls e gli appassionati di pallacanestro, perché quel Derrick Rose lì non l’abbiamo più rivisto. Da quel maledetto 28 aprile in poi è cominciato un calvario che lo ha costretto a saltare l’intera stagione 2012-13 . Nell’autunno del 2013 il suo ritorno in campo era stato estremamente pubblicizzato e in pre-season sembrava aver lanciato segnali incoraggianti, mostrando un po’ dell’esplosività e delle conclusioni acrobatiche che lo avevano reso MVP. Diceva che il suo salto era migliorato di quasi 13 centimetri rispetto a prima dell’infortunio, ma chissà se ci credeva per davvero. Il canestro della vittoria realizzato contro i New York Knicks alla sua seconda gara ufficiale dopo il rientro aveva dato l’impressione che potesse essere ancora lui, ma nelle prime 10 partite di regular season non superò mai i 20 punti realizzati, sempre con percentuali al tiro inferiori al 50%. Qualcosa non stava funzionando, sembrava aver perso i superpoteri lasciando solo le parti più inefficienti del suo gioco. La parola fine è arrivata il 22 novembre 2013, quando si infortunò al menisco della gamba destra, annunciando che la stagione di ‘The Return’ tanto attesa era già finita. Quello che è seguito negli anni successivi è stato un lungo percorso fatto di delusioni e di estemporanee esplosioni . Al traumatico addio a Chicago fece seguito una buona stagione a New York, una tremenda esperienza a Cleveland durata solo 16 partite, un tentativo di rinascita a Minnesota nel 2018-19 e un discreto anno e mezzo a Detroit accettando di uscire stabilmente dalla panchina per la prima volta in carriera. Una normale sequenza di squadra da journeyman, senza più lasciare davvero il segno su una lega che sembrava destinata a essere sua e alla quale invece non apparteneva più. Quando anche il suo mentore Tom Thibodeau ha deciso di non farlo più giocare a New York si è capito che il suo tempo in NBA era finito, allungandosi solo per un’ultima stagione a Memphis dove 15 anni fa aveva trascinato l’università della città fino alla finale del torneo NCAA, perdendo contro Kansas. L’annuncio del suo ritiro non ha sorpreso davvero nessuno, ma ha rinfrescato i rimpianti per quello che sarebbe potuta essere una carriera da Hall of Fame e invece lo ha reso l’MVP più sfortunato della storia della lega, l’unico che forse non vedrà il suo nome inserito nell’arca della gloria di Springfield . Chi c’era in quegli anni, chi lo ha vissuto e chi ha avuto la fortuna di vederlo dal vivo, però, non se lo potrà mai dimenticare.