Il talento della mosca: Dikembe Mutombo e l'arte della stoppata

Ai tempi dei grandi centri la pallacanestro era una cosa davvero diversa rispetto a quella di oggi: là sotto serviva una trave portante in grado di sopportare il peso della squadra. Il materiale di cui era fatta poteva cambiare, a seconda degli interpreti. Potevi scegliere tra la coordinazione di David Robinson, la presenza fisica di Patrick Ewing, l’eleganza di Hakeem Olajuwon, lo strapotere di Shaquille O’Neal e l’intensità di Alonzo Mourning. Era la Belle Époque dei centri e da loro obbligatoriamente si passava. La viabilità del gioco era fatta di sensi unici e tutti convergevano in quella zona sotto al ferro - a meno che in campo non ci fosse Michael Jordan, ma per lui e pochi altri valeva ieri e vale ancora oggi la frase di Orwell per cui "tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri". Eccellere ieri nel ruolo di centro era come far parte oggi dell’élite nel ruolo di guardia – o playmaker, se preferite. Se un giocatore fosse in grado di affrontare quasi alla pari e di mettere in difficoltà Curry, Lillard, Paul, Westbrook, Harden e Doncic saremmo già pronti ad accoglierlo ai tavoli importanti, quelli con i limiti di puntata molto alti. Dikembe Mutombo non possedeva le caratteristiche che hanno definito la grandezza dei centri di quell’era geologica ormai lontana, ma a quel tavolo poteva sedersi insieme a loro. Era in grado di metterli in difficoltà, era persino in grado di batterli. Sì, Madre Natura qualcosa gli aveva regalato – 2 metri e 18 di altezza e 227 centimetri di apertura alare, ma a basket aveva iniziato a giocare tardi e nei suoi geni non era scritta una carriera da Nureev del parquet. Un qualsiasi allenatore del settore giovanile lo avrebbe rispedito al minibasket dopo averlo visto tirare o palleggiare, ma Dikembe Mutombo Mpolondo Mukamba Jean-Jacques Wamutombo era uno di quelli che ignorano i propri limiti. E, soprattutto, possedeva il talento della mosca. A prenderne una ci abbiamo provato tutti. Di solito nel momento in cui l’abbiamo vista volare via beffarda il primo pensiero è sempre stato ma quanto sono veloci? Nel suo caso non di velocità si trattava : si trattava di percezione del tempo. Un essere umano riceve gli impulsi di luce a una frequenza di 60 flash al secondo, una mosca li riceve a 250. Insomma, per una mosca noi ci muoviamo al rallentatore. Alla metà degli anni ’90, su un campo da basket, nei pressi del canestro, in quel secondo in cui un giocatore tira e l’altro cerca di contrastarlo era come se per Dikembe Mutombo tutti si muovessero al rallentatore. Lo rubava all’avversario, quel singolo secondo e mentre glielo portava via, lo stoppava. Perché questo faceva meglio degli altri: stoppava, difendeva. E dopo ogni stoppata l’indice della mano destra oscillava a destra e a sinistra come il corsoio di un metronomo. Un gesto, una firma. Indelebile. Nelle cinque gare della serie di primo turno dei Playoff del 1994 tra i suoi Nuggets e i Seattle Sonics ne fece più di sei di media. A trent’anni di distanza è un dato a cui si fa ancora fatica a credere. Un modo per spostare gli equilibri e dare un indirizzo preciso a una partita o addirittura a una serie lo aveva trovato. Non solo, aveva trovato un modo per entrare nella testa degli avversari. La pallacanestro è uno sport fatto di numeri e statistiche – si studiano le tendenze, come si dice oggi. No, non è del tutto esatto: la pallacanestro è uno sport fatto anche di numeri e statistiche. Da un certo punto in poi, contano altre cose. La paura – sportiva, ovviamente – che riesci a instillare nell’avversario è una di queste. Chi comanda il gioco si nutre della altrui frustrazione. Se sei dalla parte giusta sei temuto e gli altri si sentono in soggezione. Se sei da quella sbagliata diventi esitante, timoroso, ti sembra di vivere in una perenne condizione di svantaggio. È la sensazione che a metà degli anni ’90 provava chiunque fosse costretto ad affrontare Dikembe Mutombo, che il mestiere di stoppatore lo faceva meglio di chiunque altro. Se siete convinti che il domicilio del talento sia solo la metà campo offensiva pensate a lui, a quel singolo secondo in cui diventava più forte di Robinson, Ewing, Olajuwon, O’Neal e Mourning. E di fronte all’incredulità di chi non pensava fosse possibile, Dikembe Mutombo agitava quel dito. Per ricordargli che era tutto vero.